in primo piano NON C’È VINO SENZA ACQUA di Massimo Zanichelli Fiumi, laghi, monti, da sempre influenzano lo sviluppo della viticoltura. Dalle Langhe alla Sicilia L’acqua, fonte di vita, fonte di vite. Nella cucina dei miei genitori, appeso a un muro, c’era un quadretto con un motto popolare scritto in rilievo: . Lo vedevo ogni mattina a colazione e il suo significato mi risultava al contempo lapalissiano e oscuro. Un giorno chiesi a mia madre cosa volesse dire. La sua risposta fu lapidaria, e definitiva: “Che bisogna bere il vino”. L’acqua rovina i ponti È opinione comune che l’acqua sia il nemico principale del vino. Da che mondo è mondo con l’acqua non si brinda, non si balla, non si provoca l’ebbrezza. Quel famoso miracolo non aveva forse convertito l’acqua in vino per salvaguardare i festeggiamenti delle nozze? Benché si sappia che per bere molto vino conviene bere anche molta acqua (a meno che non siate veneti o friulani, i più forti e indefessi bevitori che abbia mai conosciuto), l’acqua e il vino sono da sempre considerati gli antagonisti della tavola. Eppure, non solo il vino è composto principalmente di acqua (occupa il 70-80% del suo volume, mentre la presenza dell’alcol è limitata a una fascia che va dal 12% al 14,5%, con sporadiche punte fino al 16%), ma senza l’acqua - simbolo di vita e di fertilità - il vino non potrebbe esistere. La pioggia e le irrigazioni sono condizioni necessarie per la sopravvivenza e la crescita della vite. La stessa fotosintesi, fondamentale per la maturità delle uve, è legata alle risorse idriche e alla loro disponibilità: per contro un eccesso d’acqua durante l’estate provoca un arresto della maturazione degli acini, che tendono a imbibirsi, fatto che testimonia come il buon vino sia il risultato di complesse dinamiche d’equilibrio fin dalle matrici climatiche e agronomiche. Senza l’acqua, sarebbero inoltre impossibili molte operazioni di cantina, dall’igiene degli ambienti e dalla pulizia delle attrezzature fino al controllo delle temperature, che dipendono dalle capacità refrigeranti dell’acqua e che risultano fondamentali per le vinificazioni. L’Adige nella Terra dei Forti. Ponte Pietra a Verona. Il Piave al tramonto. L’ACQUA E IL VINO IN PIEMONTE Quale sarebbe stata la storia enologica e turistica delle Langhe senza la costruzione dell’acquedotto? (vedi box). Il Piemonte del vino è rappresentato da un fiume, il Tanaro, il secondo della regione per lunghezza dopo il Po, che nasce dal Monte Saccarello sulle Alpi Liguri con un nome che è un diminutivo, Tanarello, e quando arriva più a valle, tra le colline del Monregalese e delle Langhe, perde i suoi connotati alpini, muta le sue acque, fino a qui trasparenti, in un colore più limaccioso, scorre in modo irregolare, creando una serie di calanchi di erosione (le rocche), e segna la linea di confine tra la zona del Roero e quella delle Langhe: nella prima, la sponda sinistra dai terreni più sabbiosi, i nebbioli risultano più sottili, mentre nell’altra, la riva destra del Barolo e del Barbaresco, diventano più strutturati e longevi. Proseguendo il suo corso e inoltrandosi nel Monferrato, il Tanaro opera un’altra importante ripartizione tra la Barbera astigiana (versante destro), più sapida, e quella maggiormente fruttata del Casalese, nel Basso Monferrato (versante sinistro). L’acqua dei fiumi traccia confini, disegna versanti, mappa i territori. COME SI ARRIVÒ ALL’ACQUEDOTTO DELLE LANGHE Giacomo Oddero, classe 1926, è stato uno dei protagonisti assoluti non solo del vino di Langa, ma della storia sociale e politica del Cuneese. Così racconta l’origine dell’acquedotto delle Langhe: nel 1973 era stato nominato presidente del Consorzio incaricato dei lavori cominciati nel 1956. “Ero preoccupato per la situazione in cui versava il progetto. Il poco che c’era mi diede un senso di pena. Eravamo all’anno zero. Mi dissi: con questa lentezza nel procedere fra vent’anni non arriveremo a Bossolasco. Sembrava un sogno portare l’acqua dalle valli cuneesi alle Langhe. Tuttavia mi sentii fortemente impegnato nel dimostrare che la costruzione dell’acquedotto era possibile. Occorreva accelerare i tempi, cercare finanziamenti dello Stato, della Regione Piemonte, della Comunità Europea”. Nella ricerca dei fondi, Oddero poté contare, tra gli altri, sull’appoggio di Carlo Donat-Cattin. “Era Ministro dell’Industria in quegli anni e veniva a prendere del vino nella nostra azienda di famiglia. Ricordo che lo comprava sfuso perché amava imbottigliarselo. Ovviamente quando veniva si parlava anche di politica e un giorno gli raccontai dei problemi economici dell’acquedotto delle Langhe. Lui mi disse che in Parlamento si stava dibattendo al fine di fare una legge particolare per l’acquedotto pugliese con la quale si stanziava un importante contributo. Mi suggerì quindi di provare a inserire anche il nostro acquedotto nel dibattito parlamentare. Noi ci provammo”. Le cose procedettero per il meglio e i lavori proseguirono con maggiore velocità. “La mia presidenza al Consorzio cessò nel 1991 quando l’acquedotto aveva raggiunto i punti terminali di Santo Stefano Belbo e di Canelli. Abbiamo portato l’acqua in quasi tutti i comuni della Langa e del Roero. È stata un’opera fondamentale che ha dato sviluppo al territorio; come si sarebbe potuto sviluppare il turismo senza l’acqua? E l’agricoltura? Le stesse cantine hanno necessità di acqua per la pulizia delle diverse attrezzature. Andando nei paesi a parlare dell’acquedotto mi sono sentito spesso dire con ironia: ‘Lei è uno dei tanti che viene a dirci che ci porterà l’acqua, ma mi sa che se non scende dal cielo l’acqua non la vediamo’. Molti che mi dicevano queste cose ho avuto modo di incontrarli dopo che l’acquedotto aveva raggiunto i loro paesi, le loro borgate. Erano commossi, quasi increduli di quello che vedevano con i loro occhi. Mi viene in mente un anziano signore di una borgata di Camerana che mi è venuto incontro e, piangendo, mi ha detto: ‘Io nella mia vita non ho mai visto tanta acqua così’. Avevo voglia di mettermi a piangere con lui. Questo era per me fare politica” (da Attilio Ianniello, Il farmacista di via Maestra. Giacomo Oddero: una biografia, Acqui Terme, Editrice Impressioni Grafiche 2017, pp. 58-60). L’ADIGE DAL PASSO RESIA ALL’ADRIATICO L’Adige discende dal passo Resia, entra in Val Venosta, dove lambisce vigneti e meleti lungo un tratto accidentato, scorre lungo la Valle dell’Adige, tra il porfido di Terlano e le rocce calcaree di Nalles e Andriano, e sfiora Bolzano, dove riceve il flusso dell’Isarco, che arriva da nord-est dopo aver diviso in due versanti orografici la Valle che ne prende il nome e che si distingue, nel tratto che da Bressanone arriva a Chiusa, per i suoi bianchi esclusivi (Kerner, Sylvaner e Grüner Veltliner). L’Adige continua il suo percorso: s’inoltra nell’Oltradige, ammirando a destra i cipressi di Termeno, patria del gewürztraminer, e a sinistra i vigneti di pinot nero di Mazzon. Supera quindi il confine altoatesino per entrare in Trentino, guardando alla sua destra il Campo Rotaliano, celebre per il suo teroldego, e costeggiando sulla riva sinistra le colline che da San Michele all’Adige arrivano a Lavis. Qui il fiume riceve, sempre da nord-est, un altro nobile affluente, l’Avisio: dopo aver attraversato le valli di Fassa e di Fiemme, questo torrente segna con il suo tratto sinuoso la piattaforma porfirica della Valle di Cembra, un dedalo di vigne terrazzate e muretti a secco, roccaforte del Müller-Thurgau regionale. L’Adige, imperterrito, continua il suo percorso, attraversando dapprima la Vallagarina, dove incontra l’autoctono marzemino, poi la Valdadige, terra di confine con il Veneto dove dimora il raro enantio, per poi svoltare verso oriente, attraversare Verona, la val Padana e infine sfociare nell’Adriatico tra Chioggia e Rosolina. L’Adige in piena Il lago di Garda increspato. Il Molinetto della Croda. L’Isonzo e il suo inconfondibile colore. LA MONTAGNA La Dora Baltea e l’Adda attraversano due territori montani - la Valle d’Aosta e la Valtellina - lungo un inusuale asse ovest-est, ma con incidenze differenti: la prima suddivide la regione in due versanti coltivati (a sinistra l’Adret, “diritto” e più soleggiato, a destra l’Envers, “l’inverso”, meno vitato), mentre il secondo vede scorrere solo sulla sua destra l’intera costiera retica, terrazzata e solatia, che da Ardenno arriva fino a Tirano (sull’altro fronte, più ombroso, delle Orobie, la viticoltura sopravvive in modo episodico). Inoltre, essendo la terra dei vigneti valtellinesi riportata dal fondo alluvionale dell’Adda, il contrasto con la natura morenica dei suoli - che sono di origine glaciale, non fluviale - genera delle conseguenze insolite sulla vocazionalità dei vini locali, determinata più dall’altitudine e dall’esposizione che dai terreni. L’incidenza delle acque fluviali sulla natura del territorio, e dunque dei vini, è visibile a occhio nudo nei suoli ghiaiosi di due aree di pianura che non a caso prendono il nome dai loro fiumi, ovvero l’Isonzo in Friuli, dove primeggiano i bianchi, siano essi autoctoni (Friulano, Malvasia Istriana) o internazionali (Sauvignon, Chardonnay), e il Piave (fiume sacro alla patria) in Veneto, in cui il Raboso, rosso indigeno noto per lo spiccato mordente acidotannico, lotta quotidianamente contro lo strapotere della glera per sopravvivere. Il lago di Garda dai vigneti. IL LAGO L’influenza delle acque del lago sull’espressione dei vini non è meno determinante di quella dei fiumi, con maggiori effetti sul microclima di un’area piuttosto che sulla natura dei terreni e dei versanti. Un esempio su tutti: il lago di Garda, il più grande dello Stivale, che bagna le sponde della Lombardia e del Veneto, come quelle del Trentino. È forse un caso che l’aria di questo lago “generi”, sulle opposte coste regionali, due rossi fragranti e leggiadri come il Groppello (versante bresciano) e il Bardolino (versante veronese)? Si dice poi che l’Ora del Garda, il vento che si alza nel pomeriggio, soffiando verso nord, influenzi positivamente non solo la lunga stagione dell’appassimento della nosiola nella vicina Valle dei Laghi per la produzione del Vino Santo trentino, ma che la sua azione benefica arrivi fino alla Valle Isarco. L’acqua è indispensabile per la vita delle piante. IL MARE Se i terreni alluvionali dei fiumi incidono sulla sapidità dei vini, l’acqua del mare ne determina sovente il carattere aromatico. In Liguria l’evidenza è tutta nel “sapore di mare” e nel “gusto del sale” di due bianchi, tra loro imparentati, come il Pigato e il Vermentino (per tacere di quello sardo), e nei sentori di erbe aromatiche e macchia mediterranea dei suoi principali rossi: il Rossese di Dolceacqua, l’Ormeasco di Pornassio, la Granaccia. Questo incontrovertibile segno del terroir compare perfino in una serie di vini dolci tra loro molto diversi quanto accomunati da una nota salmastra, che viene radicalizzata dall’appassimento: lo Sciacchetrà delle Cinque Terre, il Greco di Bianco, il Passito di Pantelleria, il Malvasia Passito delle Lipari, perfino l’Aleatico dell’Elba, un passito rosso che odora di salsedine. Un registro, quasi un timbro, che contrassegna anche vini “dolci-non dolci” di marca ossidativa come la Malvasia di Bosa o la Vernaccia di Oristano. E il Marsala, un vino fortificato, la cui origine è legata ai capricci del destino e delle acque: un commerciante di Liverpool, John Woodhouse, sorpreso da una tempesta mentre è sulla rotta di Mazara del Vallo per un carico di soda, sbarca fortuitamente a Marsala, scoprendo un vino che assomiglia all’amato Madeira, decidendo di aggiungergli dell’acquavite per renderlo più stabile durante il lungo viaggio verso l’Inghilterra e decretandone per secoli il successo. Le rotte del commercio marino sono da sempre fonti di scoperte, conoscenze e appropriazioni: il moscato e la malvasia, vitigni dell’arcipelago greco, furono importati in Italia per opera dei mercanti veneziani tra il XIII e il XV secolo. La vendemmia a Favignana.