Nonostante la grandezza di Giuseppe Verdi, un critico musicale italiano ottocentesco non era esente dal muovergli critiche. Così fece anche Ottavi (e poco importa che il padre, Giuseppe Antonio, fosse in contatto con Verdi il quale gli chiese alcuni consigli sulla gestione della sua tenuta di Villa Sant’Agata e per avere direttamente alcune pubblicazioni: nella biblioteca verdiana, infatti, figurano alcuni volumi degli Ottavi quali L’arte di fare il vino insegnata ai cantinieri di Ottavio, Eureka! Eureka! Nuovo metodo per fare fruttificare abbondantemente le viti anche in anni sfavorevoli e la prima edizione de I segreti di don Rebo di Giuseppe Antonio). Siamo nel 1874 e a Casale andò in scena La forza del destino:

Lo spartito che ci occupa non è per certo uno dei migliori di Giuseppe Verdi; toglietemi questi cinque pezzi, il terzetto finale, la melodia Pace pace, la scena col padre Guardiano, il finale secondo e la preghiera dello stesso atto, e non rimarrà che una musica discreta se vuolsi e popolare, ma qua e là poco accurata e spesso stucchevole.

La recensione, come ovvio, suscitò una querelle con un interlocutore anonimo (probabilmente sul Casalese) che spinse Ottavi, in altre tre riprese a ribadire il concetto: «Quello che nella Forza del destino è stucchevole, lo è e lo sarà sempre, per quanto sia grande il nome del Verdi o ancor più grande, se possibile, diventi» e aggiungendo in nota: «È impossibile, per grazia di esempio, che mi si trovi un solo uditore un po’ intelligente che non riconosca per triviale (dico triviale) l’aria di Fra Melitone nell’atto IV (scena seconda, la mag. Sì, sì, ma in otto giorni ecc.) la quale cantasi dai beoni nelle nostre vie».