l'Albana di una nuova era
Giovanni Solaroli
Vitaliano Marchi

C’è un legame profondo che unisce la Romagna e i romagnoli al suo vitigno albana. Un legame le cui origini risiedono molto probabilmente nella similitudine dei rispettivi caratteri: accoglienti, generosi e ospitali, ma a volte anche bruschi e diretti. In poche parole, caratteri in cui dominano le tinte forti, iniziando dalla forma del grappolo, tra i più lunghi che si conoscano.


Le origini del vitigno, piuttosto nebulose, ne fanno risalire la provenienza a lla zona di Albano Laziale, da cui appunto il nome del vino dal latino Albanus (originario di Albano). Tuttavia, non esistono prove certe di questa origine e il nome Albana potrebbe derivare molto più banalmente dall’aggettivo latino Albus (bianco), che ne indicava il colore ma, per via dell’iniziale maiuscola, ne sanciva la preminenza rispetto agli altri vitigni bianchi e, quindi,“bianco” per eccellenza. Riferimenti ai vini della Romagna si ritrovano in alcuni scritti di poeti latini, fra cui Plinio il Vecchio e Catone, che però parlano sempre della vigoria e della generosità delle viti di questa zona, senza mai accennare alla qualità o a qualche tipologia particolare. Il primo riferimento “moderno” al vitigno Albana si ritrova a partire dal 1300, quando Pier de’ Crescenzi lo cita nel suo Trattato della Agricoltura: “Vino potente di nobile sapore, ben serbevole e mezzanamente sottile - decantandone le proprietà positive - e questa maniera d’uva è avuta migliore a Forlì e in tutta la Romagna”, a sottolinearne le zone di produzione. Nei secoli successivi si ritrovano altri riferimenti importanti, come quello dell’inventario dei vini di proprietà del Giureconsulto bolognese Jacopo Belvisi, compilato alla sua morte nel 1335. Scopriamo così come già all’epoca, l’Albana, oltre a essere molto apprezzato, fosse vinificato sia in purezza che in associazione ad altri vitigni. Nel XVI secolo l’Albana godeva di grande reputazione, anche fuori dal suo territorio di produzione: ne troviamo tracce nel Libro Novo scritto nel 1531 dallo scalco (responsabile delle cucine e del cerimoniale) degli estensi Cristoforo di Messisbugo, che consiglia di servirlo nelle mense più raffinate.