Le cause dell’evoluzione della viticoltura sono molteplici: storiche, geopolitiche, sociali, economiche, religiose, genetiche, climatiche, parassitarie e così via. Nella viticoltura si possono individuare due periodi: quello pre-colombiano, che inizia nel Caucaso e procede dall’Oriente all’Occidente europeo, e quello post-colombiano che parte dall’Europa per costituire la viticoltura del Nuovo Mondo. Il periodo pre-colombiano segue lo sviluppo dell’agricoltura attraverso diverse civiltà, mesopotamica, egizia, israeliana, cristiana, quest’ultima ancora fondamentale perché i consumi del vino coincidono geograficamente con la presenza della religione cristiana in Europa, America, Australia, Africa, fatta eccezione per l’Asia, con differenti religioni, recentemente conquistata dal vino. Essenziale per la viticoltura mediterranea è stata la civiltà greca, simboleggiata dall’alberello e dai vini passiti, che in Italia ha dato vita alla Magna Grecia, mentre da metà Campania alla Padania fu la civiltà etrusca a diffondere le alberate maritate ai tutori vivi e i vini della famiglia dei Lambruschi. I romani contribuirono, per ragioni militari, a estendere la viticoltura nel nord Europa, partendo da Marsiglia, risalendo il Rodano, il Reno, la Mosella e il Danubio, sino al mar Nero e al mar Caspio, antica culla della vite.
Nel periodo post-colombiano la viticoltura extraeuropea è costituita per merito degli emigranti latini (portoghesi, spagnoli, italiani, francesi). Dall’America del Nord, invece, giunsero in Europa, dal 1850 circa, tre grandi flagelli parassitari: oidio, peronospora, fillossera. Quest’ultima distrusse milioni di ettari di vigneti europei, provocando miseria e ulteriore emigrazione, fino alla scoperta dell’innesto su viti americane, tuttora fondamentale, mentre rame e zolfo ci salvarono dai parassiti fungini. La viticoltura mondiale “cammina” su piedi americani, ma è scomparsa la vite secolare franca di piede (salvo in alcune aree antifillosseriche per ragioni pedologiche o climatiche), mentre i vigneti resistono meno di vent’anni per via di altri flagelli, quali il mal dell’esca e la flavescenza dorata.
La genetica ha risolto il problema dei portainnesti, ma non quello della resistenza alle malattie, poiché i nuovi ibridi non hanno superato la prova della qualità organolettica, aromatica in particolare, specie nelle zone caldo-aride. L’espansione della viticoltura di cultura anglofona ha distrutto altresì il primato della viticoltura europea, per secoli l’unica al mondo, con la perdita di 2,5 milioni di ettari di vigneti e di un numero altrettanto grande di viticoltori.
Agli inizi del Novecento in Italia erano 3,5 milioni gli ettari coltivati a vite, di cui 900.000 in coltura specializzata e il resto in coltura promiscua, di tipo etrusco, ormai scomparsa. Nel secolo attuale sono rimasti circa 650.000 ettari di viticoltura specializzata, e ogni anno perdiamo 6/8000 ettari, con un calo dei consumi pro capite da oltre 100 litri a 37. Fortunatamente il consumo mondiale di vino si è assestato sui 240 milioni di ettolitri, grazie all’esportazione, passata da 40 a oltre 100 milioni di ettolitri su scala mondiale. Esportiamo già oltre il 50 per cento del nostro vino, ma abbiamo la necessità di formare export manager preparati per compiti molto complessi, che sappiano parlare correttamente l’inglese, adattarsi a stili di vita internazionali e conoscano i vini di territori storici. Sul piano legislativo la civiltà europea fonda le sue produzioni sul nome geografico del terroir, mentre quella anglofona è basata sul vitigno o sul brand. Nel mondo solo il 10 per cento dei vini reca in etichetta il nome del territorio, contro il 90 per cento di etichette che esprimono il nome del vitigno da solo o collegato all’origine, oppure il brand. All’Italia conviene puntare sulla strategia dei cru, poiché diffonde l’immagine del genius loci, della cultura artistica ed enogastronomica del Paese e di una regione.
Non solo: in esportazione prezzi molto più alti determinano prestigio presso i consumatori. Sempre a livello mondiale un’evoluzione costante della viticoltura è causata dai cambiamenti climatici, rimessi in discussione dalla nuova presidenza USA. Il global warming sta spostando la vite verso nord e in altitudine nell’emisfero settentrionale, o più a sud nell’emisfero opposto. Nella scelta varietale si va verso l’uniformità sensoriale, con l’impianto di pochi vitigni internazionali a scapito di quelli autoctoni. La strategia dei cru (vigna, menzioni geografiche aggiuntive) può valorizzare le nostre produzioni tradizionali, come dimostrano le esperienze del Barolo e del Barbaresco. La meccanizzazione ha ridotto fortemente la viticoltura in montagna e in collina a favore della pianura, specie nel nord Italia, con gli evidenti fenomeni del Prosecco, del Pinot grigio e del Pignoletto che sfruttano la storia e il prestigio dei vini di collina.
Anche l’uso quasi generalizzato del rittochino, in sostituzione del girapoggio, va ascritto alla necessità di ridurre i costi, a rischio di erosioni, frane, alluvioni. Tra i fattori evolutivi della viticoltura mondiale si può citare anche la nuova sensibilità dei consumatori nei riguardi della salute, da cui l’incremento mondiale di viticoltura biologica e biodinamica, che hanno ormai raggiunto il 12 per cento della viticoltura italiana. I consumi diminuiranno, specie a carico dei vini sfusi e anonimi, ma aumenteranno quelli dei vini eccellenti, con proprietà nutraceutiche. Un richiamo va fatto alla ricerca, che può imprimere pulsioni evolutive alla viticoltura internazionale, anche se per ora non è molto incentivata a livello politico. La formazione dei messaggeri del vino dovrà adeguarsi alla visione internazionale del mercato del vino e degli alimenti.