“Ne è sicuro? Ne è proprio sicuro? Io non darei un giudizio così definitivo prima di qualche decennio di studio”. Questa frase, insieme
rispettosa e ironica, mi è tornata in mente assaggiando i “vini confinanti” di questo articolo. La pronunciò Sergio Manetti, forgiatore di Montevertine,
in un caldo pomeriggio di quasi trent’anni fa. Era la replica all’affermazione – obiettivamente azzardata – di un arrogante visitatore, che aveva
sentenziato: “Qui nel Chianti dovreste lasciar perdere il sangiovese e piantare cabernet”. Avesse appena conosciuto il carattere di Manetti,
quel torso di broccolo non avrebbe rischiato di essere cacciato a pedate dalla tenuta.
Eravamo nella fase più rigogliosa della iper-modernità, quando le magnifiche sorti e progressive dei vini italici passavano per l’eradicazione
delle vecchie vigne (“troppo produttive e di qualità irregolare”) e la messa a dimora delle varietà “migliorative”, cabernet e merlot in testa.
Il sangiovese era visto spesso come un ferrovecchio: difficile da domare, facile a imbizzarrirsi, troppo eterogeneo negli esiti vendemmia dopo
vendemmia.
I rossi dai nuovi vitigni internazionali erano pluripremiati dalle guide e considerati il futuro. In questo contesto colturale e culturale bisogna
collocare le scelte strategiche di molte aziende chiantigiane.