il Malbec si espAnde Betty Mezzina rgentina: un recente passato legato alle grandi quantità, un presente rivolto sempre più verso la qualità e un futuro enologico ancora tutto da scrivere e scoprire. È il ritratto, in sintesi, del quinto Paese produttore di vino al mondo e primo in America Latina. Le uniche certezze di questo gigante, che prova lentamente a svegliarsi dal suo storico torpore, riguardano la sua geografia fisica estrema – per latitudine, altitudine e clima – la giovane età media dei suoi vigneti e soprattutto il malbec, vitigno che da tempo sembra aver trovato alle pendici delle Ande la terra promessa dove esprimere al meglio le sue potenzialità. A L’industria vinicola del continente sudamericano delle origini è strettamente connessa alla politica di espansionismo coloniale spagnolo del XVI secolo, quando furono messe a dimora le barbatelle arrivate su galeoni salpati dalla Spagna; successivamente, a metà Ottocento, furono introdotte numerose varietà europee giunte dal vecchio continente al seguito della massiccia ondata migratoria composta da popoli, come quello italiano, che hanno contribuito a mantenere ben viva la cultura della produzione e del consumo del vino, tanto da fare dell’Argentina uno dei paesi con i più alti utilizzi pro-capite al mondo. Ma due sono le date impresse a fuoco nella storia del vino argentino, in particolare di quello “mendocino”. La prima è il 17 aprile 1853, quando il politico Domingo Faustino Sarmiento, futuro presidente dell’Argentina, annunciò davanti alla Legislatura Provinciale di Mendoza di voler elevare la qualità dell’industria vinicola argentina attraverso la fondazione della “Quinta Normal de Agricultura”, la prima scuola agraria del Paese, avvenuta assumendo anche agronomi stranieri fra cui il francese Michel Aimé Pouget, entrato nella storia come l’introduttore del malbec in Argentina. La seconda data è il 7 aprile 1885, quando fu inaugurato il collegamento ferroviario tra Mendoza e la capitale Buenos Aires, ovvero tra la più ampia area di produzione vinicola argentina e il più grande mercato di consumo. La coltivazione della vite si concentrò sin dall’inizio nelle vicinanze di Mendoza, grazie alle condizioni ambientali ulteriormente favorite dalle abbondanti disponibilità di acqua proveniente dalle nevi delle Ande. L’Ottocento è il periodo della fondazione di storiche aziende vinicole mendocine come Trapiche, Lagarde, Finca Flichman e Bodega Norton, attive ancora oggi. Le turbolenze politiche e sociali del Novecento, comuni a tutti i Paesi latino-americani, hanno segnato pesantemente questa nazione fino alla crisi degli anni Novanta del secolo scorso, non aiutandola certo a perseguire la via della qualità. L’unico obiettivo era produrre tanto vino al prezzo più basso possibile, per lo più ottenuto dalle varietà super-produttive appartenenti al gruppo delle cosiddette uve criolle o creole, caratterizzate da elevata resa e scarsa finezza. Tendenza proseguita sino alla fine dello scorso millennio, quando il consolidarsi di governi a matrice democratica ha favorito un’economia più stabile e condizioni idonee ad attrarre capitali e a incoraggiare nuovi attori nazionali e internazionali a entrare sulla scena enologica, cambiando così il corso del vino argentino e inserendolo saldamente nel mercato globale. Progressi tecnologici in cantina uniti a rese più basse per ettaro, drastica riduzione dell’irrigazione, ricerca di siti meno produttivi ma più idonei alla vite sono stati i principali interventi attuati per condurre l’Argentina verso produzioni enologiche di ottimo profilo organolettico ma soprattutto per svincolarla dallo stereotipo di Paese produttore di vino sfuso. Guardando all’attualità, attraverso la lente dei dati relativi al 2021 pubblicati dall’Instituto Nacional de Vitivinicultura con sede a Mendoza, emerge un Paese che cerca di modernizzarsi in particolare attraverso l’utilizzo dei vitigni internazionali. Predominano le varietà a bacca rossa con il 59,2% del totale, seguite dal 23% di uve “rosate”, ovvero le criolle, e dal 17,8% di bianche. I vitigni più allevati in Argentina sono: malbec (22%), cereza (12%), bonarda (8%), cabernet sauvignon (7%) e criolla grande (6%). L’uva che ha ampliato maggiormente la propria superficie è il malbec (+ 30.019 ettari), passando da 16.347 ettari del 2000 agli attuali 46.366, a discapito delle produttive criolle che perdono costantemente posizioni. L’indiscussa parte del leone per presenza di vigneti è recitata da Mendoza con il 70,6% della superficie totale, seguita da San Juan 20,7%, La Rioja 3,6% e Salta 1,7%. Altro dato rilevante è la gioventù dei vigneti, il 50,8% dei quali risulta messo a dimora dopo il 2000; solo l’8,5% è stato piantato prima del 1960, mentre i vigneti più antichi, del 1890, si trovano nella provincia di Salta. I sistemi di allevamento più utilizzati sono due: il parral o tendone e la spalliera, che tende sempre più a sostituirlo essendo ormai presente nel 51,5% dei nuovi impianti. Nel 2018 il malbec è stato esportato in 123 Paesi con in testa gli Stati Uniti (36,2%) seguiti da Regno Unito (18%), Canada (7,6%) e Brasile (6,9%). Il paese sudamericano deve il merito degli attuali riconoscimenti alla felice intuizione di Michel Aimé Pouget, l’agronomo francese che per primo introdusse nel 1853 le nobili varietà bordolesi fra cui il malbec, vitigno che a cavallo della fine del secondo millennio avrebbe costituito un binomio indissolubile con l’Argentina e contribuito al suo debutto nei circuiti enologici internazionali. Con radici ben piantate in Francia, questa varietà occupa attualmente un’infinitesima parte dei vigneti di Bordeaux e parte del Sud Ovest, dove copre complessivamente circa 4.400 ettari soprattutto nella storica AOC Cahors, nella quale è spesso conosciuto come côt o auxerrois. Per secoli il malbec ha giocato un ruolo di supporto nei tagli bordolesi con prestazioni altalenanti a causa della sua sensibilità alle malattie. Nel corso della storia curiosamente è citato anche come Malbeck, dal cognome di un vivaista che sarebbe stato incaricato della commercializzazione delle barbatelle nell’area a Bordeaux dove l’uva era ben presente; ma si tratta tuttavia di tradizioni tramandate oralmente in quanto mancano documentazioni ufficiali. Prima la fillossera intorno al 1877 e poi la grande gelata del 1956 decretarono in Francia l’uscita di scena di buona parte di questa varietà a favore dei reimpianti di cabernet sauvignon e merlot. Ma mentre nella madrepatria percorreva una parabola discendente, il malbec è emigrato dall’altra parte dell’oceano Atlantico, ai piedi delle Ande argentine, facendo dell’area la maggiore produttrice al mondo. E proprio grazie al ruolo da protagonista che si è ritagliato sulla ribalta planetaria, a partire dal 2011, ogni anno il 17 aprile si svolge l’evento globale Malbec World Day, per celebrare la data in cui - come detto - Sarmiento decise ufficialmente di modernizzare l’industria vinicola argentina. Il suo percorso fino ai nostri giorni, però, non è stato sempre facile né lineare; l’entusiasmo iniziale dei vignaioli argentini verso l’uva francesa - come era inizialmente conosciuta per differenziarla dalle varietà autoctone latino-americane - portò a un esponenziale aumento della superficie vitata raggiunto con gli oltre 350 mila ettari degli anni Settanta; seguirono anni caratterizzati da un mercato interno letteralmente così “assetato” di vino da raggiungere nel 1973 i 90 litri pro capite, quantità che mal si conciliavano con la produzione di varietà pregiate. Ciò condusse all’espianto dell’83% delle superfici dedicate al malbec, culminato nel 1995 quando raggiunse il suo più basso punto di diffusione con soli 9.746 ettari, corrispondenti al 4,6% del vigneto totale argentino. Nel paese del tango l’inizio del terzo millennio ha inaugurato un nuovo fortunato capitolo per questa uva grazie alla ritrovata stabilità politica e all’arrivo, fra gli altri, di personaggi del calibro di Michel Rolland, Paul Hobbs, Alberto Antonini, Hans Vinding-Diers e Roberto Cipresso, celebri flying winemaker che hanno puntato sul malbec moderno vincendo la scommessa. Lungo la Cordigliera il vitigno, rispetto alla madrepatria, si è mostrato camaleontico, adattabile ad altitudini estreme, a territori differenti e a climi desertici, sfoderando un fil rouge di potenza vellutata, carnosità e suadenza del frutto rosso fusa con un’elegante presenza speziata. Da sottolineare, inoltre, che in alcune zone il suolo morenico ricoperto in superficie da ceneri derivate da antiche eruzioni gli ha consentito di sopravvivere al grande flagello della fillossera, preservando vigneti monumentali, a volte centenari. In alcuni casi, per non disperdere il prezioso patrimonio genetico, nelle vigne viene attuata la tecnica della propaggine, modalità che permette ad ogni ceppo di riprodurre lo stesso dna di quello a fianco, garantendo nel tempo la sopravvivenza del vigneto. Condizioni a cui spesso si aggiungono una densità elevata di circa 8.000 piante per ettaro - che un tempo serviva a ottimizzare gli spazi - e rese basse (il 90% delle viti vecchie non producono più di 500 g di uva), fattori che influiscono positivamente sulla qualità. E non si sa cosa sia la chimica, grazie al clima molto secco, semi-desertico con massimo 200 mm di pioggia all’anno. L’Argentina è un Paese allungato su circa 3.800 km, dove è possibile incrociare vigneti per almeno due terzi dell’estensione: dall’arida zona di Salta a nord, alla fresca Patagonia a sud, ampiezza corrispondente nell’emisfero boreale all’area compresa tra Londra a Marrakech. La sopravvivenza delle vigne al clima arido è assicurata dall’alta quota, dalle fresche brezze e dall’acqua proveniente dai ghiacciai indispensabile per l’irrigazione, attualmente meno copiosa rispetto ai decenni scorsi; nient’affatto una cattiva notizia soprattutto se si punta a vini di pregio. Altro punto a favore del terroir argentino è l’ottima escursione termica, fino a 20 °C, più marcata di ogni altra regione vinicola al mondo. In genere è l’altitudine a creare una così grande differenza di temperatura tra notte e giorno, tranne in Patagonia, dove a influire sul clima è soprattutto la grande distanza dall’equatore. Purtroppo, alcune aree della provincia di Mendoza sono spiacevolmente soggette a grandinate localizzate ma violente, in grado di devastare il raccolto di un intero anno. Alcuni viticoltori si sono dotati di reti antigrandine, opportunamente utilizzate anche per ridurre il rischio di scottature delle uve sotto il sole intenso. Anche lo zonda, imprevedibile vento caldo e secco di nord-est, può rappresentare un problema soprattutto nelle vigne ad alta quota o nel periodo della fioritura. Mendoza rappresenta l’epicentro indiscusso della viticoltura argentina con oltre il 70% dell’intera produzione nazionale e la presenza del malbec in circa l’80% dei vigneti. Come accade nelle aree vinicole importanti, sempre più spesso gli argentini parlando di Mendoza fanno riferimento alle sottozone, ormai definite anche dalla legislazione. Ne sono state individuate cinque con i relativi dipartimenti: Mendoza Este (San Martín, Junín, Rivadavia, Santa Rosa, La Paz), Mendoza Valle de Uco (Tunuyán, Tupungato, San Carlos), Mendoza Sur (San Rafael, General Alvear), Mendoza Centro (Luján de Cuyo, Maipú, Guaymallén, Godoy Cruz), Mendoza Norte (Lavalle, Las Heras). Mediamente le vigne più alte si trovano nella Valle de Uco – zona che prende il nome da un condottiero precolombiano che avrebbe introdotto per primo l’irrigazione nell’area – tra i 900 e i 2.000 metri di altitudine, visivamente caratterizzata dalla vicinanza estrema delle Ande, che spesso si innalzano immediatamente dietro i vigneti. Soprattutto nell’area vulcanica del Tupungato il clima fresco e i terreni poveri danno vita a malbec eleganti e rotondi, oltre a vibranti chardonnay con livelli di acidità alti da rendere opportuna la malolattica. Il dipartimento di Luján de Cuyo, con i suoi paesaggi spettacolari, ha richiamato negli ultimi decenni numerosi investitori internazionali, come la famiglia francese Cuvelier di Château Léoville Poyferré, Henri Parent di Château La Violette, François Lurton e gli italiani di Altos Las Hormigas. La Valle de Uco, invece, ha attirato l’attenzione dell’enologo Michel Rolland, a capo di Clos de los Siete, imponente progetto su una superficie di 850 ettari, sviluppato assieme a quattro famiglie bordolesi. La legislazione argentina, oltre a Mendoza, prevede altre sei province vinicole con i relativi dipartimenti: San Juan (San Juan), La Rioja (La Rioja), Catamarca (Catamarca), Noroeste (Salta, Tucumán, Jujuy), Patagonia (Río Negro, Neuquén, Chubut, La Pampa), Otras Provincias (San Luis, Córdoba, Entre Ríos, Buenos Aires, Misiones, Santiago del Estero, Santa Fe). L’area di Salta ha il primato delle vigne più alte del mondo, allineate fra cactus giganteschi e le suggestive gole rosso fuoco della quebrada di Cafayate. Pioniere di questi vini di montagna, generati da vigne inerpicate fino a 3.111 metri, è la cantina Colomé di Donald Hesse, azienda storica fondata nel 1831, la quale seguendo lo slogan “l’altezza è più dell’altitudine, è energia” produce la linea Altura Máxima malbec, pinot nero e sauvignon. Salta si mostra particolarmente congeniale anche per il torrontés, l’anima bianca più rappresentativa dell’Argentina, ritenuta la varietà criolla con il maggiore potenziale enologico. Ne esistono tre varianti: il mendocino, il sanjuanino e il riojano, accomunati da un colore giallo chiaro e dalla natura olfattiva semiaromatica con presenza floreale di rosa, gelsomino, zagara, seguita da pompelmo ed effluvi speziati in una cornice gustativa di fresca acidità, pienezza e profondità. Il torrontés , incrocio naturale tra moscatel de Alejandría e criolla chica, giunti in Argentina durante il periodo coloniale, è la prima varietà bianca del Paese con il 27,48% dei vinos blancos e il 4,98% della superficie totale. Oltre a Salta, anche la provincia de La Rioja è conosciuta per le piacevoli espressioni di torrontés riojano , qui in genere allevato a pergola e vinificato con buoni risultati anche dalla cooperativa locale di Chilecito. Dopo Mendoza, la seconda provincia in termini di quantità prodotta è San Juan, ancora più calda e secca (solo 90 mm di precipitazioni annue) e situata poco più a nord. Qui si produce un quarto del vino di tutto il Paese, soprattutto da moscatel de Alejandría, la principale varietà di moscato presente in Argentina; anche il syrah si sta diffondendo sempre più nella zona, sebbene il clima troppo caldo impedisca la valorizzazione delle caratteristiche peculiari dei singoli vitigni. Come accade nell’area di Mendoza, i produttori più esigenti hanno iniziato a piantare i vigneti a quote sempre più elevate. Intorno al 38° parallelo di latitudine sud, seguendo il fiume Neuquén e poi il Río Negro, a un’altezza media di 250 metri sul livello del mare, dove decenni fa su terreni alluvionali c’erano vasti frutteti di pere, si incontra la maggior parte dei vigneti della Patagonia, la regione vinicola più australe e meno elevata del Paese latino-americano. Secondo Marcelo Miras, a lungo enologo della Bodega del Fin del Mundo e proprietario della Bodega Familia Miras, con all’attivo più di due decenni di vendemmie nella zona, “la chiave dell’unicità dei vini patagonici risiede nella combinazione vento-sole, che fa addensare la buccia dell’uva; i vini si presentano naturalmente ricchi di sostanze fenoliche e in grado di conservare un’elevata acidità naturale”. Anche Piero Incisa della Rocchetta - nipote di Mario, il creatore del celebre Sassicaia - rientra tra i convinti sostenitori del sud argentino dopo essere rimasto dichiaratamente colpito dalle caratteristiche di un pinot nero proveniente dalla Patagonia degustato alla cieca a New York. Nella sua Bodega Chacra porta avanti la di realizzare grandi vini nel cosiddetto dai suoi vigneti franchi di piede, condotti totalmente in regime biologico e biodinamico. Qui il malbec, con il 25% della superficie vitata, crea calici con carattere equilibrato, sottile, elegante e un buon potenziale di invecchiamento, anche se merlot, pinot nero, sauvignon blanc e sémillon si stanno ritagliando la loro fetta di estimatori. L’unico inconveniente sono i maras della Patagonia, roditori grandi come lepri che divorano l’uva e danneggiano i vigneti. Presenza che nel Río Negro non ha scoraggiato investitori italiani come la contessa Noemi Marone Cinzano, partner dell’enologo danese Hans Vinding-Diers nella fondazione di Bodega Noemia, azienda che, fra l’altro, produce il malbec “Noemia” da una vigna del 1932 a piede franco, ampia un ettaro e mezzo. mission fin del mundo Accanto a malbec, bonarda e cabernet sauvignon continuano a resistere saldamente in testa le uve o , meno diffuse rispetto al passato ma ancora presenti nel 25% circa dei vigneti argentini. Tuttavia, cereza, criolla grande, criolla chica, pedro giménez e torrontés riojano negli ultimi tempi stanno riscuotendo più attenzione grazie al lavoro condotto dai ricercatori dell’INTA (Istituto Nazionale di Tecnologia Agricola) di Mendoza, ragionevolmente convinti che queste varietà resistenti a siccità, caldo e malattie possano dare in prospettiva vini gradevoli grazie all’utilizzo di nuove tecnologie. Potenzialità che stanno cercando di verificare aziende come Cadus Wines con vinificazioni in purezza di criolla grande oppure Alejandro Kuschnaroff, dell’azienda Ernesto Catena, convinto che le criolle vadano protette perché generano vini con stili freschi, più leggeri e facili da bere, qualità che i consumatori tendono sempre più a cercare negli ultimi anni. Chissà se il futuro enologico dell’Argentina passerà anche attraverso questa riscoperta e valorizzazione. Come recita il suo grande scrittore e poeta Jorge Luis Borges nel “Sonetto del vino”, esso “fluisce rosso lungo mille generazioni come il fiume del tempo”. E sicuramente, proveniente dalle pendici delle Ande, il malbec continuerà a fluire. rosadas criollas