In antichità, c’erano i camerieri in giacca o gilet, le tovaglie sui tavoli e i quadri appesi alle pareti. A quei tempi, i ristoratori allestivano i locali, adattando l’arredo al menu e il menu all’arredo e allo status sociale. La trattoria regionale pareva un angolo di cascina. Il posto di pesce, rifugio dell’alta borghesia, esibiva un guscio di barca all’ingresso e le reti da pesca drappeggiate ai muri. Sulle tavole dei vecchi nababbi, invece, fiorivano posate d’argento e scaglie di tartufo, nella quiete sussurrata di una sala in boiserie color dentiera. Mentre nei locali dei giovani stagnava una chiassosa penombra, punteggiata dai bagliori colorati dei drink.
Ci si basava, insomma, su una breve rassegna di cliché, previsti e rassicuranti come un codice collettivo.
Quanto eravamo ingenui. Gli albori del nuovo millennio hanno rapidamente sgomberato questa catena di conformismi, rimescolando le carte come un colpo di vento. Trattorie, american bar, tavole borghesi e sacri templi degli chef hanno cominciato ad assomigliarsi, contaminandosi l’un l’altro, battendo simultaneamente sui medesimi tasti, senza distinzioni di grado e natura. Lo stile prevalente era dettato da una generica mondanità internazionale, sulla scia delle serie tivù made in Usa, da Sex and the City in giù.
Per fortuna di tutti, anche quest’era geologica si è conclusa. Basta con le parole d’ordine dei tempi che furono. Oggi, abbiamo altri imperativi da onorare. Bisogna emergere nel mucchio di insegne che convivono gomito a gomito, che si inaugurano ogni santo giorno e si inabissano il mese seguente, in un ciclo vitale sempre più frenetico. L’odierno ruminare di nuove tendenze e innovative mescolanze ha una stella polare, riassunta in un entusiastico neologismo: instagrammabile. La panacea di tutte le crisi è guadagnare l’approvazione del popolo dei social. Anche in questo caso, tuttavia, possiamo riassumere la nouvelle vague in un ristretto numero di punti nevralgici.
Vediamo quali.