vitigni antichi, visioni nuove Francesca Zaccarelli a domesticazione della vite è antica quanto la nostra civiltà, quando - come spiega Tucidide nel V sec. a.C. - l’uomo “uscì dalle barbarie” inventando l’arte della coltivazione. Un passaggio fondamentale per la storia dell’umanità, ma anche per l’ambiente, che da questo momento in avanti sarà sempre più antropizzato. L L’interazione millenaria e costante tra uomo e vite ha portato a modellare le specie selvatiche e a indirizzarle verso gli obiettivi di chi le allevava, tra cui quelli enologici. Si è, quindi, creato un sapere viticolo tanto specializzato da riuscire a individuare le varietà migliori per la produzione di vino e ibridarle tra loro, attuando di fatto un miglioramento delle specie a disposizione e selezionando il patrimonio genetico delle uve che tutt’oggi alleviamo. Nell’ultimo secolo, la selezione e la creazione di cloni sempre più prevedibili e, quindi, affidabili, è arrivata a livelli quasi estremi. Certamente, la fillossera, che ha devastato il vigneto europeo a fine Ottocento e tutte le altre minacce fitosanitarie registrate nell’ultimo secolo e mezzo, hanno fortemente spinto i viticoltori a dover trovare strategie di sopravvivenza e resilienza a tali avversità. Tuttavia, si è sacrificata molto della biodiversità vitivinicola per il lusso di avere vitigni sempre più gestibili. A tal proposito è doveroso fare una distinzione tra due termini erroneamente usati come sinonimi: parliamo di cultivar e di varietà. Il primo viene usato per indicare i vitigni più coltivati, ove la domesticazione da parte dell’uomo è stata decisiva per far prevalere i caratteri desiderati (tramite ibridazione, selezione massale e, infine, selezione clonale). Invece, per varietà si intende un vitigno frutto di una selezione naturale e di una interazione con l’uomo più equilibrata, che grazie a incroci, adattamento all’areale e alle tecniche colturali ha sviluppato un suo specifico patrimonio genetico, evolvendosi rispetto al proprio progenitore. La varietà è, quindi, il vitigno che si è autonomamente adattato al contesto naturale, mentre la cultivar è appunto la “varietà coltivata”, profondamente modificata e forzata nella sua espressione dall’intervento umano. Il paragone spinge a fare un altro confronto, più attuale ed evidente: quello tra vitigni internazionali e varietà locali, rispettivamente riconosciute come uve alloctone e autoctone. Alloctoni sono i vitigni che sono slegati dalla regione di origine, intendendo quelle cultivar ampiamente diffuse nel mondo e che troviamo in aree geografiche ampie e a diverse latitudini. Il loro impiego massiccio si giustifica con la garanzia di omogeneità nell’espressione, che può essere più o meno intensa in base alle diversissime condizioni pedoclimatiche che possiamo incontrare nei diversi areali. Questo aspetto è stato per decenni determinante per le aziende vitivinicole, che per accontentare il consumatore e rassicurarlo sulla bontà del proprio prodotto hanno preferito puntare sull’attendibilità (anche un po’ standardizzata) dell’espressione varietale. Una tale prevedibilità viene altresì mantenuta attraverso approcci agronomici marcati e in passato applicati senza uno studio pedoclimatico attento, ricorrendo alla densità di impianto, a specifiche forme di allevamento, a una determinata gestione del verde e potature che per prassi venivano individuate come ottimali per gli stili di vino desiderati. L’aggettivo autoctono deriva dalla parola greca composta αὐτόχϑων, il cui significato si riassume nel concetto di “stessa terra”. Parlare di autoctoni in vitivinicoltura vuol dire identificare un vitigno storicamente presente in un dato territorio. La lunga permanenza in quell’ecosistema ha permesso un adattamento specifico e lo sviluppo di caratteristiche assolutamente distintive e peculiari, non replicabili altrove e difficilmente influenzabili. L’unicità delle qualità di questi vitigni è riconosciuta per legge anche dal nostro Stato. Il Testo Unico n. 238 del 2016 fornisce all’art. 6 una definizione chiara di vitigno autoctono italiano (o vitigno italico), intendendo un . “vitigno appartenente alla specie Vitis vinifera, di cui è dimostrata l’origine esclusiva in Italia e la cui presenza è rilevata in aree geografiche delimitate del territorio nazionale” Considerando queste definizioni generiche, è facile comprendere l’importanza del contesto geografico, pedoclimatico e, infine, antropico di una zona vitivinicola. Possiamo così immaginare la diversità e la specificità di vitigni sviluppatisi da queste interazioni ambientali intercorse nei secoli come l’interpretazione più profonda del particolare di quell’areale, o . Valorizzare i vitigni autoctoni significa, quindi, scegliere la strada della tipicità, intesa come unicità viticola ed enologica. Le varietà antiche che hanno per secoli vissuto in una terra ne rappresentano la storia agricola e il potenziale, riuscendo a estrapolare un valore irripetibile che racconta il territorio. Significa altresì restituire vita a un areale, arricchendo la vigna con varietà dal patrimonio genetico diverso e, quindi, con una differente capacità espressiva e interattiva, aspetto che si rivela anche una valida strategia per una migliore resilienza al cambiamento climatico. genius loci terroir L’Italia vanta moltissime varietà antiche, tutt’ora esistenti e coltivate. Secondo l’Organizzazione internazionale della vigna e del vino (OIV), sarebbe il paese con più biodiversità vinicola, contando oltre 450 vitigni. Altro dato interessante è il loro utilizzo, visto che il 75% della sua superficie vitata italiana è occupata da ben 80 vitigni diversi, tantissimi in più dei 40 del Portogallo e addirittura quasi 5 volte tanto i 15 vitigni più diffusi in Francia e in Spagna. La riscoperta dei vitigni autoctoni è un processo lungo e ancora in corso. Dagli anni Duemila a oggi, dei 169 vitigni inclusi nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite (RNVV) ben 112 sono varietà “antiche”.Tuttavia, per ottenere una valorizzazione reale che porti a un maggiore impiego di queste uve, il mero riconoscimento ampelografico e normativo non basta. La sfida è poi studiare il comportamento di queste varietà, che proprio per le loro peculiarità sono state poco comprese se non abbandonate. Ed è qui che entrano in gioco le aziende, attori principali di questo processo. Produttori coraggiosi, appassionati del loro territorio, che con ingegno, micro-vinificazioni e riscontri empirici hanno capito quale fosse la strada vitivinicola da percorrere. Scelte che a loro volta hanno messo in dubbio i dogmi dell’enologia classica e hanno portato ad attualizzare tecniche in campo e cantine cadute in disuso, ma che con il sapere odierno e l’innovazione si sono rivelate soluzione capaci di rispondere a molte delle sfide vitivinicole attuali. Partendo dalla vigna, sono state riscoperte forme di allevamento più alte, riconducibili alla tradizione etrusca delle alberate, che per millenni hanno caratterizzato parte della nostra penisola. Le forme basse con potature troppo severe hanno infatti evidenziato dei limiti per lo sviluppo delle caratteristiche positive di alcuni vitigni autoctoni. Le ragioni sono molteplici: a partire dall’indebolimento eccessivo della pianta, per passare a una maggiore suscettibilità per le malattie linfatiche fino a un’errata gestione del verde. È chiaro che non sia funzionale tornare alle viti maritate, ma forme a tendone, a Casarsa e a raggi, opportunamente modificate, hanno dimostrato di rispettare meglio lo sviluppo vegetativo e riproduttivo della pianta. Lo stesso concetto si è applicato nella rivalutazione di pratiche come l’inerbimento o nella progettazione di impianti meno intensi, e, infine, per la gestione del verde - che da nemico dei grappoli può invece essere sfruttato per proteggere gli acini e influenzarne lo sviluppo. I vitigni autoctoni sono infatti vitigni tendenzialmente più tardivi rispetto agli internazionali: questo fa sì che gli acini maturino lentamente e abbiano esigenze fisiologiche diverse. Mentre un pinot nero, visti anche i cambiamenti climatici in corso e le estati sempre più calde, viene vendemmiato prima della fine di agosto per una base spumante, oppure un merlot o un cabernet rischiano di sviluppare troppi tannini se vanno in surmaturazione, vitigni autoctoni anche a bacca bianca arrivano a essere vendemmiati a settembre inoltrato o inizio ottobre. Per questo, la potatura verde eccessiva che abbiamo visto applicata negli ultimi anni (cimatura, sfogliatura, diradamenti) non è indicata in questi casi e gli interventi sulla parte vegetativa richiedono un attento esame in base alle esigenze della pianta e dei grappoli. Un simile atteggiamento ha guidato anche nuovi approcci enologici, considerati inapplicabili fino a qualche decennio fa e oggi invece largamente diffusi proprio nella valorizzazione delle varietà autoctone. Accortezze come il raffreddamento dei grappoli con ghiaccio freddo e il riparo dall’ossigeno permettono di evitare ossidazioni, soprattutto nelle bacche bianche ricche di catechine e acidi idrossicinnamici. Altre scuole invece prevedono in fase di post raccolta lo stoccaggio temporaneo delle uve in vasche riscaldate. Tale tecnica è stata studiata per l’ottenimento di vini con una più intesa colorazione e più fruttati, pur mantenendo la struttura e la piacevolezza nel gusto, visto che il calore indebolisce le pareti cellulari e incentiva la dispersione delle sostanze. E ancora, per alcune varietà si adottano delle pressature soffici, che mantengono gli acini quasi intatti. Quest’accortezza ha permesso di ottenere vini profumati e di grande eleganza anche da quelle varietà dalla spiccata componente tannica e colorante, caratteristiche peculiari di molti vitigni autoctoni che tuttavia avevano scoraggiato la produzione di vini da queste uve perché troppo impegnative da un punto di vista enologico. Poi, le macerazioni: prefermentative a freddo, ma anche prolungate oltre alla fermentazione e in certi casi anche a temperature modulabili che prevedono passaggi più caldi. Gli approcci sono molteplici e studiati in base alle caratteristiche degli acini. Stabulazioni e macerazioni pellicolari a freddo sono, infatti, consigliate per ottenere vini dai profumi più delicati e allo stesso tempo in maggiori declinazioni aromatiche. Se la macerazione a freddo e protetta da ossidazioni viene spinta fino a inizio fermentazione, l’effetto estrattivo dell’alcol aiuterà a ottenere polifenoli e acidità anche nei vini bianchi, conferendo una maggiore stabilità. Le macerazioni a caldo possono invece aiutare a estrarre componenti più concentrate ma anche più morbide: certi tannini, seppur più numerosi, risulterebbero più vellutati. Le macerazioni, oltre a una migliore estrazione di sostanze aromatiche e alla selezione dei polifenoli, permettono di conferire al vino migliori sensazioni di bocca e rilasciare nel mosto sostanze utili ai lieviti. Il pregio di un mosto ricco è quello di supportare meglio la fermentazione, abbassando il rischio di arresti. Inoltre, queste sostanze vengono ugualmente metabolizzate, concorrendo a creare nuovi aromi. Considerando che i vitigni autoctoni hanno peculiarità uniche proprio in funzione del loro corredo biochimico (precursori, enzimi, polifenoli, acidi, componenti azotate) è immediato pensare che lo scambio tra liquido e solido debba essere più efficiente. Sempre parlando di mosti con componenti diverse, anche l’attenzione ai lieviti è un aspetto tecnico che ha conosciuto sviluppi innovativi. Dopo la selezione industriale dei microrganismi vinari, si è tornati anche nelle aziende più convenzionali a riconsiderare altri ceppi, se non addirittura specie diverse da quelle comunemente conosciute in ambito vinario. Benché il ruolo centrale del Saccharomyces cerevisiae resti indiscusso, i ceppi selezionati produrrebbero a causa del loro grado di specializzazione vini molto simili tra loro e incapaci di rispecchiare le caratteristiche delle uve e del territorio, a scapito della tipicità del vino. La selezione dei ceppi più resilienti dota inoltre gli stessi del cosiddetto carattere killer verso ogni altra specie microbica, inducendo una competizione tale da poter controllare qualsiasi altro lievito o batterio, aiutati anche dall’anidride solforosa. Se consideriamo il contesto dei vitigni autoctoni, tale approccio risulta estremamente sfavorevole alla valorizzazione delle loro caratteristiche così uniche e li mette in una posizione di netto svantaggio rispetto alle cultivar internazionali. Queste considerazioni hanno incoraggiato indagini approfondite sul ruolo di altri microorganismi vinari utili, cui si potrebbe attribuire la capacità di aggiungere carattere al prodotto finale grazie alle loro peculiari qualità metaboliche ed enzimatiche. Perché, se è vero che la fermentazione spontanea data da lieviti non Saccharomyces è per certi versi imprevedibile, permette altresì una maggiore complessità e l’espressione più diretta delle caratteristiche pedoclimatiche, dell’annata e dei vitigni, proprio grazie alla varietà di microrganismi indigeni coinvolti, che varia per di più da microzona a microzona e potenzialmente da vitigno a vitigno. Molte aziende hanno quindi iniziato a studiare la naturale componente di lieviti vinari presenti in vigna, sugli acini, negli ambienti di cantina, supportati da università, centri di ricerca e da metodi molecolari. Il risultato ha portato a selezionare nel tempo un pool di lieviti spontanei e con ottime performance fermentative, da usare come coinoculo con il o da soli, ottenendo vini più espressivi (come nel caso del e del , capaci di liberare gli aromi più glicosilati, incrementando così l’intensità e la complessità aromatica dei vini), acidità più integrate ( e degradano l’acido malico producendo lattico mentre conducono parte della fermentazione alcolica) e tannini più bilanciati (visti i numerosi ceppi non che producono ottime quantità di glicerolo). Tutte queste operazioni devono essere gestite anche con le giuste condizioni chimico-fisiche esterne. Fondamentali risultano le corrette temperature di cantina e degli spazi, la protezione da contaminazioni esterne e da ossidazioni. In alcuni casi, gli accorgimenti sono così efficaci da permettere di limitare l’uso di solfiti durante la vinificazione e in imbottigliamento, grazie anche alla possibilità odierna di monitorare tutte le fasi dalla vigna all’imbottigliamento. Esistono, infatti, sistemi integrati e connessi tra loro che comunicano vicendevolmente e si autogestiscono. Saccharomyces cerevisiae Pichia klyverii Metschnikowia pulcherrima Kluyveromyces Schizosaccharomyces pombe Saccharomyces Parliamo di tecnologie digitali molto basilari, come sensori Bluetooth, microprocessori e connessioni a un server per raccogliere dati, come quelle dei nostri smartphone. Così la tecnologia entra nelle cantine, raccogliendo informazioni in campo per capire come e quando fare i trattamenti e le operazioni richieste in vigna, regolare le temperature di stoccaggio e di macerazione, misurare parametri legati alla fermentazione e segnalare prontamente un problema e ancora attivare operazioni che incentivano la cessione di sostanze senza dover aprire i tini o compiere operazioni meccaniche violente che rovinano mosto e vinacce. smart L’innovazione, unita ad un’enologia più consapevole, ha, quindi, portato a ottenere vini non solo più godibili, ma anche più sostenibili, vista la naturale resilienza dei vitigni autoctoni, che con le giuste accortezze possono tranquillamente essere coltivati con approcci biologici e biodinamici. Una valorizzazione a tutto tondo che, dalla riscoperta di un’insostituibile eredità vitivinicola unita al rispetto integrale del territorio, ha portato i nostri vitigni antichi a esprimere tutto il loro grande valore. Petelia Calabria IGT 2021- Ceraudo Petelia è un vino bianco fatto con greco bianco e mantonico in parti uguali. Quest’ultimo vitigno veniva utilizzato per produrre un vino passito, visti gli alti livelli glucidici e di acidità. Oggi è una varietà di notevole interesse, che con l’innovazione enologica può essere usato anche come base spumante. Ceraudo è un’azienda biologica e usa solo lieviti indigeni, adottando un’attenta macerazione prefermentativa. Il risultato è un vino di colore giallo brillante, con caldi sentori fruttati e spezie dolci, che arrivano a cannella, polline e nocciola. Palato morbido, poi fresco e sapido, di bella persistenza e piacevole sapidità. Jetas Catarratto Sicilia DOC 2019 - Di Bella Nonostante la sua larga diffusione, solo recentemente il catarratto è stato compreso per le sue incredibili qualità, tanto da poter essere impiegato per vini di grande pregio e affinamento. Dopo la raccolta a mano, le uve vengono diraspate e lasciate a macerare a una temperatura controllata di 12-14 °C, in serbatoi in acciaio inox per 24-36 ore, dove inizia la fermentazione alcolica. Il pigiato viene poi pressato in modo soffice e il mosto in fermentazione viene travasato in tonneau di rovere, ove conclude il processo a 16-18 °C e affina per altri 8 mesi. Giallo chiaro con riflessi dorati, regala fiori gialli, agrumi nobili, pesca, vaniglia e note mentolate, per poi esprimersi succoso, fresco e sapido al palato. Enea Nero Buono Lazio IGP 2020 - Tenute Filippi Il nero buono ha origini antichissime, e si dice fosse già coltivato dai Romani. È ricco polifenoli, i quali secondo alcuni studi avrebbero anche un effetto nutraceutico. Tenute Filippi adotta un approccio biodinamico e, dopo la vendemmia a mano e una spremitura soffice, attua sul mosto un coinoculo di , svolgendo una fermentazione malo-alcolica che smorza l’acidità malica e produce molta glicerina, unitamente a piacevoli aromi secondari. La macerazione avviene a temperature controllate, conferendo più eleganza al vino. Segue svinatura e travaso in acciaio, ove attraversa un processo di micro-ossigenazione per smorzare il tannino. Il risultato è un vino porpora intenso, dagli aromi generosi, di bella struttura e dinamicità grazie alla buona spalla acida. Il tannino, con le giuste attenzioni, risulta ben integrato. Saccharomyces cerevisiae e Schizosaccharomyces pombe Uceline Monferrato Rosso DOC 2015 - Cascina Castlet Uvalino è un’antica varietà autoctona del Piemonte quasi scomparsa. Ricco di acido tartarico e di resveratrolo, il vitigno è per questo naturalmente resistente alla Botrytis cinerea: si presta, quindi, a vendemmie tardive per l’ottenimento di vini da uve passite anche in vigneto. Le bucce possiedono un contenuto medio alto di antociani mentre i semi presentano un elevato tenore di tannini, tanto che il vino ha un buon potenziale di invecchiamento e migliora con un passaggio in legno. L’azienda raccoglie i grappoli a mano a fine ottobre e li lascia maturare a temperature controllate in appositi spazi per un altro mese. La macerazione avviene a 20-22 °C, accompagnando per oltre 20 giorni la lenta fermentazione. Affina in tonneau da 5 hl per sei mesi. Ne esce un vino rubino intenso, fruttato e speziato, caldo e allo stesso tempo teso al palato, con un tannino vivace che pare aiutare la bella persistenza gusto-olfattiva.