territorio I RACCONTI DEL FIUME di Maria Grazia Melegari Cinque storie tra Adige e Piave. Dove l’acqua racconta il vino La cantina Albino Armani a due passi dall’Adige. John Ruskin, turista illustre giunto in Italia per il Gran Tour, nel 1870 così descriveva il fiume che entra in provincia di Verona: “Volgetevi a nord ovest e proprio sotto il tramonto vedrete l’Adige fluire dalla sua porta incantata di marmo e, in un percorso veloce, quasi rettilineo, reso bianco e brillante dalla corrente che non riflette nei suoi turbini né rive né nubi, ma soltanto luce, distendersi fra i vigneti fino alla Verona che giace ai vostri piedi”. Il secondo fiume italiano, con i suoi 410 km dal Passo Resia al Mar Adriatico e un tempo via navigabile di collegamento tra l’Europa Centrale e l’Italia, è storicamente legato alla viticoltura veronese. Scorre al centro della denominazione Valdadige Terra dei Forti e le sue rive separano l’anfiteatro morenico del Lago di Garda, regno del Bardolino, dalle propaggini della Lessinia che, nel tratto pedemontano, accolgono una fascia della denominazione Valpolicella. Fiume complesso, il Piave, con due sorgenti: per alcuni a Sappada (ora Friuli Venezia Giulia), per altri nell’area veneta del Comelico. Fu l’enorme ghiacciaio Lapisino a decretarne l’origine e a forgiarne il carattere turbolento e difficile. I suoi 230 chilometri sono stati più volte segnati da piene e interventi che ne hanno modificato il corso. Fiume degli zattieri che trasportavano il legname dai boschi del Montello fino a Venezia e dell’oro bianco, la ghiaia estratta dal suo alveo, nell’immaginario è il fiume sacro, teatro delle sorti del primo conflitto mondiale. “La sera del 10 novembre 1918, c’era uno spettacolo mai visto. I soldati nemici erano in gran parte ubriachi di Raboso, che in grande quantità ancora fermentava nei tini. La mattina del 14 tentarono con barche di passare la Piave ma dopo due ore di combattimenti furono respinti”. Così scrive don Florindo Condotta, cappellano di Noventa di Piave, a testimonianza del legame inscindibile tra il vino Raboso e la Piave, fiume che prima del conflitto era declinato al femminile. I fiumi raccontano storie. Tramonto sull’Adige. Il cippo di confine nei vigneti di Albino Armani. Vecchia vigna di enantio. Vigneto dell’azienda Bonotto delle Tezze. ALBINO ARMANI AZIENDA ARMANI - DOLCÈ (VR) Il mio fiume scorre libero, nessun argine artificiale, nessuna briglia; esonda, porta limo e sabbie nel vigneto centenario ancora franco di piede. Il confine burocratico ci scorre sopra. Un cippo austero è al centro dell’antico vigneto di Ambrosche, e molti ne troviamo sui monti del Baldo e della Lessinia a segnare l’antico confine austriacoitaliano, ancora a monito di separazioni e drammi. Nessun contadino ve lo avrebbe conficcato, mai! Il mio fiume accoglie lingue diverse, il tedesco, il dialetto trentino fino alla lingua veneta che lo accompagna fino al mare. Sono nato sul confine, come tutti i miei avi, ma nessuno di noi se n’è mai preoccupato: le vigne si espandono e crescono sopra i tratti dei limiti umani. Le opere d’irrigazione, le bonifiche ai suoi margini, le fatiche degli uomini, le vecchie uve, le antiche vampaore: identiche per i crucchi e i taliani. Contadini: il tratto comune. Ho imparato a non odiare dal mio fiume, sulle cui sue rive diverse genti hanno sempre convissuto. Ora è tutto un magnifico vigneto, il mio orgoglio. Da Rovereto sino alla Chiusa di Ceraino: la mia casa. Le antiche Ambrosche, oggi enantio e casetta, ancora si coltivano cocciutamente nelle terre basse e sabbiose dove la fillossera non sopravvive. Le alleviamo ancora, tra i pochi, senza portinnesto: vini preziosi, ancestrali, di una “elegante rusticità” disse Veronelli. Custodiamo la valle, orgogliosamente accompagniamo le persone lungo le rive fin sui nostri monti, in bicicletta, con le canoe oppure a piedi e poi offriamo il vino. Un progetto comune, concreto, credibile e condiviso. La Terra dei Forti accomuna i vignaioli e tutela varietà d’uva in via d’estinzione, la Conservatoria ne raccoglie altre nove salvandole dall’oblio. Il vino unisce e descrive l’identità territoriale meglio d’ogni altra cosa. Da denominazione siamo divenuti brand territoriale, da viticoltori a divulgatori. Il visitatore diviene consapevole custode, assieme a noi, della valle dell’Adige e del suo fiume. Sotto gli alberi, sopra le rive, accanto ai vigneti, tutti ci possono arrivare. Ci sono quattro panchine nella nostra cantina: sedetevi, ascoltate il fiume che scorre, riempitevi di vento e di bellezza. Capiremo assieme perché di questa terra e dei suoi vini ci si deve innamorare e la sua anima non vi lascerà più. La famiglia Bonotto. LUIGI MARANGONI AZIENDA LE CAREZZE - TERRAZZO (VR) Sono un imprenditore della meccanica che ha sempre amato la “campagna” e quando, nel 1994, ho scoperto un’azienda agricola di trenta ettari racchiusi tra le rive dell’Adige e del Fratta, me ne sono innamorato e l’ho acquistata. Non mi sono fatto intimorire dalle difficoltà: i terreni alluvionali, argillosi e umidi, erano coltivati a frutteti e seminativi con l’uso di fitofarmaci. Io avevo in mente altro: creare un’oasi naturale dove praticare l’agricoltura e viticoltura biologica. Ho sostituito tutto, gradatamente, con 40.000 alberi: carpini, frassini, aceri, querce, gelsi bianchi, noccioli, e il lavoro continua ancora oggi con la recente piantumazione di aceri campestri. Ho piantato siepi, creato un laghetto, sistemato viali e percorsi, e tutto ciò ha avuto come risultato che dopo vent’anni tutta l’area ha ritrovato la sua biodiversità. Nel 2015 sono stati messi a dimora i vigneti, dopo un’accurata indagine sulla composizione dei suoli. All’inizio in tanti mi hanno dato del matto, ma io ho dato retta ai vecchi del luogo, quando mi raccontavano che “il Merlot a Terrazzo el vegnea bon” e dunque ho proseguito per la mia strada. Oltre al merlot, sono state scelte alcune varietà resistenti alle malattie fungine come il sauvignon kretos e il cabernet volos, e poi ancora la malvasia istriana e la palava (un incrocio tra traminer e Müller Thurgau). I fiumi sono l’origine millenaria di un terreno forte, ricco di minerali e con poca sabbia, dove oggi dimorano trenta ettari certificati in biologico. Sono un ostinato sognatore, in fondo, e a volte i sogni si avverano. Il laghetto dell’azienda Le Carezze e i principali fiumi del Veneto. ANTONIO BONOTTO AZIENDA BONOTTO DELLE TEZZE TEZZE DI PIAVE (TV) Da che io ricordi, con il Piave ho sempre avuto un rapporto di amore e odio. Da bocia, se volevi trasgredire, andavi sulle rive e ti pareva di essere in un luogo fantastico, come nei libri di avventure di Salgari. In un viaggio clandestino ero attratto dal suo aspetto naturalistico: le Grave, il morar, i boschetti, gli uccelli. Sembrava un’oasi dove non era mai passato nessuno. Invece non amavo l’acqua: mia madre, giovane maestra che veniva traghettata in barca per raggiungere la scuola sull’altra riva, mi ha trasmesso il timore per il Piave traditore: molti amici ci persero la vita. Poi il fiume è il filo che lega Tezze alla storia familiare. Dico spesso che le mie radici si sono spostate di 600 metri in 600 anni, nel Borgo Malanotte. Il mio lavoro non è stato e non è soltanto produttivo, ma anche concettuale: il raboso Piave è il vitigno che ci ha tenuto radicati a questi luoghi di fiume in tempi in cui non c’era molto altro. Il merito di noi produttori è aver tenuto la fiammella accesa, facendo tesoro della storia per guardare al futuro. Certo, mi porto addosso anche caratterialmente quella “patina di antico” che deriva dalla mia storia, ma oggi ho passato le consegne ai miei due figli, Giacomo e Luigi, formati da studi in agraria ed enologia. Il senso della storia e la gratitudine per i luoghi e le persone che hanno fatto la viticoltura qui, in tempi non certo facili, è anche in loro presente e viva. Non è una cosa che riguarda solo me. Sul Piave le giovani generazioni, preparate dallo studio e forti dell’esperienza dei padri, non dimenticano il passato ma sperimentano anche strade nuove: vini ancestrali, macerati, il Metodo Classico. Con conoscenza e competenza allargano l’orizzonte delle collaborazioni con Università e Istituti di ricerca per la viticoltura e la produzione. Si aprono anche a nuove forme di comunicazione e all’enoturismo. Noi, gente del Piave, siamo in fondo un po’ camaleontici: quando negli anni Sessanta la bellussera è stata chiamata a produrre 350 quintali perché il consumo pro capite era di 130 litri, abbiamo dato risposta. Altrettanto la diamo oggi con la creazione del distretto spumantistico del Prosecco e con il Pinot Grigio. Il Raboso d’annata dal giusto rapporto qualitàprezzo e il Piave Malanotte, corposo ed elegante, sono le espressioni di un vitigno che è ancora il simbolo di questo territorio. Sul Piave il Raboso resiste ancora. La famiglia Cecchetto. Vecchia vigna di raboso. Il raboso dell’azienda Terre Grosse. GIORGIO CECCHETTO AZIENDA AGRICOLA CECCHETTO TEZZE DI PIAVE (TV) Il Piave ha influito molto sulle mie scelte di vita. Sono arrivato a Tezze quando avevo cinque anni e qui in azienda siamo a circa 600 metri in linea d’aria dalle sue rive. Quando si pensa al Piave, viene spontaneo pensare al vitigno per eccellenza che si coltiva soprattutto sulla sua riva destra: il raboso Piave. Mio padre era viticoltore, lo coltivava e dunque, fin da piccolo, ho associato il fiume a quest’uva e ai sassi delle Grave. Fare il viticoltore sul Piave significa coltivare su suoli alluvionali, ciottolosi, frutto della discesa di un ramo di un enorme ghiacciaio. Suoli di ghiaia e sabbia accanto alle rive, nel tratto dell’alta pianura: famose per la viticoltura sono le Grave di Papadopoli un’isola formatasi nell’ansa del fiume dopo il Ponte della Priula. Suoli che poi divengono più argillosi e limosi lontano dalle rive e comunque nel tratto più basso che corre verso l’Adriatico. I rivieraschi, coloro che vivono sul Piave, sanno bene che il fiume esercita un fascino particolare. Quando dici a qualcuno che sei di Treviso e di Tezze di Piave ti dicono: “Ah, il Piave!”. E il pensiero corre alla Grande Guerra, al “Piave che mormorò” e al raboso che qui si coltiva da secoli, come testimoniato da Jacopo Agostinetti nel libretto “Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa” del 1679. Oggi il raboso Piave rappresenta forse il 3% di tutta la Momento della vendemmia. FOTONOTIZIA Biodiversità in pericolo Gli ecosistemi fluviali del pianeta, a dispetto dell’estensione ridotta - fiumi e laghi coprono solo l’1% della superficie terrestre -, sono la dimora di moltissime forme di vita, e rappresentano bacini essenziali per la biodiversità. Gli ecosistemi d’acqua dolce, infatti, ospitano circa 18.000 specie ittiche, che corrispondono a circa un quarto di tutti i vertebrati esistenti. Oggi questa biodiversità è a rischio sia a causa dell’impatto antropico, sia per i cambiamenti climatici sotto gli occhi di tutti. Informazione pubblicitaria L’ALTRO VENETO Italiani. Popolo di santi, poeti e navigatori Non solo. Popolo di politologi quando c’è da eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, di vaticanisti nei giorni del conclave e… sommelier quando c’è da scegliere il vino! Alzi la mano chi non si è imbattuto negli “esperti” che rimandano indietro una bottiglia sostenendo che sappia di tappo – peccato che il tappo fosse sintetico! – o che rifiutano una bottiglia di Garganega perché è la stessa uva con cui viene fatto il prosecco... Un esercito che si attacca ai soliti stereotipi, alle solite cantine e ai soliti luoghi comuni. E che del Veneto conosce le zone più blasonate ignorando l’esistenza dell’Altro Veneto: una grande varietà di territori altamente vocati alla produzione vitivinicola in grado di offrire prodotti di eccellenza e che non aspettano altro di essere scoperti nel loro profondo, con le loro caratteristiche e le loro unicità. Ma non solo di vino si tratta. Prendete i Colli Berici, ad esempio. Una zona incontaminata dove il territorio e il tessuto sociale lavorano in sintonia e in maniera organica per offrire esperienze indimenticabili. Si comincia dalle meraviglie architettoniche create da Palladio e dai suoi allievi per proseguire con ristoranti di eccellenza, stellati e non e finendo tra colline ricche di verde e di boschi che con i loro terreni calcarei e argillosi riescono a donare ai vini che qui nascono un’eleganza e una freschezza davvero fuori dal comune. PuntoZero ha raccolto questa importante eredità di tradizione e bellezza e l’ha tradotta nei suoi prodotti, cercando di dare la propria impronta ed esprimendo la propria idea di vinificazione. Annata dopo annata i vini di PuntoZero cambiano rimanendo fedeli a loro stessi. L’azienda si impegna costantemente non solo per portare le diverse stagioni e i diversi climi che ogni anno mutano all’interno delle proprie bottiglie, ma affina sempre la propria ricerca per centrare l’obiettivo di essere riconoscibile ma contemporanea. I vini sono otto: due bianchi, il primo ottenuto da uve Pinot Bianco (Trasparenza) e il secondo, autoctono, ottenuto da uve Garganega (Gargà) e sei rossi da uve Cabernet Sauvignon (Idea), Merlot, Cabernet franc e sauvignon (Dimezzo), Merlot (Punto) e Sirah (Virgola). Più due autoctoni, un Tai Rosso e un Carmenere. La filosofia di PuntoZero si riflette, tra gli altri, nel Carmenere. Vitigno affascinante e vagabondo che gira dall’Europa alle Americhe prima di essere riscoperto nel nord-est italiano, dove proprio nei Colli Berici trova un terreno vocato in grado di farlo esprimere al meglio. La versione di PuntoZero è una DOC Colli Berici Riserva; l’uva viene fatta surmaturare e per questo la vendemmia avviene ad ottobre inoltrato, una bella scommessa visto il clima incerto e le frequenti piogge autunnali. In cantina riposa per diciotto mesi in barrique francesi mai nuove per preservare i caratteri di quest’uva e ammorbidirne gli spigoli senza dare troppe influenze e tannini di legno. Sorseggiarlo è una costante scoperta. Vitigno simile al Cabernet Franc, se gestito correttamente in vigna scopre delle note verdi morbide ed eleganti tipiche varietali, unite a piccola frutta nera, che invitano qualsiasi amante del vino a lasciarsi trasportare tra aromi cangianti, complessità tutt’altro che scontate ed evoluzioni nel bicchiere che gli faranno passare lunghi e affascinanti secondi con il naso nel calice, per giocare a cogliere tutte le sfumature che a mano a mano si presentano, compaiono sparendo dopo poco, in una giostra di aromi e sapori senza fine.