CAPITOLO 1 LE MATERIE PRIME Le materie prime fondamentali nel processo brassicolo sono: l’acqua, il malto, il luppolo e il lievito, elementi che in questo capitolo analizzeremo nel dettaglio partendo da quello che, quantitativamente, predomina su tutti, ossia l’acqua, l’impalcatura su cui poggia tutto. L’ACQUA L’acqua è la materia prima più utilizzata di tutto il processo brassicolo. Parliamo di una protagonista assoluta: oltre il 90% delle birre al mondo ha al suo interno un quantitativo minimo di acqua pari o superiore all’87%. Eludono questa semplice statistica solamente quelle tipologie di birra che sono particolarmente alcoliche e/o con una notevole quantità di zuccheri residui. Stiamo quindi analizzando, senza dubbio alcuno, la materia prima più rilevante dal punto di vista quantitativo, e in virtù di questo dobbiamo riconoscerle la giusta prospettiva. Perché, se è pur vero che degustando una birra non esordiremo mai dicendo “che ottime sfumature di acqua”, cosa che invece faremo per tutte le altre caratteristiche, abbiamo tra le mani l’impalcatura, la ragnatela e il ponteggio su cui poggiano tutte le altre percezioni frutto delle materie prime utilizzate, senza la quale non giungerebbero mai a noi con la stessa eleganza o prospettiva. Un lavoro in sordina, che funziona proprio perché tale. Un filo nascosto che ci permette inconsapevolmente di gioire di una composizione complessa. È un composto chimico di formula molecolare H2O, in cui i due atomi d’idrogeno sono uniti a quello di ossigeno con legame covalente polare. Essendo un ottimo solvente, l’acqua naturale contiene molti elementi disciolti, principalmente . Le cosiddette “acque dure” sono particolarmente ricche di sali; al contrario, le “acque dolci” (o morbide) hanno una concentrazione salina particolarmente bassa. I sali minerali comportano la presenza di ioni positivi (cationi) e ioni negativi (anioni); il loro bilanciamento determina il pH dell’acqua, che va da 0 (situazione altamente acida) a 14 (situazione estremamente basica, o alcalina). In un’acqua con la medesima quantità di minerali disciolti positivi e negativi la concentrazione degli H+ e degli OH- è pari, e dunque il pH risulta uguale a 7, che corrisponde alla neutralità. Gli elementi disciolti interagiscono tra loro e si combinano in composti secondari, creando situazioni diverse in base alle caratteristiche geologiche e climatiche della fonte. I sali minerali sono fondamentali per la determinazione di uno stile birrario specifico; inoltre, il pH in ammostamento è cruciale per l’attività enzimatica. sali minerali Tra i sali minerali si annoverano: calcio, magnesio, sodio, solfati, carbonati, cloruri. Il dona pienezza gustativa. Calibrato ad arte, è in grado di accentuare le sensazioni gustative maltate attraverso una serie di processi indiretti; ha la capacità di tamponare l’estrazione dei tannini nel malto durante l’ammostamento (mash), aiuta gli enzimi e agevola la coagulazione delle proteine. Altro aspetto fondamentale per l’impatto gustativo e per la shelf-life della birra, ossia la sua durata commerciale: favorisce la flocculazione del lievito, garantendo un illimpidimento migliore e più veloce. calcio Importante nutriente per il lievito, il (come lo zinco) favorisce una fermentazione regolare e più “pulita”. Agendo come cofattore enzimatico, è in grado di portare questa linearità anche nelle trasformazioni che avvengono durante il processo di ammostamento. Accentua il sapore della birra, ma se in eccesso fornisce astringenza all’amaro. magnesio Il intensifica piacevolmente il sapore della birra. È facile da intuire, dal momento che fa parte del cloruro di sodio, il sale impiegato in cucina per insaporire i cibi. Alla birra dona rotondità e corpo. Come il magnesio, in quantità eccessiva aumenta l’astringenza dell’amaro. sodio I sono particolarmente apprezzati per la tipica nota gessosa, che nella birra amplifica la sensazione amaricante e dona pienezza gustativa, sottolineando la secchezza della beva. Un’acqua ricca di questi elementi è adatta a ricevere generose quantità di luppolo, ma va utilizzata con criterio, poiché i solfati possono conferire anche un po’ di asprezza. solfati La situazione si complica con i , sali noti per la ruvidezza gustativa e dal sapore amaro e aspro. Inoltre, frenano l’abbassamento del pH grazie a una sorta di scudo, il “potere tampone alcalino”, vanificando buona parte degli sforzi di acidificazione. Combinati al calcio, possono formare calcare e nel tempo generare lesioni agli impianti, se non opportunamente trattati. carbonati I , come il sale da cucina, incrementano il sapore della birra e la pienezza al palato. Aumentano anche la percezione della dolcezza e della morbidezza, conferendo rotondità. Sono utili per migliorare la stabilità della birra e la limpidezza. Ragionando sulle acque di brassaggio trattate da un impianto di depurazione, non va sottovalutata l’eventuale presenza di cloro: aggiunto per rendere sicura l’acqua dal punto di vista microbiologico, si rivela del tutto negativo per la birra. Può conferire un odore e un sapore simile a quello dell’acqua della piscina, conducendo alla produzione di cloro-fenoli, ossia al difetto di “fenolico”, che ricorda l’odore di medicinale. Alla lunga, inoltre, corrode le attrezzature in acciaio. cloruri Nel processo produttivo il birraio ha costantemente bisogno di acqua. Per far fronte alle esigenze produttive sono da considerare: la quantità di acqua necessaria per produrre la birra, la frazione assorbita dai grani esausti, la parte che evapora durante l’ebollizione, quella che resta intrappolata negli strumenti (tubi, raccordi, ecc.) e la quota di conversione da calcolare per la “dilatazione termica”. La maggior parte delle birre contiene un quantitativo minimo di acqua pari o superiore all’87%; in una birra a 5% vol., filtrata ed estremamente secca, la quota supera il 92%. L’acqua assorbita dalle trebbie ha un’incidenza di tutto rilievo: si stima che, a ogni produzione, le trebbie esauste dei malti ammostati trattengano al loro interno il 75% di acqua rispetto al peso totale. Dopo l’ammostamento il mosto è portato a circa 100 °C e fatto bollire per un’ora o più. Durante l’ebollizione una parte significativa di acqua evapora. In un impianto ad alta efficienza tale quota non deve superare il 5% del mosto totale messo in ebollizione. Al termine, il mosto risulta più concentrato rispetto alla densità iniziale a causa del liquido perso. Infine, la dilatazione termica. Quando il mosto passa da 100 a 20 °C (temperatura media per l’inserimento di un lievito ad alta fermentazione), si verifica un cambiamento di densità e quindi di volume: in altre parole, il mosto perde il 4% di volume e occupa meno spazio. Mille litri a 100 °C si trasformano in 960 litri a 20 °C. Al netto di tutte queste variabili, al birraio occorrono circa 6-7 parti in acqua rispetto al malto. Una quota enorme, destinata a raddoppiare contando anche il lavaggio degli impianti. Oggi è tecnologicamente possibile modificare l’acqua, sottraendo ed eventualmente aggiungendo i sali che si preferiscono. La maggior parte dei birrifici artigianali tende a valorizzare la propria acqua e la utilizza come ingrediente identificativo del territorio, addizionando al massimo qualche sale e quasi mai sottraendo. Il processo industriale, invece, per poter far fronte alle logiche di mercato, spesso si comporta in modo diverso. Per un brand dal commercio globale spesso è più vantaggioso distribuire la produzione in tanti impianti molto distanti tra loro, abbattendo gli ingenti costi di trasporto, piuttosto che ingrandire a dismisura l’impianto originario per coprire le richieste dai vari continenti. E poiché ogni acqua ha una propria matrice salinica, per non creare birre diverse da nazione a nazione si rimuovono tutti i sali disciolti nell’acqua, prevalentemente con processi di osmosi inversa o di distillazione aggiungendo poi i sali minerali necessari, così da garantire la standardizzazione della ricetta in ogni parte del mondo. Esistono alcuni luoghi simbolo per la produzione birraria dotati di acque dalle caratteristiche uniche, tali da permettere la nascita delle birre che conosciamo oggi. Sono: Plzeň nella Repubblica Ceca, Monaco e Dortmund in Germania, Dublino in Irlanda, Burton upon Trent in Inghilterra. Un’acqua molto calcarea, ricca di calcio e di carbonati, essendo particolarmente dura, è poco versatile nella produzione di birra, perché è molto alcalina e aggiunge una spiacevole sensazione di astringenza all’amaro del luppolo. In questo caso è opportuno pianificare una birra ricca di malti scuri (detti anche acidificanti), per arrivare al pH consono all’ammostamento, e contestualmente impiegare modeste quantità di luppoli. Queste condizioni sono la realtà di due aree molto distanti tra loro: Dublino e Monaco, dove sono state create le Stout più famose al mondo e le impenetrabili quanto meravigliose Dunkel. A Burton upon Trent, tra Londra e Liverpool, l’acqua è estremamente ricca in gesso (solfato di calcio), perfetta quindi per una birra fresca, secca e decisamente luppolata. Nascono tradizionalmente qui le migliori Bitter, che evolveranno poi nelle più famose India Pale Ale. Altro magnifico connubio si registra, nella Repubblica Ceca, a Plzeň (Pilsen, in tedesco), dall’acqua particolarmente dolce e povera in sali minerali, una sorta di acqua distillata. Un famoso birrificio locale ha giocato con due tra le più raffinate materie prime: il malto Pils, chiaro e dotato di un ottimo livello proteico, capace di donare intriganti note di miele e farina, e il luppolo Saaz, dall’elegantissimo profilo aromatico articolato tra la speziatura bianca, il floreale e l’erbaceo. Dosi abbondanti di questi due elementi uniti all’acqua dolcissima hanno dato vita a una perla del panorama brassicolo mondiale: le straordinarie Pilsner. In risposta alle birre chiare tipo Pilsner, dal 1870 si è sviluppato nella regione industriale di Dortmund lo stile Dortmunder: dalla gravità leggermente più alta, ha un corpo ben definito e una maltosità che fa da complemento alla luppolatura, accentuata dai solfati molto abbondanti. Plzeň Monaco Dublino Dortmund Burton Ca 7 75 115 250 25 Mg 2 20 4 25 45 Na 2 10 4 70 55 SO 4 5 10 55 280 725 HCO 3 15 200 200 550 300 Cl 5 2 19 100 25 IL MALTO La varietà di orzo utilizzata per la birra è quella distica, che presenta sulla spiga solo due semi, o cariossidi, uno speculare all’altro. Rispetto al polistico, il seme dell’orzo distico ha dimensioni maggiori. Possiede un’ampia riserva di amidi, un alto contenuto enzimatico da estrarre ed è rivestito da glumelle: per questo è definito “cariosside vestita”. Facendo germinare e successivamente essiccare le cariossidi d’orzo, in specifiche condizioni, si ottiene il malto. Il processo di produzione del malto – la maltazione – ha diversi obiettivi: rende disponibili gli enzimi e altre sostanze utili ai microrganismi, l’orzo diviene più friabile, sviluppa caratteristiche aromatiche e influisce sul colore finale della birra. In primo luogo, la maltazione permette lo svilupparsi, nella cariosside in germinazione, di enzimi specifici (come α-amilasi, β-amilasi, ecc.), che sono indispensabili per la degradazione dell’amido del malto nelle successive fasi di lavorazione. Senza questi enzimi l’amido, che è un carboidrato di grandi dimensioni, non potrebbe essere trasformato in zuccheri semplici. Il processo di produzione inizia con la del cereale conferito alla malteria: grazie a particolari macchinari si eliminano tutte le impurità e i corpi estranei (semi di diversa entità, piccole pietre, sabbia, terra, frammenti di metallo e altro). Segue la granulometrica, ossia la suddivisione delle cariossidi d’orzo in base alla loro dimensione tramite un vaglio meccanico. Le cariossidi più grandi contengono maggiori quantità di amido e sono da preferire nella produzione di birra: ecco perché si utilizza l’orzo distico. pulitura calibratura L’orzo pulito e calibrato è immerso in grandi vasche piatte piene d’acqua, per stimolarne la germinazione. Durante questa fase, detta o macero, il seme assorbe acqua, e da un’umidità iniziale del 14-15% passa al 42-46%; si creano così le condizioni più favorevoli per la migliore e più veloce germinazione del chicco d’orzo. Il processo di bagnatura prevede una serie di cicli di immersione in acqua seguiti da soste di esposizione all’aria. bagnatura Con un’umidità intorno a 30%, l’embrione della cariosside inizia a germinare (dal seme si sta lentamente passando alla spiga) e sintetizza ormoni di crescita (gibberelline), che a loro volta stimolano la formazione di enzimi idrolitici. Questi cominciano a degradare le sostanze di riserva del seme, come l’amido, le proteine e i β-glucani (complessi che legano l’amido ed evitano che questo possa poi rendersi disponibile nel mezzo). Il seme inizia a consumare ossigeno e a produrre CO2 e calore, che devono essere allontanati per evitare l’asfissia dei semi: per questo motivo si eseguono delle . pause all’aria Verso il termine della bagnatura, nel seme inizia la , che si manifesta con la formazione di un abbozzo di radichetta (futura radice della spiga) e del coleoptile (parte apicale o, semplicemente, punta della spiga). L’orzo è trasferito in grandi vasche, dove prosegue la germinazione. È rivoltato e rimescolato periodicamente per rimuovere l’anidride carbonica e aerare il seme. Poiché le radichette fuoriuscite dal seme tendono a legarsi tra loro, è necessario rivoltare frequentemente la massa, per evitare che si formi una maglia intricata. germinazione Quando il coleoptile ha raggiunto circa i tre quarti della lunghezza delle cariossidi in germinazione, il “grado di modificazione” dei semi (ovvero la massima trasformazione possibile, che consiste nel numero massimo di enzimi e la quantità massima di amido ancora presente e non degradato) è considerato sufficiente. Al termine della germinazione l’orzo è detto “malto verde” e contiene un’elevata quantità di enzimi, fondamentali per il processo di ammostamento durante la produzione della birra. I semi sono allora inviati all’ in speciali locali, dove si introduce aria a temperatura controllata. L’essiccamento del malto verde interrompe il processo germinativo, inattivando l’embrione e determinando l’allontanamento dell’acqua; l’umidità del malto scende dal 42-45% a valori inferiori al 5%. essiccamento Il processo di essiccamento avviene attraverso potenti getti d’aria calda. Oltre ad allontanare l’acqua dalla cariosside, la temperatura raggiunta provoca la formazione di composti della “reazione di Maillard”, che caratterizzano l’aroma e il colore finale del malto e variano di intensità a seconda dei tempi e delle temperature dell’essiccamento. La temperatura dell’aria introdotta nell’essiccatore inizialmente non supera i 55 °C, per evitare di inattivare i complessi enzimatici formatisi durante la germinazione. Quando l’umidità delle cariossidi scende sotto il 25%, è aumentata a 70 °C circa. Con umidità inferiore al 10%, la temperatura sale a 80-85 °C. Il processo di essiccamento entra così nell’ultima fase, detta “colpo di fuoco”, e termina con l’umidità sotto il 5%. Le temperature di essiccamento, oltre all’umidità, influenzano la composizione aromatica e il colore, che si fa sempre più scuro. Al termine dell’essiccamento il malto è sottoposto a una spazzolatura per rimuovere le radichette, ed è stoccato per alcune settimane in appositi magazzini per permettere una ridistribuzione uniforme dell’umidità residua. Il malto così formato è detto : ha colore chiaro, un elevato contenuto zuccherino e un altissimo contenuto enzimatico. Con rare eccezioni, è impiegato nella misura minima del 60% nella maggior parte delle birre del mondo. malto base Rientrano in questa categoria i malti: Pale, Pilsen, Vienna (parzialmente), Monaco (parzialmente). Esistono poi i , divisi in “caramellati” e “tostati”. Un ulteriore passaggio, infatti, prevede, a seconda delle tipologie, l’introduzione di malto appena germinato, o dei malti base, all’interno di forni (kiln) a temperature molto elevate. Per i si arriva a 150 °C, per il tempo sufficiente a ottenere il colore desiderato e la giusta composizione aromatica. Alcuni esempi sono: Crystal, CaraHell, CaraRed. malti speciali malti caramellati Per i l’aumento della temperatura arriva a sfiorare i 220 °C e il tempo di esposizione al calore è più lungo. Esempi di malti torrefatti sono: Chocolate, Carafa Special 3. malti tostati È il momento di effettuare alcune analisi chimiche per verificare la qualità finale della birra, ad esempio controllando la percentuale di umidità e la resa in estratto, cioè la quantità di sostanza solubile che si ottiene da 100 grammi di malto in un mosto standard. La scala utilizzata per catalogare il colore dei malti (e delle conseguenti birre) in Europa si chiama EBC (European Brewing Convention), mentre negli Stati Uniti si utilizza la scala SRM (Standard Reference Methods). La scala EBC è circa il doppio della scala SRM. Ogni malto ha uno specifico EBC dichiarato dal produttore (Pale 5 EBC; Vienna 10 EBC; Carapils 30 EBC; Chocolate 1200 EBC). Il mastro birraio, miscelando opportunamente una combinazione di malti macinati (grist), conosce in anticipo quale sarà il colore della birra. I succedanei Secondo il DPR 30 giugno 1998, n. 272, art. 1, comma 4, si possono utilizzare anche altri cereali non maltati o materie prime amidacee e zuccherine (per il 40%). Perché si utilizzano i succedanei? Le ragioni sono molteplici: alcune materie prime amidacee sono più economiche del malto, oppure si desidera produrre birre con un profilo sensoriale specifico, con una migliore stabilità colloidale, caratterizzando l’aroma e il gusto della birra. Cereali crudi, quali l’orzo o il frumento, migliorano la schiuma della birra, mentre l’aggiunta di zuccheri o sciroppi può modificare il grado di fermentescibilità della birra, con influenza sulla pienezza del gusto. L’aggiunta di estratti di malto può correggere il colore del mosto, mentre quella di cereali o sciroppi ad alta fermentescibilità origina birre più leggere e meno caloriche. ALFA-AMILASI BETA-AMILASI CRUDO MALTATO CRUDO MALTATO ORZO < 0,1 94 30 34 FRUMENTO < 0,1 214 25 24 SEGALE < 0,1 119 18 18 RISO 0 2 1 < 0, 0,2 GRANTURCO 0,2 36 < 0,1 < 0,1 Osservando la tabella si comprende come sia inutile oltretutto maltare riso e granturco non avendo sufficienti precursori di enzimi nei cereali crudi. Granturco, riso, tapioca, e in parte anche sorgo e miglio, contengono amido che deve essere liquefatto ad alte temperature (gelatinizzato) e idrolizzato. Pertanto, sono aggiunti in caldaia di decozione da soli, fatti gelatinizzare e poi assemblati in caldaia di miscela insieme al resto del grist. Orzo non maltato, frumento non maltato, avena, segale e patate invece possono essere inseriti immediatamente con il resto del grist maltato in caldaia di miscela. Gli zuccheri solubili sotto forma solida o liquida (sciroppi, miele, ecc.) sono aggiunti solitamente in caldaia di cottura (sterilizzazione) o in bottiglia per fermentazioni secondarie (previa pastorizzazione). I principali succedanei di orzo e frumento maltato utilizzati nelle birre: Granturco · buoni estratti · basso contenuto di proteine · birre più “secche” · buon compromesso costo/resa · non contiene glutine ð celiachia Riso · conferisce un sapore “più pulito” e neutro alla birra · origina mosti molto viscosi prima della gelatinizzazione · non contiene glutine ð celiachia Sorgo · usato anche come malto soprattutto in Africa (cresce in areali caldi e poco piovosi) · basso contenuto enzimatico (richiede enzimi esogeni) · contiene polifenoli negli involucri esterni (scorze e pericarpo) conferendo alla birra una forte astringenza · non contiene glutine ð celiachia Orzo non maltato · poco utilizzato · spesso richiede presenza di enzimi esogeni per idrolizzare l’amido e le proteine · estratti bassi · migliora la schiuma Frumento · alto estratto · alto contenuto di proteine · migliora la quantità e la tenuta della schiuma · conferisce “freschezza” · dà birre torbide (caratteristica positiva voluta) Segale · buon contenuto enzimatico anche nel cereale crudo · basso estratto · poco usato · miglioratore della schiuma (segale x frumento) Triticale · buona attività enzimatica · elevato contenuto di proteine · elevata torbidità Avena · conferisce una caratteristica astringenza · schiuma buona e persistente · alto contenuto di proteine, lipidi e gomme Miglio · utilizzato soprattutto in Africa · non contiene glutine ð celiachia Grano saraceno · poligonacea (non è un cereale) · conferisce un intenso aroma di caramella mou e noce · non contiene glutine ð celiachia Saccarosio · usato come tale o distinto in fruttosio e glucosio in caldaia di cottura · utilizzato solido o come sciroppo · 100% fermentescibile (attenzione al lievito) · costoso · concentrazione 70-80% IL LUPPOLO Il luppolo è una pianta rampicante, dioica. Il termine dioico indica che gli organi riproduttivi maschili (stami) e femminili (pistillo) si trovano su due piante distinte. Nell’industria birraria – eccetto nella tradizione inglese – si utilizza l’infiorescenza non fecondata della pianta femminile, che possiede numerose foglioline, le bratteole. Queste contengono resine e oli che conferiscono l’aroma e il tipico sapore amaro. L’infiorescenza ha la forma di una pigna; come le creste legnose della pigna, le bratteole custodiscono qualcosa da proteggere sino al momento della maturità: i pinoli nel caso della pigna, gli oli e le resine per il luppolo. Grandissimo è l’impatto del luppolo sul profilo organolettico della birra finita. Sono state selezionate oltre mille sostanze chimiche nei coni dei luppoli, principalmente oli essenziali, flavonoidi, polifenoli, acidi amari come α-acidi e β-acidi, ognuna con una funzione ben precisa. La frazione resinosa comprende gli α-acidi, che apportano l’amaro tipico della birra, valutato attraverso la scala IBU (International Bitterness Units). Gli oli essenziali della frazione aromatica conferiscono, invece, le caratteristiche note che variano dai toni floreali a quelli agrumati, da sfumature erbacee a speziate, a seconda della varietà. Storicamente si utilizzavano nelle birre elevate quantità di luppolo per sfruttare le caratteristiche batteriostatiche delle resine, che consentivano una migliore conservazione del prodotto. Al giorno d’oggi, facendo un discorso generalistico che include largamente l’ideologia industriale, per meglio soddisfare le esigenze del consumatore moderno si producono birre con contenuti in α-acidi totali (per meglio dire I.B.U.) più bassi, ad eccezione chiaramente della grandissima famiglia della I.P.A. o di altre che assieme ai loro innumerevoli sottostili sono divenuti velocemente il simbolo dell’artigianalità mondiale, e quindi in grande ascesa. Attribuire però minore importanza alla capacità batteriostatica del luppolo è possibile solamente grazie all’utilizzo di moderne tecniche di lavaggio degli impianti (CIP-Cleaning In Place), che tutelano il prodotto a monte da gran parte delle contaminazioni indesiderate. Migliore sanificazione e sanitizzazione significa partire da un prodotto molto più stabile. I luppoli sono genericamente suddivisi tra “luppoli da amaro”, e “luppoli da aroma”. Tra i primi si annoverano i luppoli (o ), a elevato contenuto di α-acidi (13-16%), mentre i secondi comprendono le categorie , a basso contenuto di α-acidi (4-7%) e medio contenuto di oli, e , a bassissimo contenuto di α-acidi ( < 4%) ed elevato contenuto di oli. Bitter Super alfa Aroma Fine Aroma Le varietà più apprezzate sono originarie dell’Europa Centrale: Saaz e Auscha sono coltivate in Cecoslovacchia, lo Styrian dal versante croato, Hallertau Mittelfrüh e Spalt in Baviera, Tettnanger nel Baden-Württemberg. I cosiddetti “luppoli nobili” (Saaz, Hallertau Mittelfrüh, Spalt, Tettnanger) presentano una percentuale maggiore di oli essenziali, responsabili dell’aroma, rispetto agli α-acidi, legati all’amaro. Li accomuna anche una tendenza aromatica simile, ovvero un intrigante mix speziato-floreale-erbaceo. Per riassumere le caratteristiche degli aromi più diffusi, i luppoli tedeschi sono generalmente erbacei, spesso con un’intrigante traccia distintiva di menta; quelli inglesi vanno dallo speziato al fruttato, restando ancorati ad aromi terrosi e a sfumature erbacee; gli americani, forse i più semplici da identificare, mostrano sovente note resinose e di pino, lasciando ampio spazio ai toni agrumati. Infine, i luppoli australiani e neozelandesi si distinguono per le sensazioni citrine e di frutta esotica, tropicale, spesso su base vegetale. La raccolta delle infiorescenze avviene tra la seconda metà del mese di agosto e i primi giorni di settembre. I fiori, che hanno un’umidità del 75-80%, sono essiccati a temperature non superiori ai 50 °C, fino a raggiungere un’umidità intorno all’8-12%. I fiori essiccati possono essere utilizzati in questa forma, oppure essere macinati e pressati per ottenere la classica forma a pellets. Questa operazione deve essere effettuata nel minor tempo possibile, poiché le caratteristiche aromatiche e le proprietà amaricanti del luppolo vengono rapidamente degradate dall’azione dell’ossigeno, dal riassorbimento dell’umidità atmosferica e dalle alte temperature. Per questi motivi il luppolo, in fiori o in pellets, deve essere conservato in modo adeguato, confezionato sottovuoto e a bassa temperatura (meglio se congelato), impiegando materiali che non assorbano l’umidità. Da diversi anni si è sviluppato un nuovo metodo di conservazione del luppolo, l’estratto liquido di pura resina concentrata, che tuttavia comporta maggiori problemi di dosaggio e di costo. È quasi esclusivamente appannaggio dell’industria e dei grandi birrifici. La composizione chimica del luppolo è molto importante per la qualità della birra. La sostanza secca dell’infiorescenza femminile contiene: proteine (20%), α-acidi amaricanti (18,5%), minerali (8%), polifenoli (3,5%), oli volatili (0,5%). Il resto sono cellulosa e fibre vegetali non rilevanti per la produzione brassicola. La concentrazione di queste sostanze varia in base alla cultivar, alle condizioni agronomiche e allo stato di conservazione del prodotto. Durante il processo di bollitura del mosto (trattata nel capitolo relativo), una cospicua frazione delle sostanze volatili dei luppoli (principalmente gli aromi) si perde per degradazione e successiva evaporazione. Per ovviare a questo inconveniente, spesso la luppolatura del mosto è suddivisa in due azioni distinte: la prima, a inizio ebollizione, assicura un rilascio maggiore di sostanze amaricanti nel mosto. Questi primi luppoli, bollendo per un tempo maggiore, solubilizzano una maggiore quantità di α-acidi, permettendo di risparmiare sulla quantità di luppolo da utilizzare. La seconda addizione avviene verso la fine della bollitura. In questo caso, si estrae ancora amaro, ma in misura ridotta. A cambiare notevolmente è la capacità di mantenere pressoché inalterato l’aroma del luppolo (oli essenziali) via via aggiunto al mosto. I polifenoli contenuti nel luppolo svolgono diverse funzioni nel processo produttivo: durante la bollitura si ossidano, provocando un imbrunimento del mosto; legandosi ai complessi proteici, precipitano, chiarificando il mosto; inoltre, conferiscono la tipica, sottile astringenza. Il loro potere antiossidante influenza la stabilità e la shelf-life della birra. Non dimentichiamo che, prima di utilizzare il luppolo, i nostri avi sperimentarono ogni combinazione possibile con erbe aromatiche e spezie. In seguito agli studi di suor Hildegard von Bingen (1098-1179) il luppolo assunse un ruolo fondamentale nella produzione della birra. Questa botanica, monaca benedettina dell’abbazia di Saint Rupert in Germania, iniziò una lunga sperimentazione sui luppoli, notando, ad esempio, che l’ausilio di queste infiorescenze aumentava considerevolmente le proprietà conservative della birra. Con una capacità simile, unita al lodevole contributo organolettico, il futuro del luppolo si legò in maniera indissolubile a questa bevanda. La tabella sottostante elenca alcune popolari varietà prodotte e utilizzate. NOME PROVENIENZA ALFA-ACIDI (%) STILE D’IMPIEGO PROFILO Amarillo USA 7-9 Ale, IPA, APA Floreale e agrumato, con note di mandarino Cascade USA 4,5-8 APA, Stout… Floreale e agrumato, con sentori di pompelmo, resina Fuggle UK 4-5,5 Ale Terroso, legnoso e delicatamente fruttato Hallertau Mittelfrüh Germania 3-5,5 Pils, Wheat, Bock Delicato, aromatico e speziato, dalle nuance mentolate Pacific Jade Nuova Zelanda 12-14 Ale Amaro deciso, con note piccanti e di agrume Saaz Rep. Ceca 3-4,5 Pils Delicatamente terroso e speziato Rakaw Nuova Zelanda 10-14 Lager, IPA Fruttato, con pesca e frutta tropicale IL LIEVITO Il lievito è un microrganismo unicellulare, appartenente al genere Saccharomyces, responsabile del processo fermentativo, ovvero di un susseguirsi di fasi e reazioni che lo vedono protagonista, essenzialmente ma non solo, nella conversione degli zuccheri provenienti dal malto d’orzo in etanolo e anidride carbonica, con concomitante produzione di calore. La legge che regola in Italia la produzione e il commercio della birra (n. 1354 del 1962, con successive modificazioni, fino al più recente DPR 272 del 1998), all’articolo 1 recita: “La denominazione birra è riservata al prodotto ottenuto dalla fermentazione alcolica con ceppi di Saccharomyces Carlsbergensis [sostituito più avanti con il più congruo nome di Saccharomyces Pastorianus] o di Saccharomyces Cerevisiae di un mosto preparato con malto, anche torrefatto, di orzo o di frumento o di loro miscele e acqua, amaricato con luppolo o suoi derivati o entrambi”. Due sono i lieviti a disposizione per la produzione brassicola e due le tipologie di fermentazione: (Ale) e (Lager). alta fermentazione bassa fermentazione La prima, più antica, prevede l’utilizzo del Saccharomyces cerevisiae, il cosiddetto “lievito da birra”, impiegato da secoli per vino, pane e prodotti della pasticceria lievitata. Questa categoria di birre ha avuto grande diffusione grazie alla capacità del lievito di svilupparsi nei climi miti europei. Infatti, si propaga e fermenta ottimamente tra i 15 e i 25 °C, temperature riscontrabili alle nostre latitudini per circa 7-8 mesi l’anno. Prima dell’invenzione della refrigerazione commerciale, nel 1859, ad opera dell’americano Alexander Twining, i birrifici europei potevano brassare i loro nettari solo nel periodo dell’anno più favorevole dal punto di vista climatico. A rivoluzionare la produzione, attraverso l’installazione di macchine frigorifere, fu nel 1863 il birrificio bavarese Spaten e presto ne seguirono altri. Uno in particolare, nel 1864, fu il secondo birrificio a produrre ghiaccio grazie a queste invenzioni industriali: si tratta dell’allora italianissima (oggi giapponese) Birra Peroni, che aprì l’impianto romano col nome “Società Ghiaccio e Birra Peroni”. Anche la calda capitale poteva dissetarsi di birra a prezzi modici, abbattendo gli ingenti costi di trasporto. Un’altra rivoluzione, ancora maggiore, era in arrivo. Nel 1876 Louis Pasteur osservò in diversi lotti di birra un ceppo di lievito ancora sconosciuto, rientrante nella categoria dei Saccaromiceti. Pasteur dimostrò il suo ruolo nella fermentazione e iniziò a isolarlo. Le ricerche si protrassero e dovette lasciare il compito di proseguirle al suo assistente Emil Christian Hansen, il quale completò l’isolamento del Saccharomyces pastorianus (in onore del suo scopritore) nel 1888. La storia fu spietata nei confronti del giusto riconoscimento di nomenclatura (carlsbergensis vs. pastorianus) per quasi cento anni. Hansen, infatti, al momento dell’isolamento operava come micologo per l’azienda danese, e alla banca del lievito battezzò il nuovo microrganismo come Carlsbergensis, ignorando che anni prima era già stato iscritto col nome del suo mentore. Un secolo di confusione, che ha impolverato anche la legislazione italiana, ma oggi possiamo porvi rimedio. Esistono le birre ad alta fermentazione, le Ale, termine anglosassone ma di origine latina, da alere, “alimentare”, e le birre a bassa fermentazione, le cosiddette Lager, dalla parola tedesca che indica “deposito, immagazzinamento”. Questa seconda categoria di birre necessita infatti di un lungo periodo di stoccaggio a freddo al termine della fermentazione, condotta a temperature mediamente più basse, dagli 8 ai 12 °C (sebbene la ricerca abbia selezionato ceppi Lager in grado di fermentare a 14-16 °C per ottimizzare il processo brassicolo). Una caratteristica che separa i due mondi è la differente capacità di flocculare, ovvero precipitare sul fondo del tino di fermentazione man mano che ci si avvicina al termine della fermentazione. I lieviti da “alta” sono genericamente più lenti nel processo di illimpidimento e questo ha contribuito in maniera decisiva a plasmare il mondo della birra. Una birra mediamente torbida, a parità di tempo concesso per l’illimpidimento, sarà sempre più instabile rispetto a una birra cristallina. Anche per questi motivi le Lager, che possiedono questa capacità intrinseca più sviluppata, oltre a una generica maggiore pulizia di aromi e profumi, sono state scelte da oltre i tre quarti dei produttori industriali del mondo. I motivi tuttavia non finiscono qui. Molto importante in questo processo di selezione è il fatto che impiegando temperature di fermentazione molto rigide, i Pastorianus lasciano poco margine di sviluppo nei confronti di altri lieviti o batteri eventualmente presenti nel mosto. Una selezione alla base estremamente significativa. La capacità di isolare e selezionare ceppi diversi di lievito ha condotto velocemente a produrre colture pure di questi organismi, per semplificare la fermentazione vera e propria. Nella birra, come nel vino e nella panificazione, la fermentazione è un processo molto delicato e complesso, e se non è condotta con estrema attenzione può facilmente portare a due situazioni molto sfortunate e purtroppo comuni: il non raggiungimento organolettico dell’obiettivo prefissato e la disomogeneità dei lotti. Ben più facile quindi, nella prassi lavorativa, è impiegare una coltura pura di lievito che garantisca omogeneità e stabilità. Si producono centinaia di tipologie di lievito, ma fra tutti un gruppetto di 10-15 ceppi è particolarmente famoso per essere “stabile” e per questo motivo sono i lieviti più utilizzati da enologi e birrai. La conseguenza? Ovviamente l’omogeneità tra i produttori e tra i relativi prodotti, che, se da un lato innalza il livello medio, dall’altro firma una nube di prodotti bevibili ma senza una vera identità. I lieviti sono funghi unicellulari che si riproducono per gemmazione; sono organismi eterotrofi, cioè hanno bisogno di un substrato da cui attingere le energie, perché (a differenza delle piante, dette infatti autotrofe) non sono in grado di elaborare da soli il proprio nutrimento. Il diametro cellulare è compreso tra 6 e 12 micron. Si comportano in modo diverso a seconda della presenza o meno dell’ossigeno disciolto nel mezzo, e per questo sono definiti “anaerobi facoltativi”. Sono quindi in grado di metabolizzare glucosio e altri zuccheri in condizioni sia aerobiche (adottando la respirazione cellulare) sia anaerobiche (con la fermentazione). Poiché la respirazione cellulare è una via metabolica molto più vantaggiosa delle fermentazioni anaerobiche, e sviluppa un apporto maggiore di energia (secondo un rapporto di 18 a 1 rispetto alla fermentazione), è anche la fase in cui le cellule di lievito aumentano in modo esponenziale la loro popolazione secondo il processo di riproduzione cellulare per gemmazione. Nel grafico si può notare la classica curva di crescita dei lieviti in un mosto appena prodotto e pronto per la fermentazione. All’inizio, dopo che il mosto è stato opportunamente aerato, il lievito si trova in condizioni aerobiche. Dopo 2-3 ore di adattamento al substrato (fase Lag), cresce esponenzialmente la popolazione di lievito che sta attuando la respirazione cellulare, sino ad attestarsi intorno ai 15-20 milioni di cellule/ml. L’ossigeno comincia a scarseggiare e poi si esaurisce. Ci si sposta lentamente dalla respirazione alla fermentazione; il lievito continua a consumare lo zucchero e tutti gli altri metaboliti, ma in condizioni anaerobiche. Si entra nella fase stazionaria, in cui tutti gli individui della colonia consumano zucchero e producono alcol etilico, CO ed energia. Nell’ultima fase i protagonisti della fermentazione sono a rischio: sono stati consumati tutti i metaboliti interessanti; se non ne verranno reintrodotti di nuovi dal birraio (magari per una seconda fermentazione, detta rifermentazione), l’unico destino è quello della morte cellulare, e i lieviti in sospensione andranno lentamente a depositarsi sul fondo del tino di fermentazione. 2 La scelta del ceppo di lievito deve tenere in considerazione vari fattori: • stile di birra desiderata • alcol tolleranza: ogni ceppo è in grado di tollerare una quota di alcol oltre la quale non è più in grado di fermentare • capacità metaboliche: nel mosto possono esserci zuccheri semplici e altri più o meno complessi; non tutti i ceppi sono in grado di cibarsi di tutti i carboidrati presenti • flocculazione • velocità di fermentazione • intensità riproduttiva • intensità aromatica (composti secondari). I principali composti metabolici e residuati del lievito sono: esteri, alcoli, alcoli superiori, acidi organici, composti contenenti zolfo, composti carbonilici, zuccheri residui non metabolizzati. Tutto questo concorre a comporre la qualità e il profilo organolettico della birra finita. Oltre alle Ale e alle Lager, esiste una piccola categoria di birre a , che prevede, come da antichissima tradizione, l’inoculo spontaneo del lievito dall’ambiente esterno. Tra esse spiccano i celebri Lambic del Belgio. È un mondo particolarmente eterogeneo e complesso, che sarà approfondito nel capitolo dedicato agli stili. fermentazione spontanea Possono concorrere al risultato finale di una birra altri organismi (lieviti o batteri), utilizzati sotto un controllo molto rigido del processo. Talvolta sono invece frutto di contaminazioni incrociate, con la conseguente produzione di difetti. Brettanomyces Bruxellensis e Lambicus: sono lieviti piuttosto lenti, utilizzati per produrre Lambic, alcune Saison e alcuni esperimenti. Metabolizzano il maltosio e apportano un poco di acidità e aromi di stalla e sudore, elementi positivi solo per le categorie già descritte o quando intenzionalmente inoculati per un risultato acidulo o acido elegante. Pichia e Candida: creano una pellicola simile alla flor nel processo dello Sherry. Sono lieviti secondari nei Lambic e possono manifestarsi anche come agenti infettanti. Lactobacillus e Pediococcus: tipologie di batteri affini, producono abbondante acido lattico. Causano acidità in Lambic e Berliner Weisse. Alcune specie producono grandi quantità di diacetile e aromi che ricordano l’odore di capra e sudore, positivi solo per le categorie già descritte o Gose, e quando intenzionalmente inoculati per un risultato acidulo o acido elegante. Acetobacter: o batteri dell’aceto, in presenza di O2 trasformano l’alcol in acido acetico, apportando gli aromi dell’aceto. Comuni nelle birre invecchiate in botte, hanno un ruolo secondario nel profilo aromatico dei Lambic. Fondamentali nel profilo aromatico delle Red Ale delle Fiandre e Oud Bruin, sono positivi solo per le categorie già descritte o quando intenzionalmente inoculati per un risultato acidulo o acido elegante.