CAPITOLO 6

Apprendimento, dati e informazioni

Che cosa vuol dire apprendere? Vuol dire fare qualcosa che modifichi le connessioni tra i neuroni in modo che una certa nozione o una certa azione divengano parte del nostro patrimonio. L’apprendimento non solo rende possibile recuperare informazioni dalla memoria quando necessario, ma aumenta la nostra capacità di reagire in modi validi in risposta agli stimoli determinati dall’esperienza. Apprendere è quindi una capacità fondamentale per la sopravvivenza di ogni essere vivente e ancor più lo è per noi, che viviamo in un ambiente che abbiamo reso sempre più complesso. Imparare in ogni momento è quindi la condizione usuale per tutti gli esseri umani: bambini, ragazzi e adulti. Attenzione, però! Stiamo parlando di apprendimento come mattone fondamentale della crescita fisica e psichica dei nostri ragazzi in questo mondo tecnologico, non stiamo parlando del loro addestramento all’uso di una qualche tecnologia. È una distinzione importante perché spesso la scuola e di riflesso noi genitori, finiamo per ridurre l’educazione a una mera acquisizione di nozioni operative che riteniamo utili per il loro futuro.


I genitori si preoccupano spesso di come e di cosa i loro figli imparino a scuola e soprattutto se imparano qualcosa. Le preoccupazioni sono maggiori nelle scuole non tradizionali, perché spesso non sono compresi appieno i meccanismi che fanno funzionare l’educazione impartita. Io stesso ho visto alla scuola Montessori di mio figlio genitori in ansia perché a loro sembrava che i figli lì passassero il tempo solo a giocare. A parte l’equazione apprendimento uguale ore sui banchi, anche questi genitori apprensivi trascurano però tutto quello che i figli imparano fuori dalle mura scolastiche. Per noi adulti apprendere è inestricabilmente associato a lunghe ore chini sui libri e di conseguenza, se non vediamo i nostri figli fare lo stesso, pensiamo non imparino nulla. Anche in questo, mi duole dirlo, noi adulti non perdiamo il vizio di porre noi stessi come centro e riferimento dell’universo intero a discapito dei nostri figli.


Cominciamo col convincerci che nel nostro mondo tecnologico i giovani apprendono e vedono la realtà in maniera differente, non solo a scuola. Captano i segnali multimediali che li circondano. Usano la tecnologia per apprendere, magari non quello che è previsto nel programma scolastico. Si emancipano dalle strutture rigide del pensiero lineare che noi adulti tanto amiamo. Pensano attraverso il fare. Non apprendono per assorbimento, ma per tentativi ed errori e per esperienza diretta. Amano produrre e amano lavorare assieme ai loro coetanei. Analizzeremo tutto questo in dettaglio nel corso del capitolo iniziando a considerare, o magari a riconsiderare, come apprendiamo e soprattutto come apprendono i nostri figli in questa era tecnologica.


Il primo aspetto, di validità universale ma spesso dimenticato, è che l’apprendimento viene da dentro, non è qualcosa che può essere calato dall’alto. Maria Montessori considera questa caratteristica come la più critica per l’apprendimento e la crescita: “…e per di più abbiamo imparato da lui alcuni principi fondamentali di psicologia. Uno di essi è che il bambino deve imparare grazie alla sua attività individuale, dev’essere lasciato intellettualmente libero di scegliere quello di cui ha bisogno, senza che la sua scelta venga discussa. Il nostro insegnamento deve solo rispondere ai bisogni intellettuali del bambino, non deve mai imporli. Proprio come un bambino piccolo non può stare fermo perché ha bisogno di coordinare i suoi movimenti, così il bambino più grande, che sembra turbolento per la sua curiosità di sapere il che cosa, il perché e il come di tutto quello che vede, con la sua attività mentale sta organizzando la propria intelligenza e gli deve essere offerto un campo vasto di cultura in cui nutrirsi”1 . Ecco un primo suggerimento per noi genitori: offriamo loro, anche con l’aiuto della tecnologia digitale, “un campo vasto di cultura in cui nutrirsi”.


Mio figlio mi raccontava come sceglieva un lavoro dallo scaffale e continuava a lavorarci su divertendosi fino a quando il lavoro non era completo con la sicurezza di essere libero di osservare, sperimentare, verificare e tentare strade alternative e, a lavoro terminato, andare anche oltre. Un apprendimento che nasce dall’interno e sperimentato lungo tutto il percorso scolastico. “Scoprimmo così che l’educazione non è ciò che il maestro dà, ma è un processo naturale che si svolge spontaneamente nell’individuo umano; che essa non si acquisisce ascoltando delle parole, ma per virtù di esperienze effettuate nell’ambiente”2 . Alla luce di queste parole il motto “Aiutami a fare da solo” ha perfettamente senso. Un motto che è valido non solo per i primi anni di vita di un bambino, ma che è stato fatto proprio da famosi innovatori. Per esempio Amazon, racconta il suo fondatore Jeff Bezos, “è nata seguendo il metodo montessoriano della scoperta, vale a dire, non c’è una strada predefinita da seguire, ma molti sentieri da esplorare. Alcuni di questi porteranno a dei vicoli ciechi, ma prima o poi si troverà quello giusto”. Larry Page e Sergej Brin, i fondatori di Google, in un’intervista3 hanno dichiarato: “Credo che buona parte del merito del nostro successo sia dovuto all’educazione [Montessori] che abbiamo ricevuto. Il non dover forzatamente seguire delle regole o degli schemi, il poterci autogestire, il poter mettere in discussione cose che ci venivano date per assodate ci ha permesso di agire un po’ differentemente dagli altri e diventare quello che siamo”.


Infine, come non citare il pioniere dei videogiochi Will Wright: “Il metodo Montessori mi ha insegnato la gioia della scoperta. Anche teorie e concetti complicati come il Teorema di Pitagora potevano diventare interessanti e divertenti agli occhi dei bambini utilizzando semplicemente delle costruzioni e dei blocchi di legno. L’importante è che lo studente apprenda con i propri mezzi e i propri tempi, senza che l’insegnante lo «imbocchi» con risposte preconfezionate. SimCity nasce esattamente in questo modo”4 .


La seconda caratteristica dell’apprendimento è che non avviene nel vuoto, avviene sempre tra individui in carne e ossa all’interno di una comunità umana, prima rappresentata dalla famiglia e poi dalla scuola. Per il pedagogista John Dewey5 “la scuola è prima di tutto un’istituzione sociale. Essendo l’educazione un processo sociale la scuola è semplicemente quella forma di vita di comunità in cui sono concentrati tutti i mezzi che serviranno più efficacemente a rendere il fanciullo partecipe dei beni ereditati dalla specie e a far uso dei suoi poteri per finalità sociali; l’educazione è perciò un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro”. Che la scuola sia prima di tutto un’istituzione sociale ce lo dimostrano i problemi della didattica a distanza nei primi giorni della recente pandemia. Se anche a mio figlio adolescente la scuola e i compagni mancavano da matti, figuriamoci per i bambini piccoli! Parlare di scuola è certamente importante, ma ci distrae dall’obiettivo principale di questo libro: vedere in quali aspetti dell’apprendimento la tecnologia gioca un ruolo importante, in modo da capire in che cosa e come possiamo guidare i nostri figli. Delle parole di Dewey conserverei però un’idea: “L’educazione è perciò un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro”. A mio avviso, pagare assieme al proprio figlio la bolletta del gas, fargli usare assieme a noi l’e-banking per saldare una fattura o cercare assieme di muoversi con agilità nei risultati di un motore di ricerca sono educazione per il futuro, non il pretendere lezioni di coding perché “ti servirà per il lavoro”.


Per convincersi vieppiù dell’importanza dell’acquisizione di nuove conoscenze, infiliamoci nel mondo informatico più avanzato dove si parla di “apprendimento automatico”, “deep learning”, “intelligenza artificiale” e così via. Tutte queste architetture hanno alla base un paradigma di programmazione delle macchine in cui queste imparano che cosa debbono fare invece di avere le azioni da compiere pre-cablate dai programmatori. Già il pioniere Alan Turing6 proponeva: “Invece di provare a produrre un programma per simulare la mente dell’adulto, perché non provare piuttosto a produrne uno che simuli quella del bambino?”. Del resto il cervello di un neonato nasce con pochi schemi di comportamento innati, poi tutto ciò che gli serve deve essere appreso dall’ambiente attraverso l’esperienza.