CAPITOLO 3 GLI STILI DELLA BIRRA Dopo secoli di storia e tradizioni e grazie allo sviluppo di nuove tecnologie e conoscenze agronomiche, il mondo della produzione birraria ha assunto una miriade di sfaccettature. Il panorama delle tipologie brassicole prende le mosse dalle due modalità di fermentazione, alta o bassa, in cui operano Saccharomyces cerevisiae e Saccharomyces carlsbergensis. All’interno di questi due macrosistemi, la gamma di stili e tipologie è molto ampia e si manifesta in prodotti dai caratteri e dalle sfumature aromatiche e gustative variegate, legati non solo alle condizioni di fermentazione e maturazione, ma anche a una vastissima scelta di combinazioni degli ingredienti fondamentali (malti e luppoli), a tradizioni e territorialità, a innovazione e sperimentazione. Se aggiungiamo la ricerca di ingredienti complementari di varia natura (spezie, mieli, frutta ecc.), comprendiamo come sia variegata l’offerta di tipologie molto differenti. Storicamente le tradizioni, unite alla maggiore o minore crescita tecnologica e alle influenze geografiche e sociali, hanno caratterizzato lo sviluppo di tipologie brassicole diverse fra loro. È utile, pertanto, analizzare gli stili birrari secondo i territori che hanno consolidato vere e proprie famiglie stilistiche, a partire dal continente europeo. REPUBBLICA CECA Quasi tutte le Lager chiare diffuse a livello internazionale traggono ispirazione da un archetipo nato nella Repubblica Ceca, e più esattamente in Boemia. Per questo motivo appare logico iniziare la rassegna sugli stili birrari da quest’area geografica. Oggi la Repubblica Ceca primeggia in quanto a consumi di birra, arrivando a superare i 130 litri pro capite. La tradizione birraria è un elemento di orgoglio per questa nazione, che fin dal Medioevo ha costituito un punto di riferimento per il bacino mitteleuropeo; basti pensare che il prezioso luppolo di Žatec (Saaz in tedesco) era commercializzato già nel XII secolo. Fino al 1842 le birre qui prodotte erano prevalentemente brune o ambrate, in relazione alle tecniche di essiccamento del malto. La necessità di contrastare la concorrenza delle emergenti Lager dell’area bavarese indusse un prestigioso birrificio della città boema di Plzeň (Pilsen in tedesco), il Plzeňský Prazdroj, ad assumere il mastro birraio bavarese Josef Groll. Fu sua l’intuizione di utilizzare l’acqua del luogo, povera di sali minerali, malti chiari ampiamente reperibili grazie all’innovativo sistema di essiccazione dell’orzo in forni a getto d’aria (anziché il più rudimentale sistema a fiamma diretta) e pregiati luppoli Saaz; lasciava poi fermentare e maturare il prodotto in locali freschi per lungo tempo. Nacque una birra a bassa fermentazione dalla schiuma ricca, chiara, connotata dai profumi dolci e mielati del malto, piuttosto intensi, coniugati con l’erbaceo e il floreale del luppolo; era inoltre piacevole al gusto per l’ottimo equilibrio tra la componente dolce e l’amaro sottile. Il successo fu immediato e lo stile Pilsner (o Pils) diventò il simbolo della bionda bevanda in tutto il mondo. Oggi le hanno in genere un colore giallo paglierino, profumi leggeri di malto e miele, erbe e fiori, e un sapore delicato, dal retrogusto amaricante talvolta piuttosto marcato. Le Pilsner tedesche presentano maggiore attenuazione al gusto e toni più secchi, tendenzialmente più amaricanti, se confrontate con le progenitrici boeme, per via del luppolo tedesco (Hallertau o Tettnanger) e delle acque più dure. In Olanda, Danimarca e paesi nordici le Pilsner sono simili a quelle tedesche, sebbene più chiare. Pilsner Non vanno trascurate le Pilsner d’oltreoceano, in particolare le American Pilsner. Nate alla fine del XIX secolo da emigrati tedeschi, si sono evolute prima e dopo il Proibizionismo, per arrivare ai giorni nostri in uno stile che privilegia un uso non trascurabile di mais. Questa tipologia mostra un’evidente base maltata e una luppolatura marcata, il tutto accompagnato da una maggiore alcolicità. Più leggere, meno luppolate e con un profilo organolettico più attenuato sono le American Lager. Nella Repubblica Ceca le birre sono classificate secondo il grado alcolico e il colore. Considerando l’alcol, si individuano quattro fasce in base al grado Plato nel mosto: Lehké (Light, sotto gli 8 °P), Výčepní (8-11 °P), Ležák (11-13 °P), Speciální (oltre i 13 °P). Osservando il colore, si classificano in: Světle (chiara), Polotmavé (ambrata) e Tmavé (scura). Se le Pilsner (o Pils) per la loro storia e la loro diffusione fanno categoria a sé, le birre scure Tmavé costituiscono l’altra faccia del bere in questa nazione, con una particolare concentrazione nell’area di Praga. Lo spettro gusto- olfattivo mostra note decisamente tostate, con accenti di caffè, cacao, pane abbrustolito. L’amaro è presente quanto basta per conferire un giusto equilibrio e facilità di beva. Sono le tipiche birre chiare bavaresi, le più popolari nel Sud della Germania. Sono nate nel XIX secolo a Monaco di Baviera, pare nel birrificio Spaten, per competere con le Pilsner, già molto popolari nell’area mitteleuropea. Si tratta di una birra a bassa fermentazione chiara, dorata, caratterizzata da una dolce sfumatura maltata e un sentore floreale-erbaceo da lieve a percettibile, in alcuni casi anche speziato. Al palato è moderatamente maltata, morbida all’ingresso in bocca, ma con un viraggio asciutto e abbastanza amaro alla deglutizione, che lascia il finale pulito e privo di residue note zuccherine. Letteralmente “birra di cantina”, è una Lager non filtrata, ottenuta con malti leggermente caramellati e addizionata con luppolo aromatico. Storicamente erano le birre lasciate maturare al fresco nelle cantine dei birrifici, scavate sottoterra, e servite direttamente dai tini di maturazione. Questo stile nasce in Baviera nel XIX secolo. Come suggerisce il nome, si tratta di una tipologia prodotta in primavera per essere consumata nei mesi estivi. Per questo era realizzata con mosti con elevato grado Plato (circa 13-15 °P) da malti solitamente ambrati: nascevano birre di tenore alcolico più elevato delle Pils o delle Helles, con maggiore corpo e un’accentuata impronta gustativa di malto, benché supportata dai tipici sentori dei luppoli tedeschi, caratteri ancora oggi reperibili nelle moderne ricette. Dal 1872 al 1990 le Märzen sono state servite all’Oktoberfest, rimpiazzate poi dalle dorate Festbier. GERMANIA Già prima dell’anno Mille la cultura monastica tedesca aveva acquisito conoscenze in campo brassicolo. Nei territori meridionali erano sorti molti monasteri, dotati di birrificio, alcuni dei quali tuttora in attività, come Kloster Andechs, Weihenstephan o Weltenburg. La birra era più sicura da bere dell’acqua, che celava l’alto rischio di contrarre pericolose malattie. Era anche nutriente e calorica: birre corpose e alcoliche sostituivano il cibo nei digiuni quaresimali. Una pietra miliare sulla strada dell’affermazione di questa bevanda fu, nel 1516, l’emanazione del Reinheitsgebot, l’editto della purezza, ad opera di Guglielmo IV duca di Baviera. Frumento e orzo erano impiegati comunemente per la produzione di birra, ma quell’anno una grave carenza di frumento indusse il duca a proibire l’uso di questo cereale per produzioni diverse da quella del pane, destinando per la birra unicamente l’orzo. L’editto prescriveva: “Niente deve essere usato o addizionato per produrre birra che non sia orzo, luppolo e acqua”. La norma, nata in un momento contingente e destinata ad avere un’efficacia temporanea e limitata alla Baviera, in realtà, oltre a estendersi a tutte le regioni tedesche all’atto dell’unificazione nel 1871, divenne nel 1906 una legge a tutti gli effetti e fece sentire il suo peso sin quasi alla fine del XX secolo: solo nel 1987 la Corte di Giustizia Europea, e poi nel 1992 le nuove leggi comunitarie, abolirono queste stringenti norme a favore della libera produzione e commercializzazione. Ciò nonostante, ancor oggi i mastri birrai tedeschi restano ancorati alle vecchie tradizioni e non è raro leggere sulle etichette delle Lager prodotte in Germania: “Gebraut nach dem Bayerischen Reinheitsgebot von 1516” (prodotta secondo l’editto della purezza bavarese del 1516). Helles (o Munich Helles) La Helles Export, o più precisamente la German Helles Exportbier, è uno stile che si è sviluppato maggiormente nel Nord della Germania, particolarmente a Dortmund (da cui il termine Dortmunder Export Bier), sulla falsa riga delle Pils. L’appellativo Export, coniato per le birre destinate all’esportazione, suggerisce la presenza di alcolicità e corpo leggermente superiori. Kellerbier Sono birre color ambra, anche se sono reperibili versioni più dorate soprattutto nell’areale di Monaco. La Franconia, in particolare Bamberga, è un territorio d’elezione, con uno stile legato a birre dal colore più ambrato e da un aspetto spesso velato. Frequente è la bassa frizzantezza, in quanto si rifà a metodi più tradizionali, quando il processo di maturazione avveniva in barili non a pressione (Ungespundet, ossia senza tappo). Il profilo sensoriale si articola su profumi maltati, in parte erbacei e speziati; possono essere presenti una vaga astringenza, note citriche, diacetile (note burrose), sentori appena sulfurei, acetaldeide (mela verde). Prossime per carattere sono le Zwickel, in cui si apprezza una maggiore gasatura e un carattere leggermente più amaro, che le colloca a metà strada tra Pils e Helles. Märzen Tra le birre a bassa fermentazione merita un cenno questo stile, consolidatosi nel Nord della Baviera (Franconia), che fa delle note affumicate il punto di forza del profilo sensoriale. Si tratta delle Rauchbier, prodotte con un malto tipo Vienna affumicato su fuochi di legno di faggio. Sono riconducibili per fattura alle tradizionali Märzen, con tonalità tendenzialmente ambrate e un titolo alcolometrico che va da 4,8 a 6,5% vol. Bamberga è la città principe delle Rauchbier. La birra presenta un corredo olfattivo ricco di malto tostato e una notevole vena affumicata, derivante dal particolare essiccamento dei malti. In realtà, prima dell’avvento delle tecnologie moderne, moltissime birre risultavano “affumicate”: infatti, l’antico uso di arrostire il malto verde direttamente sul fuoco tendeva a conferire aromi di fumo. Nel Centro Europa, e in particolare in Germania, diversi stili di birre scure a bassa fermentazione hanno mantenuto una grande tradizione. Le Dunkel sono Lager scure (dunkel) che, come tutte le birre in stile bavarese, tendono ad essere molto maltate al gusto con un delicato accento luppolato in amaro. Il tenore alcolico è compreso tra 4,8-5,6% vol. Il colore è mogano profondo; il profilo è solitamente fine ed elegante, con accenni di vaniglia e nocciola. Si tratta di una birra abbastanza corposa e dolce al palato, con finitura secca e amaricante. La Dunkel è stata la prima birra ad essere disciplinata dal Reinheitsgebot del 1516. Nella Turingia, in Germania centrale, lo stile Schwarzbier occupa un posto di primo piano. Come indica il nome, si tratta di una birra nera (schwarz), a bassa fermentazione, dal gusto pulito, con note molto lievi di cioccolato, caffè e vaniglia. Al pari della maggior parte delle Lager tedesche, la Schwarzbier ha un’impronta abbastanza marcata di malto, ma la dolcezza, mai stucchevole, è controbilanciata da note amaricanti. L’alcol è contenuto, intorno a 5% vol. Tradizionalmente vocata alle basse fermentazioni, la Germania produce anche birre con lieviti ad alta fermentazione. Lo stile Kölsch, nel territorio di Colonia, nacque nel XIX secolo per controbattere il diffondersi delle Pilsner e delle German Lager. L’uso di malti d’orzo Pils o Pale, lieviti Ale e luppoli tedeschi come l’Hallertau, il Tettnanger o l’Hersbrucker, crea un profilo organolettico semplice e fresco, equilibrato nelle percezioni di malto e profumi erbacei. In bocca si sviluppa su una decisa rotondità e un’alcolicità medio bassa; il dolce del malto, appena presente, si fonde con finali amaricanti molto leggeri. A poca distanza da Colonia, a Düsseldorf, un altro stile ad alta fermentazione è denominato Alt o Altbier, letteralmente “antico”, riferito all’antico metodo di produzione, rispetto alle Lager. Si tratta di birre dal colore ambrato e ramato, dagli aromi erbaceo-floreali legati all’uso di luppoli centro-europei, piuttosto attenuate e secche al palato, con una buona componente amara ben bilanciata dalla ricchezza di malto. Alcune birre sono ottenute con lieviti ad alta fermentazione, ma utilizzando basse temperature. Le birre di frumento costituiscono un’ampia famiglia di stili basata sulla presenza nella ricetta di frumento maltato o non maltato (circa il 50%) insieme al malto d’orzo. Denominatore comune di queste birre, oltre all’uso del grano, è l’alta fermentazione. La Baviera ci ha regalato nei secoli un classico di questa tipologia, la Weizenbier o Weissbier. Come mai le birre di frumento sono sopravvissute al severo Reinheitsgebot? Per meri interessi economici i duchi di Baviera Wittelsbach, Guglielmo IV prima e Alberto V poi, strinsero affari commerciali con la nobile famiglia Degenberg, della città di Schwarzach, in cambio del permesso speciale di produrre birra con frumento. Per lungo tempo i diritti di produzione di questa tipologia di birra rimasero appannaggio del casato ducale e solo dopo il 1872, quando furono ceduti dalla corona al mastro birraio Georg Schneider I, la diffusione della Weizenbier ebbe carattere popolare. La birra dispone di una schiuma molto sviluppata e densa; eccetto la versione Cristalklar, ha un aspetto torbido, legato alla presenza di lieviti e agli effetti dovuti a una componente proteica maggiore. Il profilo sensoriale al naso è incentrato soprattutto su profumi fruttati, tra cui prevalgono cenni di banana e pera, e su una speziatura legata ai lieviti e alla loro interazione con il frumento maltato. Al gusto il fruttato riecheggia, sostenuto da una vena leggermente acidula e da una carbonatazione elevata. Del tutto assente la parte amara del luppolo. La , nata nell’area di Berlino, è caratterizzata da un basso tenore alcolico (circa 3,5% vol.) e da una spiccata nota acida, legata alla fermentazione mista del mosto, a cui partecipano anche lieviti spontanei e batteri lattici. Spesso è servita con sciroppo di asperula o lampone. La tradizione di birre salate nella Germania dell’Est è piuttosto antica. A Goslar fin dal XVIII secolo si produceva una birra addizionata di sale e spezie nella fase di brassaggio. I mastri birrai di Lipsia, apprezzando questa produzione, ne mutuarono la ricetta, al punto che nei secoli lo stile si è diffuso con il nome di Lipziger Gose. Dopo il profondo declino tra le due guerre, oggi le Gose hanno riacquistato una certa risonanza commerciale. Sono prodotte utilizzando fra gli ingredienti sale, coriandolo e lattobacilli. Ne deriva una birra dorata, dal profilo olfattivo leggermente lattico, con un’inflessione fruttata di pomacee e agrumi per via del coriandolo. In bocca è sapida, leggermente acidula e poco amara. Bock Sorto nella città anseatica di Einbeck, in Germania, centro di produzione birraria nel Medioevo, questo stile fu adottato nel XVII secolo dai bavaresi, che trasformarono l’originaria denominazione Einbeck in Bock. Le birre presentano colori dall’ambrato allo scuro intenso, spesso con riflessi ramati, caratteristici sentori di malto tostato e caramellato, bassa luppolatura (in genere non si superano i 25 IBU) e gradazione alcolica dal moderato all’elevato (6,5-7,5% vol.). Il corpo è pieno e rotondo. Più robusta è la Doppelbock, con un grado alcolico che varia da 7% vol. fino a raggiungere i 12% vol. e grande struttura. L’origine di questa variante stilistica risale ai frati dell’ordine di San Francesco da Paola, a Monaco – da cui ha mutuato il nome il noto birrificio Paulaner –, che realizzarono birre più corpose e alcoliche per far fronte ai digiuni quaresimali. Rauchbier Munich Dunkel Schwarzbier Kölsch e Altbier Weizenbier o Weissbier Berliner Weisse Gose Rappresentano la storia delle birre belghe ad alta fermentazione. Radicate nel tessuto tradizionale, hanno un’origine legata alle Fiandre del XVIII secolo. Costituiscono la base per numerose varianti stilistiche. La loro evoluzione non nasconde una certa assonanza con analoghe produzioni britanniche, probabilmente anche a causa dei diversi scambi culturali del XIX e XX secolo, soprattutto nell’utilizzo dei luppoli e dei lieviti. Relativamente recenti di nascita, all’incirca fra le due guerre mondiali, le Belgian Blond Ale prendono le mosse dalle parenti più prossime, le Belgian Pale Ale. All’inizio del Novecento, per contrastare la crescente inclinazione dei consumatori verso le Pils, si inizia a produrre birre più morbide, dal tenore alcolico più consistente. Qui si inseriscono le Belgian Blond Ale, dalla vena alcolica leggermente più spiccata (6,5-7,5% vol.) e minor impatto amaro luppolato, che indirizza la percezione dominante su tratti decisamente più morbidi. Le popolazioni della Vallonia, di solida tradizione agricola, in passato diedero origine a uno stile di birre stagionali, battezzate Saison. Prodotte in inverno, servivano per ristorare i lavoratori stagionali (saisonniers) nelle attività estive dei campi. Nacquero come birre dissetanti, rifermentate in bottiglia, con una lunghissima maturazione, aromatizzate con coriandolo e scorze d’arancia amara, e a volte caratterizzate da una vena acidula non trascurabile. Aromaticità ed esuberanza al naso, con sensazioni terrose e agrumate, delineano il profilo sensoriale; in bocca sono secche, con una buona dose di amaro, e malto da medio a percettibile, non particolarmente alcoliche. Le Farmhouse Ale (birre di fattoria) hanno avuto una grande diffusione internazionale. Parallelamente alle Saison in Vallonia, nella confinante regione della Francia denominata un tempo Nord Pas de Calais la birra in auge nelle assolate giornate estive era la corposa e alcolica . Parlando di bière blanche – Witbier nelle Fiandre –, non si può non ricordare la città di Hoegaarden. A metà degli anni Cinquanta, quando a Hoegaarden l’ultimo birrificio stava per chiudere i battenti e questo stile rischiava di scomparire, Pierre Celis, lattaio di mestiere, decise di rilevarne la proprietà e dedicarsi alla produzione della bière blanche, a cui diede il nome dalla cittadina. Oggi la Hoegaarden, diventata il simbolo di questa tipologia, è parte di una multinazionale, che ha fatto conoscere uno stile così particolare fuori dai confini del Belgio. La blanche è prodotta con una miscela di malto d’orzo e frumento non maltato (in alcuni casi con una piccola aggiunta di avena cruda, fino a un massimo del 10%). Il ricorso al luppolo è limitato; in fase di aromatizzazione si aggiungono coriandolo e bucce d’arancia amara. Il termine bière blanche, ovvero birra bianca, è legato al colore paglierino molto chiaro e all’aspetto quasi lattiginoso, in virtù delle sospensioni, per effetto del maggiore contenuto proteico del frumento e dei lieviti, derivanti da una rifermentazione in bottiglia. La componente aromatica si sviluppa in un profumo fruttato deciso, dai sentori di mela e pera, di origine fermentativa, e in una speziatura di vaniglia e pepe, con l’apporto agrumato degli ingredienti aggiunti. In bocca risulta dolce-acidula, con una frizzantezza evidente e corpo relativamente leggero, di gradazione compresa tra 4,5 e 5,5% vol. Nel Medioevo e per tutto il Rinascimento il ruolo dei monasteri nel mantenimento e nello sviluppo delle conoscenze in campo brassicolo fu determinante. Questa influenza ha determinato una vera e propria famiglia di stili ispirati o direttamente legati alla vita monastica. BELGIO È uno dei territori di maggiore tradizione brassicola. Qui la produzione ad alta fermentazione ha avuto sempre un posto di privilegio, sebbene anche la classica Lager abbia trovato i suoi spazi. Come in Germania, l’attività monastica nel Medioevo e nel Rinascimento contribuì a sviluppare conoscenze e a diversificare numerosi stili, tanto che il panorama birrario belga è fra i più vari e assortiti del mondo. Nel XIV secolo Bruges, Liegi e Bruxelles ospitarono la nascita delle corporazioni (le cosiddette gilde) dei fabbricanti di birra. Nel 1717 a Leuven (Lovanio), oggi sede dell’Institute for Beer Research dell’Università, Sebastien Artois dava il suo nome a un birrificio destinato a diventare uno dei marchi più noti. Alle soglie del Novecento il Belgio contava circa 3200 birrifici, numero drasticamente ridotto, dopo le due guerre mondiali, a meno di 800 unità. Il calo nella produzione fu graduale per tutto il XX secolo e all’inizio del Duemila si contavano appena 115 birrifici. Ora il destino della tradizione birraria belga sembra aver compiuto una svolta: dal 2003 si sono registrati significativi incrementi, soprattutto nell’ambito della qualità. Belgian Pale Ale Le Belgian Pale Ale presentano una schiuma compatta e bianca, che sormonta un corpo dorato intenso, a volte ramato. L’aroma è legato al malto, con sentori biscottati e caramellati, che non celano un fruttato agrumato occasionalmente arricchito da spezie. Il gusto richiama il malto; secchezza e amaro, mai esagerati, danno grande equilibrio ed esaltano la bevibilità, che è il segno distintivo dello stile. Belgian Blond Ale e Belgian Strong Ale Corpo e alcol più accentuati caratterizzano le Belgian Strong Ale, nelle varianti e Dark Ale. Di colore giallo paglierino molto intenso fino al dorato le prime, apparentemente leggere e beverine, nascondono però un’anima estremamente forte (oltre 8% vol.), un buon corpo e un profilo sensoriale spesso imponente, speziato, con una certa dose di freschezza. Golden Ale Di corporatura robusta le , spesso assimilate alle Quadrupel trappiste, con sfumature cromatiche tra l’ambra intenso sino al bruno cupo; offrono in genere sentori di frutta candita, fichi secchi e datteri, spezie, cannella e liquirizia; in bocca sono voluminose e intense, con un buon timbro alcolico e un equilibrio garantito dall’amaricante, dovuto ai luppoli e alla presenza frequente di malti torrefatti. Dark Ale Saison Bière de garde Negli USA lo stile è stato interpretato con varianti che introducono anche brettanomiceti nella fermentazione, portando a gusti più selvatici, rispondenti alla rusticità di questa categoria. Anche i paesi nordici, come Norvegia e Finlandia, godono di una tradizione analoga. In Norvegia la (lievito, nel dialetto locale) è una birra a fermentazione mista in cui i sentori agrumati, e fruttati in genere, si fondono con profumi speziati, spesso dovuti all’aggiunta di bacche e spezie. Kveik Blanche (Witbier) Le birre monastiche Gli esempi sono tantissimi. In Italia già dal 630 d.C. a Montecassino si produceva birra. Intorno al Mille monasteri come Weihenstephan e Weltenburg in Germania erano in grado di apportare grandi innovazioni. In questo contesto, si inseriscono le pregevoli ricerche di suor Hildegard von Bingen, monaca benedettina dell’abbazia di Saint Rupert in Germania, che nel XII secolo portò alla valorizzazione del luppolo nell’arte birraria. Nel 1664 da una costola dell’Ordine cistercense nacque la Regola dei frati trappisti, sotto la guida di Armand Le Bouthillier, abate di Notre Dame de la Trappe in Normandia, per poi espandersi nel Belgio. Anche questo ordine monastico non mancò di occuparsi di birra. Anzi, la produzione conobbe una diffusione tale, che nei secoli successivi ebbe un riconoscimento particolare. Oggi la famiglia delle birre trappiste è ben consolidata e i birrifici che le producono, nei monasteri trappisti, devono sottostare ad alcune specifiche regole: • la birra deve essere prodotta all’interno di un’abbazia trappista • l’intero processo produttivo deve svolgersi sotto il controllo diretto della comunità monastica • i ricavi delle vendite devono essere utilizzati dall’Ordine per perseguire atti caritatevoli. Dal 1997, a tutela dell’autenticità di questa produzione, è nata l’Associazione Internazionale Trappista. Tutte le referenze dei birrifici aderenti sono contrassegnate da un logo esagonale con la scritta “Authentic Trappist Product”. Attualmente sono dodici i monasteri autorizzati. In Belgio è localizzato il gruppo più numeroso: Achel, Chimay, Orval, Rochefort, Westmalle, Westvleteren. Segue l’Olanda con due monasteri: Koningshoeven (La Trappe) e Zundert. In Austria, Italia e Gran Bretagna sono situati, rispettivamente, Engelszell, Le Tre Fontane, Mount Saint Bernard. E infine, negli USA, Spencer. Non si tratta di uno stile unico, piuttosto di una famiglia di stili all’interno della quale la maestria di ciascun birraio ha portato a diverse tipologie (Pale Ale, Tripel, Belgian Blond Ale, Belgian Strong Ale ecc.). Molti birrifici laici, nel ripercorrere ricette di ispirazione o di origine monastica, producono birre che richiamano la filosofia delle birre trappiste, ma non possono essere denominate tali. Si ricorre dunque alla definizione di Birre d’abbazia. Gli stili e hanno una storia legata al monastero belga di Westmalle (Nostra Signora del Sacro Cuore). A metà del XIX secolo si iniziò la produzione di una birra scura, di corpo e alcolicità più elevati dell’ordinario (circa 7% vol.), inizialmente per il consumo interno. La ricetta fu rimaneggiata più volte e iniziò ad avere una buona diffusione commerciale dopo la prima guerra mondiale con il nome di Dubbel Bruin, per arrivare poi alla versione della Dubbel oggi conosciuta. Il successo fu tale che questa tipologia fu accolta come stile vero e proprio. Analogo destino ebbe una sorta di “superbirra” prodotta con malti, decisamente corposa e con una gradazione di 9,5% vol. Dal 1956 questo nuovo stile prese il nome di Tripel, a indicare la forza e la struttura della bevanda. Dubbel Tripel Lo stile Dubbel caratterizza una birra scura, color “tonaca di frate”, con un cappello di schiuma ricco e persistente. Le sensazioni odorose sono declinate su profumi di tostato, caramello, cioccolato, cenni fruttati di uva sultanina e susine. Poco presente la componente luppolata. Al gusto mostra grande pienezza e rotondità, con richiami delle sensazioni aromatiche descritte e un finale dall’amaro medio-basso. Lo stile Tripel, di contro, è dorato nell’aspetto, frequentemente velato e con un’abbondante schiuma bianca. I riconoscimenti usuali sono quelli fruttati e speziati, con chiodi di garofano in evidenza. In bocca offre grande rotondità e corpo, in alcuni casi anche una sensazione pseudocalorica legata alla presenza di alcol (da 7 a 10% vol.). Nel filone delle fermentazioni miste, hanno carattere molto particolare le Flemish Red Ales (note anche come Flanders Red Ales) e le Oud Bruin Ales. Questi stili, anticamente sovrapponibili fra loro, nacquero nelle Fiandre ed erano molto diffusi tra il XVI e il XIX secolo, mentre oggi occupano una nicchia di mercato più ristretta. Sono prodotte con malti scuri e lieviti ad alta fermentazione; subiscono una maturazione (solitamente in legno) in alcuni casi protratta nel tempo, caratterizzata dalla presenza di lactobacilli e altri fermenti. Si ottengono birre dal colore bruno ramato, nel caso delle Oud Bruin, e quasi rosso nelle Flemish Red Ales, dai profumi estremamente vinosi e un gusto agrodolce singolare, soprattutto per le Flemish. Alcune Oud Bruin ricordano le inflessioni ossidative degli Sherry molto invecchiati. La fermentazione spontanea Il mondo delle birre a fermentazione spontanea fa del tempo uno degli elementi cardine, come recita un aforisma riportato all’ingresso di un birrificio di Anderlecht, a un passo da Bruxelles: “Le temp ne respecte pas ce qui se fait sans lui” (Il tempo non rispetta ciò che si fa senza di lui). Quando le birre erano prodotte senza alcuna conoscenza dei microrganismi coinvolti nel processo e si era ancora molto lontani dalle moderne tecniche di isolamento e selezione dei lieviti, molto di quanto si realizzava era basato su processi spontanei di fermentazione. Solo con le scoperte di Louis Pasteur sulle fermentazioni e gli studi applicati alle birre di Anton Dreher ed Emil Christian Hansen l’utilizzo dei lieviti fu razionalizzato. In precedenza, l’unico controllo sulla fermentazione era correlato alle temperature a cui si svolgeva, con l’accortezza che fossero il più possibile basse e costanti. Soprattutto nell’area intorno a Bruxelles, denominata Pajottenland, era radicata – e si è conservata sino ad oggi – l’usanza di far fermentare le birre in modo spontaneo, per poi procedere a una lunghissima maturazione. Queste particolari realizzazioni, chiamate (Lambiek in fiammingo), sono prodotte a partire da orzo e una porzione di frumento, mai inferiore a un terzo. Il luppolo aggiunto in bollitura è stagionato per tre anni (suranné), quindi non ha alcuna azione dal punto di vista aromatico e poco da quello amaricante, ma apporta le caratteristiche antiossidanti. Al termine della bollitura, il mosto è pompato in un’ampia vasca aperta poco profonda, collocata nella parte alta del birrificio. Durante il raffreddamento avviene l’inoculazione spontanea: un’indistinta moltitudine di microrganismi presenti nell’ambiente inizia il processo di fermentazione, che si completerà nella lunga maturazione in botti di rovere o castagno (può arrivare a tre anni). Si alternano diverse fasi di fermentazione ad opera di lieviti (Saccaromiceti, Brettanomiceti, Candidae ecc.) e batteri (Lattobacilli, Enterobatteri, Acetobatteri, Citrobacter ecc.). Lambic Il risultato è una bevanda molto particolare, dal profilo sensoriale di estrema complessità, ricco di note lattiche, yogurt, aceto di mele, sentori animali e terrosi; al gusto manifesta una spiccata impronta acida. Dall’assemblaggio di un Lambic giovane con quote variabili di Lambic di annate precedenti, rifermentato in bottiglia, si ottiene, per gli abitanti del Pajottenland, “lo Champagne del Belgio”, ovvero la . Le caratteristiche organolettiche non si discostano molto da quelle già descritte, salvo una maggiore carbonatazione dovuta alla rifermentazione e una maggiore finezza nei descrittori. Gueuze Altre varianti sono le e le , caratterizzate dalla macerazione in fase di rifermentazione rispettivamente di ciliegie griotte o morello (a noi note come visciole) e lamponi. Kriek Framboise Flemish Red Ale e Oud Bruin REGNO UNITO La produzione brassicola nel Regno Unito ha radici molto antiche. Reperti archeologici dal Vallo di Adriano testimoniano come i soldati romani usassero autoprodurre birra secondo metodi celtici. Il modo di produrre birra si sviluppò in maniera abbastanza autonoma, considerando che, per via delle latitudini, la coltivazione dell’uva e la produzione di vino erano impossibili. Ben presto si costituirono vere e proprie corporazioni di birrai, come la Brewers Guild a Londra nel 1342 e la Edinburgh Society of Brewers nel 1598. Il luppolo in Europa era usato nella pratica birraria sin da prima dell’anno Mille, mentre nel territorio inglese stentò a essere adottato per diffidenza e per il radicato impiego di erbe aromatizzanti e officinali, come artemisia, olmaria, achillea, che costituivano il gruyt. Le prime testimonianze di birre prodotte con il luppolo in Gran Bretagna risalgono al 1412 a Colchester nell’Essex, e le prime coltivazioni di questa pianta sono attestate solo a partire dal XVI secolo nel Kent. Questa ritrosia nell’uso del luppolo portò gli inglesi a distinguere radicalmente tra le birre considerate tradizionali, senza luppolo, le ales, e quelle innovative, luppolate, le beer. Un elemento comune nelle birre oggi prodotte nell’area britannica è l’alta fermentazione, tanto che il termine Ale in generale identifica proprio questa famiglia di birre. Nel corso del tempo i diversi stili sono stati sempre improntati all’alta fermentazione. Nel XX secolo si è consolidata l’idea di una birra tradizionale inglese (Bitter), maturata in botte (cask conditioned) e servita nei tradizionali pub con sistemi a pompa, o direttamente a caduta dal cask. Il CAMRA (Campaign for Real Ale), associazione indipendente di tutela della birra tradizionale, nata nel 1970 in Gran Bretagna, tutela questo tipo di tradizione birraria. British Bitter Ale Nel XIX secolo, al diffondersi delle bionde Lager di provenienza mitteleuropea, l’Inghilterra rispose dando vita alla produzione di birre dorate o appena ambrate, utilizzando malti essiccati in forni ad aria calda, in contrasto con le tradizionali scure; con il tempo presero il nome di Pale Ale. All’interno di questo stile, caratterizzato dall’impronta maltata e da una luppolatura molto sottile, emersero le produzioni di Burton upon Trent, località a nord di Londra, in cui l’uso di un’acqua molto gessosa enfatizzava la componente amara derivante dal luppolo. Si sviluppò così un gusto particolare per queste birre, più amare delle normali Ale, le British Bitter Ale. Sono Bitter chiare, in cui la prevalenza del luppolo è riconoscibile in sentori che vanno dall’erbaceo al floreale, con cenni terrosi, in funzione della tipologia, mettendo in evidenza anche una percettibile nota di caramello. Il gusto è legato a sensazioni amaricanti, in cui il malto rimane in secondo piano. Nel tempo si sono distinte tre tipologie: , dal corpo fluido e alcol fra 3,5 e 4,5% vol.; , con corpo medio e alcol tra 4 e 5,5% vol.; , più corpose, dall’amaro ben presente e alcol che può arrivare a 6,5% vol. Ordinary Bitter Best Bitter Strong Bitter Sul fronte delle birre ad alta fermentazione scure britanniche, le Porter e le Stout hanno una storia che le accomuna. IPA (India Pale Ale) Le IPA nascono come variante delle tradizionali Pale Ale, già reperibili nel XVIII secolo in Inghilterra. Un impulso a questa tipologia è attribuito, tra realtà e leggenda, alla necessità di inviare grandi partite di birra nelle Indie Orientali, dove operavano i coloni inglesi. Ciò comportava l’esigenza di “fortificare” le birre, rendendole un po’ più alcoliche e dotate di una generosa dose di luppolo. Il conio di questo stile sarebbe di George Hodgson, proprietario della londinese Bow Brewery, tra fine Settecento e inizi Ottocento. Non è mai stato dimostrato, ma è vero che la Bow Brewery era situata vicino ai moli d’attracco sul Tamigi degli East Indiamen, i vascelli costruiti per affrontare la rotta orientale. La tendenza a conferire alle Pale Ale una nota decisa di luppolo era già in uso nel Settecento, a partire da Burton upon Trent, dove l’acqua dura, ricca di solfati, acuiva le percezioni amare. Il nome India Pale Ale apparve nei primi anni Trenta del XX secolo; in precedenza era facile trovare in etichetta perifrasi quali “Pale Ale prepared for the East and West India climate”. Le IPA di oggi, ispirate all’impronta britannica, presentano un colore dal dorato all’ambra, una schiuma bianca o avorio abbastanza fitta e persistente. All’olfatto giocano su sentori freschi erbaceo-floreali, con sfumature di agrumi e leggermente pepati. In bocca, la parabola gustativa conduce a un timbro amaro che va dal moderato all’elevato, ma mai stridente e adeguatamente equilibrato dalle percezioni del malto. Ha preso spazio la variante americana, la cosiddetta American IPA, nella quale alcune percezioni gusto-olfattive, come le note agrumate, il resinoso e l’evoluzione dell’amaro, sono estremizzate grazie a particolari luppoli americani. Porter e Stout Fino agli inizi del Settecento l’essiccamento dei malti avveniva per fuoco diretto, il che comportava la cottura degli stessi e di conseguenza un colore particolarmente scuro nella birra. Con l’avvento dei forni a getto d’aria iniziò la creazione di malti chiari, che diedero vita alle Pale Ale. Il gradimento per le birre scure, tuttavia, non declinò, soprattutto a Londra. Nel Settecento nei pub londinesi si trovavano diversi tipi di birra scura, quali le Mild e le Stale (birre stagionate in botte), birre ambrate e birre Pale, fra cui le costose “two penny”. Si racconta di una particolare tipologia ottenuta miscelando tre birre: un terzo di Small Beer, birra leggera scura, un terzo di Stale, anch’essa scura ma invecchiata in botte, dai sapori leggermente aciduli, e un terzo di Twopenny, Pale Ale corposa. Questa miscela, ampiamente consumata dalle fasce meno abbienti e dai facchini dei docks di Londra, i porters, era chiamata Three Threads, deformazione di Three Thirds, ossia tre terzi. Cominciò a prender piede l’usanza, utile per i publicans del tempo, di produrre un’unica birra (in singola botte – entire butt) proveniente da tre ammostamenti differenti, molto vicini alle caratteristiche delle birre originarie della Three Threads. In realtà, secondo quanto riportano alcuni birrai dell’epoca, come John Tuck, autore del trattato The private brewer’s guide to the art of brewing ale, all’inizio del XVIII secolo le classiche Brown Ale iniziarono a subire la concorrenza delle birre più chiare, in particolare Pale Ale, popolari e di ottima beva. A metà del secolo si iniziò a produrre una birra bruna, ben luppolata e maturata in grandi tini (butt) per tempi più lunghi. Questa nuova birra ebbe successo a Londra e fu ribattezzata Porter, per la particolare diffusione tra i lavoratori del porto. La moderna Porter, svestite le rudezze dell’originale, presenta caratteri sensoriali fortemente legati alle note biscottate e tostate, con cenni di cioccolato e un moderato sentore erbaceo e floreale dovuto al luppolo. In bocca richiama le note olfattive di biscotto e cioccolato, a cui si aggiungono sentori di nocciola, a volte liquirizia, con finale amaro percettibile. Intorno al 1815 entrò in commercio, ad opera del londinese Daniel Wheeler, un tipo di malto ottenuto per torrefazione, in modo simile al caffè. Questo malto consentiva di elaborare una birra dall’impronta cromatica particolarmente scura e con caratteristiche alcoliche e di corpo diverse dalle Porter, in virtù di un diverso uso degli altri malti della miscela e un grado di saccarificazione maggiore. Tra i primi a sfruttare il nuovo malto fu la Guinness di Dublino, ottenendo una birra praticamente nera, con un profilo più rotondo e cremoso e priva di quella leggera nota acidula tipica delle Porter di Londra. A queste nuove Porter fu dato il nome Stout (deformazione dialettale di Strong); con il tempo rimase solo questo termine a distinguere uno stile che fece storia. Le Stout ricalcano in parte il profilo delle progenitrici Porter, ma con un’impronta di tostato e di caffè più marcate. In bocca si percepisce la particolare cremosità del corpo e un finale molto secco, con aromi di caffè. Le Mild Ale nascono tra il XVIII e il XIX secolo, in contrapposizione alle Ale invecchiate in barile (Old Ale), caratterizzate da una certa acidità legata agli effetti postfermentativi della maturazione in legno. Le Mild si proponevano quindi come birre giovani e fresche, con una distinta morbidezza e facilità di beva. Il CAMRA ha avuto il merito di rivalutare questo stile, che negli ultimi dieci anni ha ripreso vigore, proiettandosi verso un futuro decisamente interessante. Sono birre piacevolmente morbide, dall’aspetto bruno scuro, più raramente ambrato, di corpo leggero e basso grado alcolico (intorno a 4% vol.). I profumi sono incentrati sulla componente del malto tostato e del caramello. L’origine britannica dei Barley Wine è innegabile, benché questa tipologia si sia affermata poi in molte parti del globo. Si tratta di uno stile birrario che, fedele al nome (vino d’orzo), esalta il corpo e l’alcolicità, favorendo la ricchezza di aromi e di gusto. Il nome è stato coniato in Inghilterra alla fine del XIX secolo quando, per una sorta di concorrenza ai vini di Bordeaux e di Borgogna, si iniziò a produrre birre particolarmente forti e con caratteri sensoriali che ricordassero alcune sfumature del vino. Oggi sono birre dotate di un colore che va dall’ambrato al nero, con una schiuma poco rilevante, soprattutto a causa dell’alta gradazione alcolica. Al naso sviluppano profumi di frutta matura, fichi secchi e uva passa, note tostate di caffè e, con un invecchiamento in botte, piacevoli speziature. In bocca il sorso è ampio, morbido e alcolico, con una lunga persistenza. Oggi le Stout non sono più uno stile, ma una famiglia di stili. Per le la miscela di malti comprende anche avena, in quantità in genere non superiore a un terzo. Già utilizzata anticamente, all’inizio del XX secolo l’avena non compariva più tra gli ingredienti per la birra. Fu il birrificio Samuel Smith di Tadcaster (UK) a rinverdire questa tradizione, diventando in breve un punto di riferimento per questo stile. Molte similitudini la accomunano alle classiche Dry Stout, benché la presenza di avena conferisca al gusto un’inflessione di nocciola e una maggiore rotondità dal punto di vista tattile. Le nacquero nel XVIII secolo grazie al birrificio Thrale di Londra come prodotto per esportazione verso la Russia. Ricche di corpo e più alcoliche delle normali Stout, rappresentavano il gusto dei Paesi dell’Est, ma riscossero immediato successo in molti mercati europei. Oggi incarnano il prototipo della Stout forte, ricca di corpo, con una marcata presenza di luppolo, il cui amaro è contrastato ed equilibrato da una spiccata morbidezza alcolica (7-10% vol.) e una tostatura piacevole e intensa. Alla fine del XIX secolo si inizia a far uso di siero di latte e/o lattosio, ma solo all’inizio del XX secolo questa pratica si consolida in uno stile ben definito, . Grazie all’utilizzo di lattosio, che non viene fermentato dai Saccharomyces, queste birre assumono una maggiore morbidezza, corpo e in parte dolcezza rispetto alla classica Stout. Infine, le e le : l’uso di particolari tostature e/o torrefazioni, in alcuni casi anche cioccolato o caffè, conferisce i rispettivi aromi che caratterizzano il nome dello stile. Oatmeal Stout (Russian) Imperial Stout Milk Stout Chocolate Stout Coffee Stout Mild Ale Barley Wine ITALIA L’Italia non vanta una tradizione storica ugualmente blasonata come quella degli altri territori trattati finora. Sin dall’epoca romana, benché gli influssi celtici e britannici avessero portato nella penisola l’uso di questa bevanda, la birra soccombeva nel confronto con la già sviluppata cultura del vino. Ancora nel XX secolo in Italia si faceva fatica a pensare alla birra in modo paritetico al vino. La svolta è arrivata dal 1996 in poi, con l’avvento dei primi birrifici artigianali e del parallelo mondo dell’homebrewing (la birra fatta in casa): la birra di qualità si è evoluta ed è entrata nelle preferenze di moltissimi consumatori. Ma facciamo un passo indietro. È difficile trovare testimonianze e reperti della produzione o uso della birra nell’antichità. Il Medioevo è avaro di notizie: si sa che una delle prime realtà brassicole italiane fu nell’abbazia benedettina di Montecassino, nel VI secolo d.C. Al di là di piccole e poco note attività artigianali o di autosostentamento, si deve attendere il XVIII e il XIX secolo per assistere alla nascita di alcuni birrifici di livello più ampio. Nel 1789 il re di Savoia autorizzava l’imprenditore Giovanni Baldassarre Ketter a produrre birra per il Monferrato. La vera nascita dell’industria birraria italiana si colloca nel XIX secolo, quando imprenditori austriaci e tedeschi (Dreher, Wurher, Von Wunster e altri) aprirono i loro birrifici nel Nord Italia, mutuando le tecnologie già consolidate nei territori di origine, incentrate soprattutto sulla produzione di Lager. L’iniziativa dei produttori italiani non si fece attendere, e tra la metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento birrifici celebri., come Peroni, Moretti, Pedavena, Menabrea, Ichnusa, acquisirono ottime fette di mercato. A causa di questo alterno destino storico, la produzione birraria italiana non ha maturato tradizioni stilistiche ben consolidate, ma ha subito in larga parte l’influenza della cultura nordica, soprattutto teutonica, concentrandosi soprattutto sugli stili spiccatamente bavaresi, quali German Pils, Monaco, Bock e simili. Gli ultimi anni sono stati determinanti per il rilancio del movimento brassicolo, soprattutto nell’ambito della birra artigianale. Molti giovani produttori, forti di esperienze all’estero, conoscenze tecnologiche e spesso con il sostegno di centri di ricerca, hanno dato vita a produzioni innovative, esplorando e personalizzando svariati stili, a bassa e alta fermentazione, ricalcando le orme delle tradizioni britanniche, belghe e tedesche. Non mancano imprenditori che hanno puntato alla produzione delle materie prime, sperimentando tecniche di maltaggio e allevamenti di luppoli particolari, coltivando orzi distici e altri cereali per la futura maltazione, o realizzando piantagioni di luppolo. All’interno di questo nuovo “fermento” ha avuto grande successo uno stile tutto italiano denominato , dal 2015 riconosciuto come stile a sé anche dal Beer Judge Certification Program (BJCP). Nate in Sardegna per iniziativa di un mastro birraio, che ebbe l’idea di aggiungere in una delle fasi del processo produttivo della sapa (mosto cotto) di uve cannonau, le IGA possono considerarsi una sorta di punto di contatto proprio con il mondo del vino, che fino a qualche decennio fa oscurava il progresso birrario in Italia. Sono birre ad alta fermentazione, la cui caratteristica peculiare sta nell’aggiunta di uva, sia come acini o vinacce, sia sotto forma di mosto d’uva (tal quale, macerato a freddo, cotto o altro), per conferire caratteristiche organolettiche particolari. Nascono birre dai sentori vinosi, freschi, con tratti varietali ben identificabili, soprattutto con l’uso di uve aromatiche come il moscato, la malvasia ecc. Italian Grape Ale (IGA) Molto di ciò che la birra statunitense rappresenta oggi va ricercato nelle forti influenze del processo di colonizzazione. Tuttavia, anche presso alcune popolazioni dei nativi americani, come gli Apache, gli Uroni e i Cochtow, erano in uso fermentati a base di cereali, come segale, mais, orzo, spesso aromatizzati con estratti di cortecce, germogli di cedro e altre conifere o erbe aromatiche. Le origini di una reale tradizione brassicola risalgono al XVII secolo, con le prime ondate di coloni europei. Già con l’arrivo dei Padri Pellegrini nel 1620 a Plymouth nel Massachusetts, nasceva la prima produzione birraria del Nuovo Mondo; ne seguirono altre nell’attuale New York e Philadelphia. Nel XIX secolo irlandesi, polacchi, tedeschi e cechi portarono in dote la propria tecnologia e le conoscenze nel campo. Grazie al contributo di immigrati bavaresi, iniziò a prendere piede la cultura delle Lager, che in parte soppiantò la consolidata tradizione delle Ale di stampo britannico. Personalità come Frederick Miller e Adolphus Busch fecero delle birre a bassa fermentazione un punto di riferimento per il mercato americano e per la sua emergente industria birraria. Nel processo di contaminazione culturale indotto dalla colonizzazione americana, la Pale Ale di tradizione anglosassone ha costituito la base di uno stile universalmente diffuso nel Nuovo Mondo, fonte di ispirazione di moltissimi birrai in tutto il mondo. Determinante è stata la selezione nel tempo di cloni di piante di luppolo che, in una lenta opera di acclimatamento, hanno dato vita a veri e propri individui autoctoni. Si pensi a Cascade, Amarillo, Chinook, Columbus ecc., che hanno sviluppato caratteri aromatici varietali e distintivi di agrumi, resine, spezie, estremizzando alcuni profili sensoriali tipici delle Pale Ale inglesi e contribuendo a inventare un nuovo stile, l’American Pale Ale. Queste birre, che conservano l’impronta delle cugine inglesi per alcol e struttura, si differenziano per la sviluppata nota aromatica del luppolo e la marcia in più nelle note amaricanti. La cospicua diffusione della produzione a bassa fermentazione importata negli USA da immigrati del Centro Europa sin dalla metà del XIX secolo, soprattutto nel Midwest, ha fatto sentire i suoi effetti anche verso ovest, in California. A San Francisco già a partire dal 1860 alcuni birrifici – il più importante e longevo fu la Anchor Brewing Co. fondato nel 1896 – sperimentarono tecniche per consentire la birrificazione con lieviti Lager senza la classica maturazione a freddo, non essendo disponibile la giusta tecnologia. Nacque un metodo che aprì la via a uno stile vero e proprio, denominato Steam Beer, che di questa ibridazione dei processi fece un carattere distintivo. STATI UNITI Il XX secolo fu molto problematico per il commercio della birra negli Stati Uniti a causa del Proibizionismo, che sortì effetti negativi ben oltre la sua cessazione e portò al quasi completo crollo degli insediamenti produttivi. Tuttavia, se da una parte non contribuì ad azzerare la potente realtà delle Lager industriali, ebbe l’effetto di fornire linfa per la rinascita di un movimento artigianale che, a partire dagli anni Settanta, si espanse riportando in auge molte tipologie di birre ad alta fermentazione quasi scomparse, come le California Common (o Steam Beer). American Pale Ale e American India Pale Ale Verso gli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, a partire dalla West Coast statunitense diversi microbirrifici, sfruttando le qualità dei luppoli autoctoni – su tutti Cascade e Amarillo –, iniziarono a reinterpretare le IPA anglosassoni spingendo sulla consistenza aromatica e sulle spiccate note amare, dando origine a un filone che si è ampiamente sviluppato e ha costituito il punto di partenza per le American India Pale Ale o American IPA. Sono birre dotate di buona struttura, intorno ai 6,5-7,5% di alcol; a fronte di una ben dosata sfumatura mielata e caramellata, sono caratterizzate da un vero profluvio di sentori agrumati e resinosi che, grazie ai luppoli americani, soppiantano le note più terrose, speziate ed erbacee delle tradizionali cugine britanniche. L’amaro è sempre piuttosto deciso. Il successo è stato mondiale. La West Coast, fucina di stili vecchi e nuovi, ha dato i natali a diverse varianti delle classiche IPA. Da menzionare la tipologia , detta anche Juicy IPA: una birra dalla consistenza palatale densa, succosa (juicy) ottenuta grazie all’uso di cereali a ricco contenuto proteico, come frumento, avena e segale, oltre al classico orzo. I luppoli americani sono utilizzati generosamente, soprattutto in Dry Hopping, per conferire alla bevanda un ricco corredo olfattivo, anche a discapito della parte amara, che resta più contenuta rispetto alle canoniche IPA. New England IPA Steam Beer (California Common) Le Cream Ale, insieme alle California Common, possono essere considerate fra i pochissimi stili di origine strettamente americana. Nacquero entrambe a metà del XIX secolo e subirono una forte battuta d’arresto a causa del Proibizionismo. Anche la tecnica di produzione presenta alcune analogie: mentre nelle California Common si utilizzano lieviti Lager in condizioni termiche tipiche delle Ale, le Cream Ale sono ottenute con lieviti da alta fermentazione, ma con procedure di maturazione a bassa temperatura. Birre, dunque, che potevano concorrere con le più tradizionali Lager in termini di freschezza, corpo e alcol. Il risultato fu una birra simile a una Kölsch tedesca, dai caratteri giovanili, un’impronta alcolica leggera, più frizzante e con una componente fruttata decisamente più bassa. Alcune varianti prevedono l’aggiunta di frutta e l’uso di cereali differenti (avena, mais, frumento). Negli ultimi anni questo stile ha riscosso un particolare successo nel mondo della produzione artigianale. Tutto ha origine in una porzione geografica compresa fra la California settentrionale e il Canada, denominata Cascadia: qui tra la fine degli anni Novanta e i primi del Duemila gli homebrewer, seguiti dai microbirrifici, hanno iniziato a sperimentare alcune contaminazioni fra le classiche American IPA e le Dark Ale. Nasce una birra scura, quasi nera, di corpo medio e alcolicità non oltre il 7% vol. All’olfatto, la componente dei malti torrefatti dona un contributo di descrittori che vanno dal caffè al tostato, a cui si sovrappongono le note decise di agrume, resina, erba e spezie dei luppoli americani. Il gusto è intenso, con uno sfondo amaro ben presente, controbilanciato in parte dalle note caramellate e maltate, arricchite da liquirizia, caffè e cacao; una birra quindi ricca e piuttosto complessa. Il nome è piuttosto controverso: per alcuni richiama il vapore (steam) che si sviluppava quando il mosto caldo era portato nelle vasche di raffreddamento, prima della fermentazione; per altri è legato alla CO2 che si sviluppava abbondante alla stappatura, a causa di una generosa carbonatazione. A metà del XX secolo, anche per l’effetto lungo dell’ondata proibizionistica, questa tipologia fu sempre meno praticata e la Anchor Brewing Co. si trovò in procinto di chiudere. Un birraio, Fritz Maytag, la rilevò per rilanciare la produzione della Steam Beer, e negli anni Ottanta ne brevettò il marchio. Da allora non si può più usare il nome originale di questo stile, identificato con il più generico California Common. Si tratta di birre dalla veste dorato-ambrata, impatto olfattivo centrato su toni caramellati e leggermente fruttati, con sfumature sottili luppolate dal terroso all’erbaceo e gusto piuttosto equilibrato, in cui le note maltate e l’impronta amara non mostrano particolari prevalenze l’una sull’altra; risulta spiccata la carbonatazione e il grado alcolico non supera i 5,5% vol. Cream Ale Cascadian Dark Ale (Black IPA) Nel territorio di origine questo stile birrario ibrido è detto Cascadian Dark Ale; nel resto del mondo, grazie al connubio tra i caratteri scuri di una Dark Ale e quelli tipici delle IPA è meglio conosciuto come Black IPA, un curioso ossimoro che comprende nella stessa denominazione i termini Black e Pale.