il terroir di Verdi Fabio Rizzari Come dice saggiamente un amico psicanalista, gastronomo e raffinato degustatore, “non si può ascoltare Verdi come si ascolta Bach. La musica di Verdi si capisce soprattutto di pancia”. È una distinzione antica. La distanza tra il rustico e sanguigno Verdi, da un lato, e la complessa macchina musicale di Wagner, dall’altro, scatena nella seconda metà dell’Ottocento vere e proprie guerre di religione. Il musicologo Eduard Hanslick arriva a scrivere che con la musica di Verdi “siamo alla béttola”, paragonando le sue opere “triviali” a una “bottiglia di liquore” scadente. Una visione decadente ed estetizzante che non coglie la poderosa energia della pagina verdiana. Accusato di non saper scrivere in modo raffinato, considerato una sorta di zappatore della partitura, Verdi ha una virtù decisiva: quella di andare dritto al punto, in maniera apparentemente brutale, in realtà ricchissima di sottigliezze compositive. Basta non fermarsi alla prima impressione. E non cadere nella semplificatoria separazione tra intelletto musicale superiore wagneriano – e teutonico in generale – e cuore semplice, da banda di paese, verdiano. La scrittura di Verdi non è infatti disincarnata, ascetica, trascendente. Proprio all’opposto, è fisica, corporea, legata alla terra. “Nella musica di Wagner si annega, è un marasma sonoro, bisogna nuotarci di continuo, ti sommerge come un’onda implacabile, imprevedibile, quando ci si concentra per l’ascolto si perde la bussola. Verdi invece è un uomo della bassa parmense, uomo di nebbia e zolla, concreto fino ad anticipare il verismo, crudo ma reale, efficace e sincero. […] Verdi ama la terra sotto i piedi, per questo adora camminare; […] compone camminando, così come Bach, libero da vincoli […]. Soltanto pensare e camminare, giudicare e camminare, decidere e camminare. È un pensiero creativo che nasce dal movimento, da uno slancio. In esso si ritrova l’elasticità del corpo sonoro, il movimento di danza, quella scrittura che molti definiscono ‘bandistica’, ma che io preferisco chiamare ‘popolare’ […]. A Verdi venne la nomina di ‘selvatico’ proprio per la sua innata libertà del camminare, si costruì la sua carriera con la volontà dell’agricoltore, quell’autonomia nella noncuranza, l’ostinata volontà di guardare solo i suoi ‘piedi e la sua terra’ ” (Claudio Ferrarini, Magazzini sonori, maggio 2014). Verdi dunque è un compositore concreto, una sorta di contadino della musica: nel senso meno retorico e più nobile del termine. Verdi era contadino non soltanto in senso metaforico, dato che coltivava ortaggi e frutta (fu ad esempio il primo a introdurre nella bassa parmense i cachi giapponesi): “L’occupazione prediletta di Verdi era di fare il fattore, s’intendeva di raccolti, di bestiame, la terra non aveva segreti e il suo contatto consisteva proprio nell’avere i piedi sempre su quel suolo. I fattori dei dintorni lo consideravano un’autorità in materia di coltivazione del terreno, e lo consultavano sulla rotazione delle semenze e sull’allevamento del bestiame” (ibid.). E in più, eccoci al dunque: Verdi faceva vino. Ne aveva ereditato l’amore dal padre Carlo, che gestiva una piccola osteria a Roncole di Busseto. Dalla vigna piantata nella sua tenuta di Sant’Agata otteneva un vino di buona qualità, come si evince da diverse testimonianze documentali, a cominciare dal carteggio con Mauro Corticelli, impresario teatrale, che nel marzo 1871 gli scrive: “Questa mattina ho cavato dal tino chiuso il vostro vino particolare, il quale caro Maestro è molto buono: color chiaro ingranata; sapore eccellente e brusco giusto, senza il più piccolo odore di legno come nei passati anni; è un vino perfetto e buono assai; gl’uomini e Guerrino mi dicono che mai il vino vostro è riescito così buono; si è riempito il vassello delle brente e in più si sono fatte 114 bottiglie, benissimo tappate”. E poco prima: “Ieri sera ho imbottigliato il vino bianco che è perfetto a non desiderare di meglio; si sono fatte 104 bottiglie, e più riempito la damigiana che conterrà altre 14 bottiglie circa. Il vino rosso che è nelle bottiglie, eguale a quello venuto a Genova, ha lo stesso difetto dell’ultimo imbottigliato a Genova che ora beve la servitù, un poco il punto”. Punto sta verosimilmente per quasi spunto: cioè per una leggera acescenza. Come fosse quel vino al gusto non è dato sapere con precisione; un accenno – “Il vino (bianco) è sortito chiarissimo come l’acqua; è buono e tiene più al duro che al dolce” – fa intuire che si preferisse un sapore tenuemente zuccherino; come si diceva un tempo, . abboccato o sulla vena Sconosciuto (ovviamente) come coltivatore, a distanza di più due secoli dalla sua nascita Verdi è un compositore famoso nell’intero globo terracqueo. Ma come per molti artisti è una fama conquistata centimetro per centimetro, in giovane età, contro la miopia o la grettezza di molti suoi contemporanei. Tra i diversi affronti, Verdi venne rifiutato all’esame di ammissione presso il Conservatorio di Milano che oggi porta il suo nome. Anche da maturo e ormai venerato maestro, gli imbecilli di turno non gli risparmiano qualche insolenza. Nel 1861 scrive irritatissimo all’avvocato Piroli: “Il mio fattore vi dirà d’un atto non so, se illegale o villano usato contro di me. Mentre i miei paesani nella corte della mia casa di Busseto stavano pigiando uva, per ingannare il tempo cantavano. La Guardia Nazionale chiamava i Carabinieri ed uniti imponevano silenzio a questi poveri diavoli. Avvi una legge che proibisca di cantare in casa propria? Ed esistendo pur questa legge, non devesi egli avvertire con un po’ d’urbanità prima d’imporre con la forza armata? Ditemi cosa si può fare, dopo d’aver ben bene interrogato il fattore. Io me ne sono stomacato, e mal volentieri digerisco questo affronto (non è il primo) de’ miei amabilissimi concittadini”.