Cien años de Rioja. Roberto Bellini Cien años de Rioja. Leggendo la frase non è difficile che il pensiero plani sul titolo del Romanzo di Gabriel García Márquez, e una rilettura con pensiero fantasioso può trovarvi anche alcune affinità, in primis per un senso di consapevole solitudine che ha avvolto questo vino per qualche secolo. Cent’anni di denominazione di origine non sono pochi, anzi ne fa una delle prime dell’era pre-moderna del vino, però ciò che l’ha spinta a quel traguardo e all’odierno vissuto viene da molto lontano, e forse quel certo senso di poco conosciuto è una delle liason con la contezza dell’isolamento della città di Macondo. La storia della viticoltura e del fare vino si lega indissolubilmente ai Romani, che con la loro presenza dal 100 a.C. al 400 d.C., e all’introduzione di competenze enoiche che ne rinnovarono lo stile, se di stile si può parlare, aiutò in quei secoli il vino a trasformarsi, diminuendo progressivamente lo stile ossidativo, il rancio (non voluto), così come quel fondo di dolcezza che li appesantiva e riusciva con troppa facilità a dare alla testa. Il collasso dell’Impero Romano non portò vantaggi alla produzione della Rioja, che dopo 300 anni vide i Mori occupare il territorio e per oltre 650 anni il vino scivolò nell’isolamento eno-commerciale, perché nel Califfato c’era l’abitudine della distillazione per elaborare profumi, medicinali e prodotti cosmetici, visto anche che l’alcol non era consumato come bevanda, per cui furono delle individualità, cioè i viticoltori, a produrre vino da inviare fuori dal Califfato, dove la cristianità ne ammetteva il consumo. Dopo la riunificazione, il vino della Rioja, pur con tutte le problematiche logistiche, anch’esse foriere di un po’ di isolamento dovute all’assenza di fiumi navigabili e lontananza dal mare, diventò merce da esportare per l’assetato popolo delle Americhe. C’era in quegli anni un vissuto enologico che non riusciva a dare identità al vino riojano, e i produttori vivevano con un po’ di preoccupazione la situazione, poiché il tutto del vino si riconduceva a un tutto improprio, ovverosia si faceva di “ogni erba un fascio”, o peggio ancora “miscere sacra profanis”. È sì vero che il vino rosso iniziava a tassellarsi enoicamente nella ricerca di un indirizzo organolettico che lo portasse a distinguersi da tutti gli altri e fu per questo (è una deduzione) che nel 1560 fu definita la stipula di un accordo tra i produttori di vino per apporre un’etichetta comune sulla bottiglia, a cui seguì nel 1787 una politica di promozione della viticoltura per innalzare la qualità del vino nel tentativo di favorire la penetrazione nei mercati del Nord Europa. Ciò nonostante, quel tentativo di essere riconoscibili, di identificarsi come singolarità produttiva, non dette risultati, per cui la nascita della Denominazione di Origine Rioja fu un obbligo, un’esigenza di sopravvivenza. Questo consentì di togliere definitivamente quel velo che impediva al vino della Rioja di specchiarsi solo nella sua immagine, soprattutto dopo la crisi della fillossera che lo vide trasformarsi in vinodotto per rifornire il mercato del Bordeaux, rimasto completamente a secco.