CAPITOLO 2 LA PRODUZIONE BRASSICOLA Definiti gli ingredienti necessari – acqua, malto, luppolo e lievito – esaminiamo ora tutti i passaggi che compongono il processo produttivo per arrivare ad avere nel calice un’ottima birra. L’ARTE DELLA RICETTA Abbiamo già affrontato nel capitolo precedente le materie prime e abbiamo compreso tantissimi aspetti che le contraddistinguono. In questo capitolo cercheremo però di osservarle dal punto di vista del Mastro birraio. Sarà infatti grazie alle sue tecniche di brassaggio e al suo occhio vigile sul controllo del processo che si potrà giungere perfettamente al mosto desiderato e alla futura relativa birra. Parte iniziale del processo di produzione della birra è ovviamente la stesura della ricetta che si vuole realizzare. Sono molteplici gli aspetti da tenere in considerazione, osserviamoli insieme: • Quale sarà la gradazione alcolica? • Quale sarà il colore? • La quantità di amaro e la sua qualità? • La quantità e qualità di aroma? • La densità (rapporto acqua/malto ed estratti)? • Quale bilanciamento tra dolcezza e secchezza? • Quale dovrà essere il corpo finale? • Quali sapori da ricercare? • Quali gusti principali si vuole stimolare nella degustazione? • Quale equilibrio? • Intensità? Persistenza? • Tipologia, quantità e qualità della bollicina? • Grana, quantità, adesività e persistenza della schiuma? • Quale maturazione/affinamento eventuale? Su tutti, dobbiamo sapere che il Birraio può ricercare tutte queste caratteristiche in tre modi differenti. Il primo riguarda la possibilità di omaggiare uno degli stili di birra riconosciuti a livello internazionale seguendo le linee guida di organismi come il BJCP (Beer Judge Certification Program), ente statunitense che si prefigge appunto di raccogliere e catalogare tutti quelli che sono i principali stili di birra universalmente prodotti, inserendone di nuovi man mano che la sperimentazione prosegue e stando così al passo con i tempi. La seconda riguarda la possibilità di “miscelare” caratteristiche appartenenti a uno stile con quelle di un altro e creare così ibridi molto interessanti (vedi Hoppy blanche). Ibridi che se opportunamente riprodotti dai birrifici perché ritenuti particolarmente interessanti verranno probabilmente inseriti in futuro a tutti gli effetti tra gli stili riconosciuti (vedi Weizen Bock). La terza prevede invece uno sforzo un poco maggiore da parte del Birraio, che lo vede coinvolto nella totale invenzione di una birra partendo da zero, non seguendo affatto, quindi, alcuna linea guida prefissata da altri. Una totale invenzione del Birraio che ci piace definire “Birre Arlecchino”. Lo sforzo in questo caso è certamente maggiore per realizzare qualcosa che sia unico nel suo genere e al tempo stesso centrare perfettamente l’equilibrio gustativo desiderato. LA MACINAZIONE La macinazione consente di aumentare la superficie di scambio tra l’endosperma del cereale e l’acqua, per favorire le reazioni enzimatiche e i fenomeni estrattivi. Si rompe il chicco di malto d’orzo in due o tre parti, lasciando la frazione esterna il più integra possibile. Macinando troppo, infatti, si rischia di formare un impasto colloso, che al contatto con l’acqua tende a solidificarsi, rendendo difficile la filtrazione. Sminuzzando il seme in poche parti, invece, si ottiene una massa lavorabile, con il pregio di preservare le glumelle, preziose nella filtrazione delle trebbie. La macinazione può essere attuata con tre diversi sistemi: a secco, a umido o a vapore. Il sistema a secco prevede l’utilizzo del malto tal quale, prelevato dai sacchi così com’è. È un sistema molto economico ed efficiente di macinare il malto, utilizzato dalla maggior parte dei birrifici artigianali. Il molino può avere da due a sei rulli, con successive frazioni di dimensionamento. Il sistema a umido, come quello a vapore, necessita della reidratazione dei chicchi di malto fino a circa il 25% di umidità (con acqua in un caso e con vapore nell’altro) prima della macinazione vera e propria. La reidratazione dona maggiore elasticità alle glumelle, che saranno così facilitate a uscire dai rulli quanto più indenni e integre. L’insidia celata in queste due lavorazioni è che, idratando troppo il malto, non si riesca poi a macinare perfettamente l’endosperma, e che questo fuoriesca dalle glumelle senza rompersi. Il malto reidratato va utilizzato subito, non è possibile stoccarlo umido. L’AMMOSTAMENTO Questo processo porta in soluzione tutte le sostanze solubili del malto d’orzo, ossia: zuccheri fermentescibili, destrine, composti azotati, sali minerali. Occorre rompere tutte le proteine e gli amidi presenti nel chicco che non erano stati trasformati durante il processo di maltazione. L’azione è svolta da vari gruppi di enzimi presenti nel malto a seguito della maltazione, che degradano differenti substrati, se attivati a determinate temperature. Per programmare questa fase occorre tenere d’occhio diversi fattori: la qualità della materia prima, la composizione dell’acqua di brassaggio, il pH della miscela, il rapporto acqua-malto, i rapporti fra le temperature dell’ammostamento e il tempo di sosta. Il grafico illustra quali enzimi intervengono nel processo di ammostamento, con un pH ottimale dell’ammostamento (mash) da 5 a 5,55 (per alcune tipologie il range è 5,2-5,8), partendo da quelli che lavorano a più basse temperature. : servono per degradare i betaglucani, complessi che impediscono agli amidi di liberarsi facilmente, complicando anche la filtrazione. Oggigiorno, una buona maltazione risolve il problema dei betaglucani, poiché li degrada in quantità sufficiente. Β-Glucanasi Si possono riscontrare alti livelli di betaglucani laddove la ricetta preveda una grande quantità di cereali diversi (soprattutto non maltati). : detti anche proteasi, sono enzimi che degradano le proteine. Operano in un range tra 43 e 57 °C. A temperature inferiori si concentrano nello smantellamento delle proteine a più basso peso molecolare, facilitando la futura filtrazione e fornendo nutrienti per il lievito in fermentazione. A temperature più elevate attaccano le proteine ad alto peso molecolare, migliorando la schiuma, la pienezza gustativa della birra, il gusto e la limpidezza. Enzimi proteolitici : questi enzimi operano tra i 55 e i 68 °C, ancor meglio tra i 58 e i 62 °C. Con questi enzimi inizia la degradazione dell’amido in molecole più piccole, successivamente attaccabili dai lieviti. In particolare, il compito delle β-amilasi è smantellare l’amido per produrre zuccheri altamente o totalmente fermentescibili (semplici). Maggiore è la secchezza desiderata nella birra, più a lungo il birraio deve fare una sosta a queste temperature. Β-Amilasi : degradano l’amido in modo molto diverso e con risultati distanti rispetto alle β-amilasi. Le temperature di attivazione oscillano da 65 a 72 °C e producono principalmente destrine, elementi più semplici, se paragonati all’amido di partenza, ma particolarmente complessi se confrontati con quelli prodotti dalle β-amilasi. Il birraio fa una sosta a queste temperature se vuole ottenere zuccheri meno fermentescibili e far sì che restino nella birra finita, dando alla degustazione una base leggermente dolce. Α-Amilasi È interessante notare che a 65 °C si verifica il lavoro sincrono di entrambe le amilasi. Si otterrà una birra più secca e più alcolica se il birraio farà lavorare prevalentemente o esclusivamente le β-amilasi in ammostamento (optando per temperature più basse), al contrario sarà più dolce e meno alcolica se prediligerà le α-amilasi, impostando temperature più alte in ammostamento. Il tempo di permanenza in questa fase può variare in conseguenza di vari fattori. Intervengono nella saccarificazione della massa totale del mosto elementi come il pH, il rapporto acqua-malto e le soste scelte per completare il processo. L’ammostamento dura tra i 60 e i 90 minuti. Per verificare che tutto l’amido presente nel malto sia stato trasformato in carboidrati più o meno semplici si procede al “test dello iodio”. Prelevando un campione di mosto in ammostamento, si verifica con lo iodio che quest’ultimo non cambi colore, restando cioè rossastro/marroncino. Questo risultato indica che non si rileva alcuna presenza di amido. Se invece reagisse con l’amido, cambierebbe colore virando al nero violaceo o al blu scuro. Verificato che tutto l’amido sia stato convertito, si procede a innalzare la temperatura d’ammostamento sino a raggiungere i 78 °C (temperatura di mash out). A questa temperatura gli enzimi vengono inattivati e si assicura la stabilità del mosto. La soglia di 80 °C in ammostamento non va superata, altrimenti si inizierebbe a estrarre una copiosa quantità di tannini indesiderati. L’eccezione alla regola esiste sempre. Se la ricetta prevede anche cereali con una temperatura di gelatinizzazione degli amidi molto alta (spesso sopra i 90 °C), quali mais e riso, occorre lavorare queste cariossidi separatamente dalla massa base del malto d’orzo, in un tino che può arrivare a ebollizione e consentire la modificazione necessaria degli amidi contenuti nei cereali succedanei. Il mosto ottenuto in questo processo parallelo (decozione) viene aggiunto alla sua temperatura al restante mosto nel tino di ammostamento. Le due masse, di dimensioni e temperature diverse, si compenseranno a vicenda per arrivare insieme alla temperatura di mash out. LA FILTRAZIONE Una volta estratti e solubilizzati nel mezzo tutti i fattori interessanti per il Birraio, il malto d’orzo lavorato si definisce “trebbia di malto” e consta di tantissime fibre, pochi zuccheri residui e poche proteine. Il processo di filtrazione consiste nell’allontanare le “trebbie di malto” dal mosto di birra appena ottenuto. Dopo una sosta di tutta la massa di circa 10-15 minuti per far adagiare sul fondo del tino le trebbie del malto, il birraio inizia a prelevare dal basso il mosto, facendolo ricadere delicatamente a “pioggia” sul cappello del tino stesso. Fino a quando il mosto non appare limpido, il birraio continua questo ricircolo. Raggiunta la limpidezza desiderata, il mosto limpido è portato in un nuovo tino (tino di bollitura), che sarà utilizzato nella fase successiva. Le glumelle dell’orzo, che non sono state frantumate nel processo di macinazione, risultano ora di fondamentale importanza. Grazie, infatti, alla grande quantità di glumelle preservate, le trebbie del malto si adagiano sul fondo non in modo serrato e compatto: tra loro vi è molto spazio. Quando il birraio inizia a prelevare il mosto dal basso del tino, contemporaneamente, il liquido al di sopra delle trebbie comincia a passare attraverso di esse; nel transito si libera di tutte le particelle più piccole e leggere, che rimangono intrappolate fra le trebbie. Man mano che il mosto, filtrato, viene travasato, il livello nel tino inizia a calare. È fondamentale evitare che le trebbie arrivino a contatto con l’aria, per preservarle da una rapida e severa ossidazione. Ciò comporterebbe un difetto nella birra e influenzerebbe negativamente la shelf-life del prodotto. Il birraio inizia ad aggiungere dell’acqua limpida (sempre a 78 °C) sul mosto in filtrazione, per non scoperchiare le trebbie. Questi lavaggi delle trebbie (sparging) servono anche per recuperare gli zuccheri presenti nel mosto stesso. Il letto di trebbie, infatti, ha trattenuto le farine più grossolane, ma pure una copiosa quantità di zuccheri, che invece devono essere trasferiti nel tino di bollitura. L’acqua aggiunta funge, quindi, da diluente e pulisce le trebbie dagli zuccheri intrappolati all’interno. A seconda del tipo di impianto utilizzato, lo sparging può essere unico e continuo, oppure suddiviso in due o tre tempi diversi. La quantità d’acqua utilizzata nei lavaggi è quasi sempre pari a quella utilizzata nel mash. A seconda della ricetta, meno acqua darà un mosto più denso (e conseguentemente una birra più concentrata in alcol), una quantità un poco più abbondante concorrerà a una maggiore diluizione del grado zuccherino, per una birra dal grado alcolico contenuto. Le trebbie bagnate trattengono al loro interno una quantità enorme di acqua, circa il 75% del loro peso. Per la normativa italiana, le “trebbie di birra” sono un sottoprodotto del birrificio ottenuto per essiccamento di cereali sottoposti o no al maltaggio e di altri prodotti amilacei. Il loro contenuto in elementi nutritivi è particolarmente scarso. Contengono piccolissime quantità di proteine e di zuccheri (circa il 3%), ma hanno una grande percentuale di fibre. Trovano quindi impiego come alimento per ruminanti, suini e volatili, mentre è vietato il consumo per l’uomo. Essendo calde e umide, sono instabili, pertanto l’uso come foraggio deve essere immediato. In assenza di aziende di allevamento interessate, è prassi smaltire queste trebbie in appositi impianti di termovalorizzazione. LA BOLLITURA Giunto al tino di ebollizione con il giusto grado zuccherino, il mosto limpido è scaldato progressivamente fino a giungere a 100 °C per l’ebollizione della massa. La temperatura può variare a seconda della densità, dell’impianto di brassaggio e dell’altitudine del sito produttivo. La bollitura del mosto, detta impropriamente “cottura” ha diversi scopi: • concentrazione del mosto e aumento della densità • sanitizzazione del mosto • inattivazione degli enzimi ancora vitali • coagulazione delle proteine • eliminazione del dimetilsolfuro • solubilizzazione aromatica della maggior parte delle spezie o botaniche • isomerizzazione degli α-acidi del luppolo • caramellizzazione degli zuccheri per le reazioni di Maillard, con aumento del colore (minimo), formazione di aromi biscottati (minimo) e di composti riducenti, come le melanoidine, che preservano il mosto da future ossidazioni. Rimasto a bollire per un’ora o più, il mosto limpido si concentra e diventa più denso. Ora è completamente sanitizzato, ovvero sterile, privo di qualsiasi agente patogeno vivo. Questo passaggio costituisce una sorta di check-point per il produttore dal punto di vista della sicurezza dalle contaminazioni; d’ora in avanti tutte le fasi necessiteranno della massima attenzione. Una decisa e completa bollitura consente di inattivare completamente tutti gli enzimi rimasti vitali. Inoltre, diverse sostanze come proteine e composti polifenolici coagulano, migliorando la limpidezza e la stabilità della futura birra. Con una bollitura costante e vigorosa si eliminano anche alcuni difetti delle birre: il più noto è il DMS (dimetilsolfuro), dai descrittori di cavolo e mais cotto. Il dimetilsolfuro è naturalmente presente all’interno dei malti sotto forma del suo precursore, la S-metilmetionina (SMM), che in ammostamento si libera come DMS. Malti più chiari o di scarsa qualità e alcuni succedanei ne contengono quantità maggiori; non è difficile riscontrare questo difetto in molte birre commerciali chiare, soprattutto Lager, a basso costo. Spezie, erbe o miele eventualmente presenti in ricetta possono essere vettori d’infezione all’interno del mosto, quindi il loro impiego spesso prevede una preventiva bollitura a parte. La loro introduzione in questo specifico momento garantisce un’ottima tutela dal punto di vista della sanificazione. Per lo stesso motivo, nella maggior parte dei casi si opta per l’utilizzo del luppolo in questa fase. In un birrificio si possono attuare tre tipologie di luppolatura: il Kettle Hopping (luppolatura precoce), il Late Hopping (luppolatura tardiva) e il Dry Hopping (luppolatura a freddo). Responsabile dell’amaro di una birra, come si è visto, è soprattutto l’isomerizzazione degli α-acidi del luppolo, che si ottiene tanto più facilmente quanto più è lungo il tempo di bollitura. Una luppolatura precoce (Kettle Hopping) consente di “solubilizzare” nel mosto di birra una quantità maggiore di amaro, poiché un luppolo che resta in ebollizione più a lungo libera più α-acidi rispetto a una gettata di luppolo tardiva (Late Hopping), quando cioè sta per concludersi l’ora di bollitura prevista. Ogni luppolo è in grado di conferire amaro e aroma in proporzioni diverse a seconda delle cultivar e delle annate. Spetta al birraio decidere quale tipologia andrà a comporre la trama amaricante (con i luppoli selezionati all’inizio della bollitura) o quella aromatica (prediligendo luppolature tardive, cioè prossime allo scadere dell’ora di bollitura). È facile immaginare che un luppolo fatto bollire per un’ora intera disperda tutti (o quasi) i suoi aromi, mentre un luppolo fatto bollire per pochi minuti preservi la maggior parte dei suoi aromi, che si apprezzano all’olfatto; allo stesso tempo, però, isomerizza pochissimi α-acidi, contribuendo ben poco all’amaro totale della birra finita, sempre ragionando a parità di peso e di tipologia. Una terza via consente di impiegare il luppolo non in bollitura, bensì a freddo: è il Dry Hopping, che sarà trattato in maniera estesa più avanti. Questa tecnica prevede l’utilizzo del luppolo durante o al termine della fermentazione alcolica. Incontrando temperature decisamente più basse rispetto a quelle della bollitura, il luppolo preserva la maggior parte della sua componente aromatica. Nel Dry Hopping non si prende in considerazione l’apporto dell’amaro. Alcuni studi hanno dimostrato che un componente degli α-acidi del luppolo, l’umulone, riesce a passare in soluzione anche alle basse temperature, ma il suo contributo all’amaro finale è trascurabile rispetto all’incisività aromatica che questa pratica offre. Riassumendo, il luppolo è fondamentale per determinare il profilo aromatico e amaricante della birra, ed è particolarmente utile nel delineare una netta difesa nei confronti delle alterazioni e del tempo attraverso l’azione antisettica, antiossidante e antibatterica a carico di polifenoli, flavonoidi e β-acidi. La componente variabile di tannini (circa 8%) favorisce la precipitazione di composti insolubili del mosto (proteine del malto), riducendo i fenomeni d’intorbidamento. Migliora e stabilizza inoltre la qualità della schiuma grazie a un generoso apporto di proteine. IL WHIRLPOOL I luppoli si presentano in forma di coni, pellets di varie dimensioni o estratto concentrato. La forma più comune è il pellet, formato dalla pressatura di tante foglioline tritate. A contatto con il mosto bollente il luppolo in pellet crea una sorta di fanghiglia granulosa (trub), che deve essere scartata con l’azione centrifuga all’interno di un tino whirlpool. Il mosto bollente è prelevato da una pompa tramite un sistema di raccordi posti a metà del tino stesso e spinto con forza di nuovo all’interno del tino whirlpool con un’angolatura di 25 gradi. Questo provoca la veloce rotazione di tutta la massa. Come conseguenza, il trub, più denso e pesante, tende a collocarsi nella zona di minima accelerazione, ossia al centro del tino. Dopo 5-10 minuti il birraio interrompe il moto vorticoso operato dalle pompe idrauliche e attende per altri 10-15 minuti che tutto il trub si adagi naturalmente sul fondo del tino. A questo punto inizia a prelevare il mosto illimpidito pescandolo da un’apertura laterale e lo trasferisce lentamente al tino di fermentazione, stando attento a non trascinare anche parte del trub compattato sul fondo. Il whirlpool avviene al termine della bollitura, dunque la temperatura del mosto è ancora molto elevata. È pratica comune per alcune tipologie di birre attivare ora un Late Hopping, che tutela maggiormente dal punto di vista sanitario rispetto al classico Dry Hopping, ma si rinuncia a una quota più fragrante di luppolo. IL RAFFREDDAMENTO Conclusa la bollitura, dopo aver atteso quasi mezz’ora per il whirlpool e trasferito il mosto nel tino di fermentazione, la temperatura del mosto è prossima ai 97 °C. Prima di inserire l’ultimo elemento, il lievito, occorre abbassare progressivamente la temperatura, per non uccidere i Saccaromiceti. In uno scambiatore di calore, a piastre o a tubo, il mosto passa accanto ad acqua fredda (spesso glicolata), cede il proprio calore e assorbe le frigorie necessarie per giungere alle temperature consone. Dopo lo scambiatore di calore, fissato all’impianto e non removibile si trova il contalitri fiscale, sigillato, che serve per conteggiare i litri prodotti: essi, insieme alla dichiarazione dei gradi Plato (°P = 10 g saccarosio/litro), concorrono al calcolo delle accise da pagare per singola cotta. Diversi impianti sono provvisti di un ossigenatore appena prima del tino di destinazione. L’ossigeno è molto deleterio sia per il mosto sia per la birra finita, perché ossida la massa, modificando sensibilmente e molto velocemente la stabilità della birra e provocando difetti percettibili. Solo in questa fase l’ossigeno è un alleato. È già stato osservato, a proposito dei lieviti, che la fase iniziale del processo di colonizzazione della massa è favorita dalla respirazione cellulare: le cellule del lievito si riproducono per gemmazione, moltiplicandosi di quindici-venti volte in poche ore. Il lievito utilizza dunque l’ossigeno disciolto nell’ambiente, e una volta che esso è terminato inizia la fermentazione alcolica vera e propria. Il mosto appena fatto bollire, però, è privo di ossigeno, mentre il lievito ne ha bisogno per attuare la respirazione cellulare. Occorre dunque riossigenare la massa tramite l’utilizzo di una candela porosa, la quale discioglie ossigeno nel mosto freddo prelevandolo da una bombola o dall’aria esterna (previa opportuna filtrazione). In questo modo si dosa la quantità necessaria senza intercorrere in pericolose ossidazioni. LA FERMENTAZIONE Trasferito tutto il mosto all’interno del tino di filtrazione, alla temperatura corretta per la tipologia di birra che si sta producendo, è il momento di aggiungere l’ultima materia prima, il lievito. I lieviti disponibili sul mercato sono moltissimi; alcuni conferiscono una serie di aromi ben riconoscibile, altri invece sono neutri, per dare risalto alle altre materie prime. Per alcuni stili di birra esistono ceppi di lievito altamente specializzati, che hanno il compito di condurre una fermentazione in linea con lo stile di appartenenza dal punto di vista della densità finale e del contributo aromatico: ad esempio le Weizenbier e la quasi totalità delle birre d’abbazia del Belgio. Il lievito può essere: fresco (in crema), LSA (Lievito Secco Attivo) o recuperato da una precedente fermentazione e rigenerato. Il formulato fresco prevede una popolazione di lievito perfettamente in forma, pronta per attivare la fermentazione alcolica. Ha una vita molto breve, poiché tutte le cellule all’interno sono vive e vitali, pronte ad operare. Si inserisce così com’è nel tino di fermentazione. Il Lievito Secco Attivo è simile a una polvere grossolana ed è totalmente disidratato. Grazie a questa caratteristica è molto longevo e si conserva a lungo. La mancanza di acqua consente di restare vivo, ma non vitale, ossia non è in grado di operare immediatamente la fermentazione. Deve essere reidratato in acqua sterile almeno tre ore prima dell’utilizzo. Recuperare il lievito da un tino in cui si è appena conclusa la fermentazione è più complesso. Questo lievito si trova in una fase molto delicata: deve essere ripulito dagli scarti fermentativi e dai composti secondari, e va alimentato con nuovo nutrimento e ossigeno per tornare in forma dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Occorrono capacità, conoscenze, laboratori consoni e strumenti di controllo. I produttori più piccoli preferiscono scegliere tra le prime due tipologie di lievito. Durante la fermentazione il lievito attacca man mano lo zucchero del mosto, producendo etanolo e anidride carbonica; nel corso di questa trasformazione si creano alcuni sottoprodotti della fermentazione che avranno un notevole impatto sul gusto, sull’aroma e sulle altre proprietà caratterizzanti la birra. La quantità della formazione di questi sottoprodotti è strettamente correlata al metabolismo del lievito. La reazione di fermentazione è descritta dall’equazione di Gay-Lussac: C H O -> 2CH CH OH + 2CO + energia (calore) 6 12 6 3 2 2 La diversa capacità metabolica dei lieviti non è il solo fattore di distinzione; infatti, la quantità di ossigeno disciolto, o la sua assenza, influiscono sulla capacità di moltiplicazione del lievito. Non tutti i carboidrati sono fermentescibili e non tutti i carboidrati fermentescibili sono trasformati in alcol etilico e anidride carbonica, perché una quota dell’energia prodotta dalle cellule è utilizzata dal lievito per la moltiplicazione cellulare. I sottoprodotti principali della fermentazione sono: • esteri: conferiscono note fruttate e floreali alla birra • alcoli superiori: sostanze aromatiche che conferiscono un tono fruttato alla birra • composti solforati: conferiscono un forte odore sulfureo, di birra non matura, giovane • acetaldeide: prodotto intermedio della glicolisi, che conferisce gusto erbaceo, di mela verde • diacetile: dalla soglia olfattiva molto bassa, è responsabile di un sapore dolciastro e di un aroma di burro, un difetto per la birra. Nel corso della fermentazione, è metabolizzato dal lievito e trasformato in composti con soglie olfattive molto più alte, non rappresentando quindi più un problema dal punto di vista aromatico per le birre, se opportunamente stoccate a freddo nella successiva fase di maturazione. Terminata la fermentazione primaria, si procede solitamente con la fase secondaria, detta anche “maturazione a freddo”, che può avvenire in un altro serbatoio o nello stesso tank di fermentazione. Durante questa fase si verificano alcuni fenomeni essenziali: la saturazione della birra con anidride carbonica; l’illimpidimento per la precipitazione dei flocculi tanno-proteici; l’affinamento del gusto e dell’aroma; il corretto riassorbimento del difetto di diacetile. Questa fase è fondamentale per le basse fermentazioni (lagering); è molto utile anche per le alte fermentazioni, ma si può scegliere di ometterla. IL DRY HOPPING Tradizionalmente l’aggiunta del luppolo all’inizio della bollitura è legata al suo valore amaricante. I “luppoli da aroma”, invece, dotati di oli essenziali specifici, conferiscono uno specifico carattere aromatico alla birra soprattutto se aggiunti durante o in seguito alla fermentazione primaria. Il Dry Hopping (DH) prevede l’utilizzo del luppolo durante o al termine della fermentazione alcolica attraverso l’aggiunta di luppolo direttamente nei fermentatori, nei maturatori o negli appositi macchinari (campane) di luppolatura. Il procedimento fa sì che nella birra si avverta la presenza aromatica del luppolo in modo dominante. La dissoluzione degli oli essenziali avviene relativamente in poco tempo. Passato un giorno dalla “gettata” nel tank, circa la metà della quantità finale viene dissolta, ed entro una settimana si raggiunge la totale estrazione. I flavour ottenuti dal Late Hopping e dal Dry Hopping sono completamente diversi in intensità e qualità. Nel processo di Dry Hopping sono prese in considerazione diverse variabili: • forma del luppolo • varietà di luppolo • temperatura tra 0 e 21 °C • numero di aggiunte • quantità delle aggiunte (g/l) • geometria del fermentatore • lievito • utilizzo o meno di sacche raccoglitrici • tempi di contatto Possiamo osservare come sia determinante in questa fase la forma del luppolo (coni o pellets) attraverso il grafico sottostante, che mostra l’aumento del linalolo nella birra durante il Dry Hopping usando pellets e luppoli interi. Il Dry Hopping può essere ripetuto anche più di una volta nella stessa birra: è il cosiddetto Double DH o DDH. Utilizzare i luppoli a freddo comporta il pericolo di un’infezione batterica. Il birraio deve decidere se assumersi il rischio, lasciando inalterati i luppoli, oppure operare una veloce pastorizzazione degli stessi prima dell’immissione nella birra, o ancora fare un uso calibrato di luppolina in polvere o di oli essenziali. LA CARBONATAZIONE Questo procedimento – che traduce l’inglese carbonation – mira a ottenere la desiderata schiuma perfetta, caratteristica della maggior parte delle birre al mondo. Le principali tecniche per ottenere frizzantezza sono quattro: : attraverso una bombola la birra è addizionata con CO2 direttamente nel keg (fusto) o nel tank isobarico. È un procedimento veloce, ma con risultati grossolani in termini di finezza. Carbonatazione forzata : si utilizza il 6-10% dello stesso mosto per creare la base zuccherina da rifermentare, aggiunta in bottiglia, in keg o tank isobarico. Questa tecnica richiede una grande costanza produttiva della stessa tipologia di birra; presuppone infatti che il birrificio, ogni volta che necessiti di confezionare la birra ormai pronta per la carbonatazione, il giorno stesso abbia prodotto una nuova birra della stessa tipologia, così da prelevare una piccola percentuale di mosto dolce appena prodotto. Kraüsening : richiama la formazione delle bollicine nei vini frizzanti. Si manda in pressione il tank di fermentazione isobarico a fermentazione non conclusa, quando sono presenti il 5-10% di zuccheri non ancora fermentati. I relativi lieviti in piena fermentazione primaria continuano il proprio lavoro di produzione di alcol e CO2, la quale però non troverà via di fuga e si solubilizzerà nel mezzo rendendolo frizzante. Spunding : o priming, è la tecnica più adottata dai microbirrifici. Molto popolare per le birre del Belgio e per tantissime Ale inglesi, prevede l’aggiunta di zuccheri alla birra, per una seconda fermentazione in bottiglia/fusti. Rifermentazione in bottiglia LA SANIFICAZIONE Mantenere la pulizia durante l’intero processo brassicolo è una regola fondamentale. La maggior parte delle birre in commercio sono meno protette rispetto al vino, perché il grado alcolico è inferiore e mancano importanti alleati come i solfiti aggiunti. Inoltre, il pH in genere è superiore alla media del prodotto enologico. Tutto ciò comporta un’alta sensibilità all’ossigeno, alla luce, ai contaminanti batterici, agli enzimi ossidasici ecc. Si richiede dunque un altissimo livello di attenzione alla pulizia dei locali e delle apparecchiature. La sanificazione è un complesso di operazioni di pulizia e rimozione dello sporco organico e inorganico con un impatto sulla carica microbica in fase vegetativa o agenti contaminanti. Per lo sporco organico si utilizza una diluizione di soda caustica calda o un detergente enzimatico, mentre per lo sporco inorganico si opta per una soluzione di acido nitrico e fosforico. La sanitizzazione è un processo post-sanificazione atto a mantenere per un determinato tempo un livello di sicurezza o decontaminazione delle superfici interessate mediante utilizzo di disinfettanti. In genere, nel processo brassicolo si utilizza l’acido peracetico. I DIFETTI DELLE BIRRE Osserviamo i principali difetti (off-flavour) che si possono riscontrare nelle birre industriali o artigianali. L’obiettivo di ogni birraio è realizzare una birra equilibrata e di qualità, esente da imperfezioni. I comportamenti corretti di sanificazione, sanitizzazione, mantenimento del freddo, del buio e dell’assenza del contatto con l’ossigeno sono i primi accorgimenti per scongiurare l’insorgere di elementi non desiderati in fase degustativa. Esistono descrittori olfattivi o gustativi che ricadono sempre nella categoria dei difetti gravi, mai accettabili, ma esistono anche situazioni in cui un difetto, in dosi minime e in stili ben specifici, può essere tollerato o accettato per convenzione. Prendiamo ad esempio Lambic e Gueuze: i descrittori più utilizzati per dipingere le sfumature aromatiche e gustative racchiuse in questi mondi sono: equino, stallatico, animale selvatico, quercia, fieno, sudore, acetoso, acerbo, aspro, muffa. Solo conoscendo il sistema di riferimento possiamo sapere se un descrittore debba essere inquadrato tra i difetti. Autolisi Quando il lievito di una birra rifermentata in bottiglia o fusto risente dei processi di invecchiamento, va incontro all’autolisi, si degrada lentamente e rilascia molecole odorose sgradevoli. I descrittori sono: dado da brodo, gamberetti, gomma bruciata, carne in scatola, fino alla salsa di soia. Nella conservazione, evitare i colpi di calore aiuta a preservare il lievito integro e a rallentare i processi d’invecchiamento e di autolisi. Questi aromi non sono mai tollerati, in nessuna tipologia di birra. Diacetile Non comporta l’aroma di aceto, bensì il descrittore specifico del burro; solo quando è leggerissimo, lo si associa a caramello, caramella mou o popcorn al burro (di difficile individuazione). Durante la fermentazione è prodotto dal lievito stesso, che poi lo riassorbe e lo trasforma in prodotti non aromatici al termine della fermentazione grazie alla maturazione a freddo (lagerizzazione). Raramente è un sottoprodotto d’infezioni batteriche o si forma per ossidazione. Il diacetile è sempre da considerarsi inappropriato, tranne che in lievi concentrazioni e sotto forma di caramellato/ burroso nelle Real Ale elaborate in cask, o in stili giovani e delicati con poca maturazione a freddo, come Ordinary Bitter, Scottish Ale, soprattutto nella versione light o heavy. Nelle basse fermentazioni, vale l’eccezione come per il successivo DMS, ma il livello riscontrato dev’essere minimo. DMS Abbreviazione di dimetilsolfuro, è responsabile dello spiacevole aroma di mais in scatola o, peggio, di cavolo e vegetali cotti. Si forma naturalmente nelle birre grazie a uno specifico precursore (S-metilmetionina) presente nei malti base tipo Pils o Pale, che si trasforma in DMS con l’innalzamento delle temperature oltre i 60 °C. Una vigorosa bollitura di almeno un’ora lo elimina e non si riscontra più nella birra finita, se non (pochissimo) nelle birre particolarmente delicate e giovani. Questo è infatti l’unico caso in cui un lieve sentore di mais è tollerato: basse fermentazioni particolarmente giovani e delicate, quali Keller, Helles, Dortmunder. Esteri Sorgono dalla combinazione di alcol e acidi durante la fermentazione alcolica e dipendono dal ceppo di lievito e dalla quantità del suo inoculo. Tra i descrittori principali si annoverano: banana, kiwi, melone, ecc. La loro presenza è direttamente proporzionale alla temperatura di fermentazione e alla densità del mosto; una temperatura troppo elevata può condurre a una dominanza assoluta di questi aromi (soprattutto il sentore di banana) che annulla o mette in secondo piano la complessità olfattiva della birra. Sono tollerati solo quando fanno parte integrante dello stile, come: Weizenbier, Saison, Dubbel, Belgian Strong Ale. Fenolico Si distinguono due situazioni differenti. Nel primo caso il fenolico si forma con l’innalzamento della temperatura di fermentazione ed è prodotto direttamente dal ceppo di lievito. Il difetto assume i caratteri descrittivi del chiodo di garofano, del pepe nero o della noce moscata, che risultano appropriati solo se previsti dallo stile, come Weizenbier e alcune Belgian Ale. Quando i responsabili del difetto sono i composti detti clorofenoli, derivanti dagli agenti sanificanti a base di cloro, oppure da acque di brassaggio particolarmente ricche in cloro, si determinano sensazioni sgradevoli, impattanti ed estranianti: odore di acqua della piscina, studio dentistico, medicinale e colluttorio. Una birra con questo difetto va esclusa da qualsiasi giudizio ed è da scartare. Gusto luce È sempre una disgrazia e porta alla totale alterazione della birra, rendendola non degustabile. La luce è la causa principale di questo difetto, più frequente nelle birre rispetto al vino per l’abitudine di utilizzare vetri più chiari, che proteggono meno dai raggi solari. Quando una birra rimane esposta alla luce in modo prolungato, al suo interno alcuni elementi del luppolo (iso-α-acidi) reagiscono degradandosi e legandosi con i composti solforati, creando così molecole di mercaptano. I descrittori principali sono nauseabondi: puzzola (skunky) e, a livelli massimi, carogna. Purtroppo, lo stoccaggio e la presentazione delle birre della maggior parte dei supermercati non sono adatti a mantenere l’integrità del prodotto, basti pensare all’illuminazione costante sugli scaffali. Esistono luppoli con iso-α-acidi elaborati in laboratorio che non interagiscono con la luce. Musty - Cereali È il profumo e sapore del mosto di birra, la sensazione di amido. Provoca in bocca una sensazione di astringenza che richiama le fibre dei cereali, la crusca. Alcuni errori del birrificio determinano la comparsa di questo difetto, come la presenza di amido nella birra finita, l’uso di acque di brassaggio particolarmente dure, specie se ricche in carbonati, che ostacolano l’ammostamento e favoriscono l’estrazione di tannini dalle glumelle, e l’eccessivo utilizzo delle trebbie esauste. La degustazione risulta molto faticosa e poco appagante. È accettabile, se presente in minime dosi, nelle giovanissime e non filtrate Kellerbier tedesche. Ossidazione L’ossidazione è quasi sempre un difetto gravissimo, riconoscibile come: carta e cartone bagnato, giornale vecchio, fino ad arrivare al picco estremo del metallico. Nel processo ossidativo l’ossigeno viene a contatto con la birra in modo eccessivo o maldestro. Uno dei principali fenomeni scatenanti si verifica durante la conservazione. Laddove vi sia una piccolissima concentrazione di ossigeno nella birra, per via di tappi non perfettamente funzionanti o per un’aerazione eccessiva del mosto in fase di produzione, con uno stoccaggio del prodotto al caldo il difetto si accentua pesantemente e con grande velocità. Anche una birra alla spina attaccata da troppo tempo condurrà velocemente all’ossidazione. L’eccessiva conservazione in generale porta allo sviluppo di questo difetto, ma la durata della conservazione è strettamente legata alla tipologia di birra in esame: può essere di un anno per una Pils, o di quattro anni per una Amber Ale. È tollerato solo quando assume, in piccole dosi, sfumature di Sherry, Madeira o vinose, in birre di elevata complessità e lavorazione, come Barley Wine, Old Ale, Wheat Wine o Russian Imperial Stout, dall’elevato grado alcolico, corpo ed evoluzione. Warming sensation Sensazione potente e avvolgente della birra determinata dalla formazione di una quantità notevole di alcoli superiori, prodotti secondari della fermentazione alcolica. Maggiore è la temperatura di fermentazione, più se ne formano, donando una spiacevole esperienza degustativa. Tra i descrittori ci sono il calore da peperoncino (spicy-chilly) e aromi di vinosità (vermouth, Porto, ecc.). Per la netta vasodilatazione provocata, in bocca si riscontra una grande avvolgenza, che ricorda lo pseudocalore del distillato. La birra è quasi sempre da scartare; può essere accettabile nelle birre dall’alto o altissimo contenuto alcolico, come Barley Wine, Old Ale, Russian Imperial Stout.