Donne che producono vino, donne che lo degustano, donne che lo vendono, donne che lo promuovono, donne che ne scrivono. Sono molte, sono sempre di più. E non c’è stato bisogno di quote rosa, né di suffragette immolate alla causa o di battaglie parlamentari per la parità di genere. È successo spontaneamente, e anzi se vogliamo osservare il fenomeno con la prospettiva dei tempi lunghi della storia, siamo solo all’inizio di una rivoluzione pacifica che sta femminilizzando il mondo del vino, nel senso di un apporto di cura, di studio, di inevitabile innovazione e anche di attaccamento alla terra (al terroir).
Per secoli, l’immaginario, che era maschile, ha prodotto l’idea che il vino fosse una cosa da uomini. La rappresentazione che teatro, letteratura e cinema hanno fatto della bevitrice era popolata di vecchie ubriacone tristi, di casalinghe inquiete con i lineamenti sfigurati dall’alcol, di volgari ostesse anche un po’ mezzane oppure di pin up discinte, magari raffigurate a mollo nelle coppe di champagne, con le gambe fasciate da giarrettiere che spuntavano dall’orlo del bicchiere. Oggi, quando pensiamo a una donna che beve o che si occupa di vino, è molto più facile che ci vengano in mente ragazze e signore determinate, che hanno scelto i mestieri del vino non per lasciarsi andare, e nemmeno per fare un lavoro, un lavoro qualsiasi, ma perché lo percepiscono come una scelta di campo, così come un artista è un artista e un medico è un medico: a tempo pieno, come una vocazione.
È un cambiamento di percezione iniziato alla fine del Novecento e ormai consolidato. E pensare che gli antichi Romani, la cui morale non era certo rigida come quella introdotta più tardi dal cattolicesimo, sino al I secolo potevano punire con la pena capitale le donne che fossero state scoperte a bere vino, equiparate agli schiavi, cui pure era interdetto il consumo. Nelle Notti Attiche, Aulo Gellio riporta lo straordinario incremento di produzione del vino che si verificò nell’età augustea, quando finalmente decadde per donne e schiavi l’obbligo di «pasto astemio, nel quale non si beve vino». Pasto che «è detto pasto canino, poiché solo il cane si astiene dal vino».
Duemila anni dopo (ce n’è voluto di tempo!), le donne non solo sono diventate attente bevitrici, spesso molto più esigenti degli uomini, ma primeggiano in molti dei mestieri del vino.
Perciò ha fatto molto bene Cinzia Benzi a raccogliere le storie individuali di signore che contribuiscono a tenere alta la qualità del vino, con il loro apporto enologico, comunicativo, organizzativo. È incoraggiante, contagioso, affascinante leggere le vicende umane di donne che – non necessariamente perché provengono da una famiglia di produttori – hanno deciso di costruire la propria identità attorno alla produzione e alla comunicazione del vino di qualità. Cinzia Benzi ha raccolto alcune biografie, ed è stata una prima selezione indubbiamente difficile. Perciò le auguro di riuscire a prolungare questo progetto con nuovi libri e nuovi personaggi, come fosse uno di quei serial televisivi che ci tengono avvinti in attesa di una nuova stagione.
C.B.
marzo 2017