Come dice saggiamente un amico psicanalista, gastronomo e raffinato degustatore, “non si può ascoltare Verdi come si ascolta Bach. La musica di Verdi si capisce soprattutto di pancia”. È una distinzione antica. La distanza tra il rustico e sanguigno Verdi, da un lato, e la complessa macchina musicale di Wagner, dall’altro, scatena nella seconda metà dell’Ottocento vere e proprie guerre di religione. Il musicologo Eduard Hanslick arriva a scrivere che con la musica di Verdi “siamo alla béttola”, paragonando le sue opere “triviali” a una “bottiglia di liquore” scadente.
Una visione decadente ed estetizzante che non coglie la poderosa energia della pagina verdiana. Accusato di non saper scrivere in modo raffinato, considerato una sorta di zappatore della partitura, Verdi ha una virtù decisiva: quella di andare dritto al punto, in maniera apparentemente brutale, in realtà ricchissima di sottigliezze compositive. Basta non fermarsi alla prima impressione. E non cadere nella semplificatoria separazione tra intelletto musicale superiore wagneriano – e teutonico in generale – e cuore semplice, da banda di paese, verdiano.