Un’appassionante storia sulla nascita di uno stile birrario ricco di luppolo e traboccante di leggende, avvicendamenti commerciali e visioni imprenditoriali rivoluzionarie.
una IPA tira l'altra
Riccardo Antonelli
Nella storia della birra una materia prima torna con costanza a reclamare la propria nobiltà e capacità di creare – o spostare – le tendenze. Di triplice impiego e con centinaia di sfumature esaltanti, proclamatore di tali destabilizzazioni è lui: il luppolo.
Amaro, aroma e capacità conservatrice fanno del luppolo la perfetta ciliegina sulla torta per completare ed equilibrare una moltitudine di stili birrari. E cosa accade quando questo elemento “di decoro” si erge e conquista rispetto, quando da sfumatura diventa protagonista, quando da ciliegina diventa la torta intera?
In passato, per aromatizzare o amaricare la birra si usavano varie tipologie di erbe selvatiche e fiori. Questo mix, diverso in base al periodo dell’anno o alla zona di produzione, costituiva il cosiddetto grüit. Esistevano specialisti, rivenditori e assemblatori di grüit i quali, girando per i birrifici europei, riuscirono a incrementare le conoscenze empiriche dei birrai grazie all’utilizzo di molteplici materie prime. Intorno all’anno 1000, a Brema, in una partita di grüit finì anche una certa quantità di luppolo selvatico, quantità destinata a crescere costantemente fino alla metà del secolo successivo, quando la tedesca Hildegard von Bingen, una suora benedettina naturalista, studiando il luppolo attraverso coltivazioni da lei stessa curate nell’abbazia di St. Rupert, in Germania, notò che esso “grazie alla sua amarezza, blocca la putrefazione di certe bevande alle quali lo si aggiunge, al punto che possano conservarsi molto più a lungo” (dal Libro delle Creature).
La birra, mediamente a basso contenuto alcolico e con un pH abbastanza alto, era sempre stata facile preda di contaminazioni biologiche. Grazie alle proprietà conservative del luppolo, ora si poteva abbandonare il grüit e si iniziò a produrre birra aromatizzando e amaricando esclusivamente con questo elemento. Nei secoli le cultivar di luppolo addomesticate si moltiplicarono, così come le conoscenze ora si poteva abbandonare il grüit e si iniziò a produrre birra aromatizzando e amaricando esclusivamente con questo elemento. Nei secoli le cultivar di luppolo addomesticatesi moltiplicarono, così come le conoscenze tecniche nel processo produttivo.
Per la nostra storia, ci concentriamo in Inghilterra. Agli inizi del Settecento le birre erano riconducibili a due filoni: le scure Porter e le bionde e amare Pale Ale, all’epoca chiamate anche Bitter. Centro nevralgico dell’eccellenza brassicola inglese era – ed è – Burton upon Trent, cittadina situata tra Londra e Liverpool, favorita dalla presenza di una falda acquifera dalle proprietà uniche. In quegli anni, tuttavia, la diffusione della birra di Burton era svantaggiata dalla mancanza di collegamenti veloci con Londra.
La Compagnia delle Indie, che attraccava a sud della capitale, per esportare le birre nelle nuove colonie scelse i prodotti di un birrificio distante poco più di un miglio dal porto: la Bow Brewery, fondata nel 1752 da George Hodgson. Hodgson, comprendendo i vantaggi di una collaborazione di tale portata, aveva fatto di tutto per stringere rapporti con la Compagnia delle Indie ed evitare che questa cercasse altri fornitori; così, aveva incluso nell’accordo un’offerta imbattibile: oltre a sconti generosi, aveva posticipato il pagamento a un anno e mezzo dalla consegna.
La Bow Brewery iniziò dunque a spedire tutte le birre presenti nel suo catalogo, tra cui ovviamente Porter e Pale Ale. Solo per un pubblico elitario, qualche birrificio produceva una Pale Ale leggermente più alcolica e più luppolata, che necessitava di un affinamento di oltre dieci mesi.