L’ORO LIQUIDO NELLA STORIA CAPITOLO 6 Dal Paleolitico a oggi l’olivo ha accompagnato tutte le civiltà più significative della storia. Come scrisse lo storico greco Tucidide: “I popoli del Mediterraneo sono usciti dalla barbarie quando hanno imparato a coltivare l’olivo e la vite”. Per secoli e secoli l’olio ha rappresentato un ricercato condimento a tavola, e al tempo stesso un valido medicamento in una farmacopea non certo ricca di presidi; un cosmetico molto apprezzato e un ottimo combustibile per le lucerne; e ancora, per il suo forte significato simbolico, un elemento essenziale in diverse funzioni religiose. L’OLIVO E L’UOMO: UN CONNUBIO ANCESTRALE L’olivo: pianta sacra da sempre, simbolo di vita, vittoria, saggezza, pace, forza e onore per la sua maestosa solidità, per la bellezza dei suoi rami, per la capacità di rigenerarsi dopo ogni ferita. Gli uomini primitivi usavano il legno resistente dell’olivo selvatico per costruire utensili e raccoglievano i frutti come scorta di cibo e per ottenere un liquido untuoso, profumato e benefico. Quando, circa 9000-8000 anni fa, le popolazioni semi-nomadi dell’Europa meridionale trovarono in Mesopotamia il clima adeguato per sopravvivere, costruire villaggi permanenti e iniziare a seminare e allevare, ponendo così le basi per la nostra civiltà, l’utilità dell’olivo fece sì che fosse una delle prime piante a esser addomesticata e coltivata. Ed esso proliferò e continuò per secoli a servire l’uomo con i suoi straordinari prodotti. La sua rilevanza è testimoniata in moltissimi scritti e aneddoti del passato. Omero fece costruire al re di Itaca un letto nuziale intagliato in possente e solido olivo, a benedizione dell’amore per Penelope, la quale poté riconoscere il suo amato, dopo anni di lontananza, proprio quando Ulisse dimostrò di conoscere questo particolare: “Chi potrebbe altrove portare quel letto? […] Nessuno fra gli uomini, vivo, mortale, nel vigor dell’età, riuscirebbe facilmente a rimuoverlo, perché un grande segreto è in quel letto, soltanto da me costruito. Dentro il recinto un olivo sorgeva di fronde fitte, fiorente: sembrava il suo tronco una grossa colonna; intorno ad esso il talamo feci”. Secondo la mitologia greca, la pianta fu creata e regalata agli uomini da Atena, dea della sapienza. Nella competizione con il dio Poseidone su chi dovesse diventare la divinità protettrice dell’Attica, la dea fece nascere un olivo da una roccia, mentre Poseidone fece arrivare dal mare un animale maestoso mai visto, il cavallo. Gli ateniesi scelsero il dono di Atena, perché avrebbe garantito legname, ma soprattutto olio per nutrirsi, medicarsi e illuminare le case, con l’auspicio di costruire pace e prosperità. In Grecia era considerato sacro e danneggiarlo era un reato punibile anche con l’esilio e la morte. Sotto un olivo nacquero Romolo e Remo, fondatori della gloriosa Roma. Per ricordare il primo re della città eterna, i romani mantennero l’uso di ornare il capo dei cittadini più virtuosi e rispettati con una corona di foglie di olivo. Nella Bibbia l’olivo, citato una settantina di volte, rispecchia la tradizione ebraica, che lo identifica come l’albero della sapienza, nato col cedro e il cipresso dai tre semi magici della pianta della Conoscenza del Bene e del Male. La dottrina cristiana lo adotta come simbolo di pace, di rigenerazione e di riconciliazione con Dio. In numerosi passaggi della religione ebraica e soprattutto cristiana si ritrova questa pianta sacra: la colomba che torna da Noè tiene nel becco un ramoscello di olivo; Gesù è accolto dai fedeli con rami di olivo e trascorre le sue ultime ore nell’orto del Getsemani, ancor oggi esistente e custode di straordinari olivi millenari. Il mašíaḥ, “Messia”, o Χριστός, “Cristo”, è l’Unto per eccellenza, scelto da Dio per redimere l’umanità. L’unzione con l’olio di oliva, di origini antichissime, assume una funzione cardine nel cristianesimo. Anche l’Islam attribuisce all’olivo un significato straordinario: si tratta dell’albero cosmico, che rappresenta Dio e la sua luce, alimentata proprio dall’olio dei suoi frutti. Disse il profeta Maometto: “Mangiate l’olio d’oliva e massaggiatevi (con esso) il corpo, poiché si tratta di un albero benedetto”. Se dunque sacra è la pianta, ancora più sacro è il succo che deriva dai suoi frutti, insostituibile prodotto dalle diverse utilità: come alimento altamente nutritivo, medicamento, cosmetico, simbolo per riti o funzioni religiose, dalla divinazione all’imbalsamazione, dall’investitura di un sovrano alla cerimonia in onore di un atleta, dal battesimo all’unzione degli infermi. DAI SUMERI AI GRECI Per millenni l’olio è stato una delle merci più ricercate, prodotte e commercializzate, al centro di grandi cambiamenti politico-sociali, rimonte economiche, rivoluzioni industriali, crisi alimentari. Neppure le gelate, che ne hanno ostacolato pesantemente la proliferazione, l’hanno fermato. Nel Mediterraneo, a partire dai sumeri fino a gran parte del secolo scorso, si è mantenuto pressoché inalterato lo stesso metodo di estrazione dell’olio. I bacchiatori battevano le fronde più alte con delle stanghe per far cadere a terra le olive e poi raccoglierle, mentre per i rami più accessibili si procedeva con una raccolta manuale. Quindi, le olive intere erano frantumate con l’aiuto di una macina in pietra spinta da schiavi o animali, in un luogo protetto, preferibilmente al chiuso. Eliminati i residui solidi, si separava l’olio dall’acqua in una vasca di decantazione. Già nel Codice di Hammurabi sono specificate alcune regole sulla produzione e il commercio dell’olio. All’epoca era usato a scopi rituali più che alimentari, come testimonia il largo uso da parte dei sacerdoti babilonesi per prevedere il futuro e per curare gli Unti, i “prediletti”, per lo più ricchi signori e personalità di rilievo. In Egitto, grande importatore di olio, era impiegato nei processi di imbalsamazione, per l’illuminazione e la pulizia del corpo. In Palestina imponenti frantoi producevano migliaia di tonnellate d’olio a raccolto già quattromila anni fa. In pochi secoli divenne una delle merci più scambiate, pertanto la produzione crebbe in modo capillare in tutto il Mediterraneo. Cretesi prima e fenici poi trasportavano per ogni mare navigabile in anfore di argilla questo oro liquido, come lo soprannominò Omero, su navi di cedro libanese dalla capacità di carico che sfiorava le 150 tonnellate. I greci raccolsero l’eredità agricola e commerciale dei popoli con cui entrarono in contatto e conferirono all’olivo e all’olio la stessa sacralità. L’olio greco era uno dei migliori dell’epoca, trasportato in anfore diversificate in base alla zona di provenienza, in modo da certificarne l’origine. Gli oliveti erano fiorenti in tutta la penisola, particolarmente in Attica. La legge imponeva un trattamento di riguardo verso l’olivo, sia nella manutenzione ordinaria sia durante la raccolta. Le olive erano rigorosamente raccolte a mano e, se troppo in alto, fatte cadere con bastoni speciali. I frutti erano colti in periodi diversi, in base al risultato che si voleva ottenere: ancora acerbe o non del tutto mature per un olio destinato alla dieta e alla medicina, oppure molto mature, se non già cadute a terra, per fini meno nobili e non alimentari. Già nel 776 a.C. ai vincitori dei giochi olimpici erano tributati un ramoscello di olivo in segno di fratellanza e preziosi vasi colmi d’olio. Durante le Panatenee (feste in onore di Atena) gli atleti erano premiati con sostanziose quantità di olio riposte in anfore, dette “panatenaiche”, riccamente decorate. Essi infatti lo usavano per massaggiare i muscoli e come integratore alimentare. Nonostante fosse un bene costoso e sacro, il consumo tra le classi più abbienti era consistente: un singolo ne poteva adoperare tra i 30 e i 50 litri all’anno, oltre la metà per scopi terapeutici e come cosmetico di bellezza, spesso arricchito con oli essenziali profumati. L’olivicoltura si intensificò anche nelle colonie della Magna Grecia e da lì in tutta la penisola italica. Nell’VIII e VII secolo a.C. gli etruschi predisposero colture organizzate e intensive, che ben presto permisero la formazione di un surplus destinato agli scambi. Molto interessanti sono i numerosi ritrovamenti archeologici, tra cui un’imbarcazione etrusca del VII secolo con numerose anfore olearie e la Tomba delle Olive di Cerveteri, databile tra il 575 e il 550 a.C., con diversi contenitori colmi di olio e una sorta di caldaia piena di noccioli di olive. NELL’ANTICA ROMA Dagli etruschi l’arte olearia passò ai romani, che iniziarono a coltivare olivi, grano e viti in ogni appezzamento possibile, ottenendo alti guadagni soprattutto dall’attività olearia. I primi trattati di agronomia, prodighi nel fornire indicazioni precise agli olivicoltori, testimoniano i miglioramenti nelle tecniche legate all’olivicoltura. Studiosi quali Catone e Saserna scrivono sull’importanza della potatura, della concimazione e della corretta raccolta. Marco Terenzio Varrone, nel De re rustica, consigliava di raccogliere le olive a mano, utilizzando solo se necessario una scala e dei bastoni, possibilmente quando le drupe erano ancora verdi e in giornate di sole non umide, poi raccomandava di pulirle con attenzione e di macinarle il prima possibile. E per ottenere la massima rendita dalla pianta era necessario applicare un’adeguata potatura, dettava Columella. Anche Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia parla dettagliatamente di olivicoltura, descrivendo i mali procurati agli alberi da una scorretta brucatura ed esortando a non danneggiare l’olivo e a non scorticare le olive durante la raccolta. Passavano infatti diversi giorni prima della molitura al torchio (torcularium), che avveniva in un locale dove si trovavano anche macina (trapetum) e pressa (torculum), per cui era necessario scartare le olive deteriorate e non danneggiare quelle sane, per evitare fermentazioni indesiderate. In età imperiale l’olivicoltura si espanse velocemente in Europa e Nord Africa. I legionari infatti portavano con sé nei territori conquistati la coltivazione di vite e olivo, per soddisfare la crescente domanda di questi prodotti. Le principali zone dedicate all’olivicoltura erano quelle oggi riconducibili a Istria, Puglia, Tripolitania, Tunisia centrale, Aquitania, Provenza e sud della Spagna. I costi erano altissimi, e solo i grandi proprietari terrieri supportati dall’impero potevano gestire il processo di coltura, la spremitura e la fabbricazione delle anfore da trasporto. I commercianti d’olio (negotiatores oleari) erano strettamente controllati e dovevano essere iscritti nei collegi ufficiali degli importatori. Le contrattazioni delle partite avvenivano nella cosiddetta arca olearia, una vera e propria borsa che regolava prezzi, quantità e scambi. Anche sul trasporto dell’olio vigevano regole severe e solo le imbarcazioni specializzate potevano caricare questa merce. Dalle province giungevano a Roma centinaia di migliaia di litri d’olio d’oliva ogni settimana. Sotto l’imperatore Lucio Settimo Severo (193-211 d.C.) ogni cittadino consumava circa 22 litri di olio l’anno: considerando che la città contava all’epoca circa un milione di abitanti, le quantità d’olio che arrivavano nella capitale erano sbalorditive. Di questo intenso traffico commerciale resta una straordinaria testimonianza: il Testaccio di Roma, da mons testaceus, “monte dei cocci”. Questa sorta di colle artificiale altro non era che una discarica di anfore per lo più olearie che arrivavano via mare a Ostia e poi, risalendo il Tevere, giungevano alla capitale. Per quasi tre secoli a ridosso del porto fluviale cittadino furono abbandonate circa 50-60 milioni di anfore svuotate: il risultato fu un enorme mucchio di cocci alto circa 40 metri e largo un chilometro, da cui prese nome il quartiere antistante, il rione Testaccio. I romani, oltre che in cucina, impiegavano l’olio per usi diversi, e a seconda dello scopo ne esisteva una tipologia specifica: era la base per cosmetici, medicine e unguenti altamente curativi, fungeva da carburante per le lanterne e da lubrificante meccanico. Gli oli erano distinti in base alla qualità dell’oliva e al tipo di estrazione: l’oleum ex albis ulivis, di altissima qualità, era ottenuto da olive sane e verdi; l’oleum viride era altrettanto valido per qualità, ma ricavato da olive con una maturazione più avanzata; da olive nere e invernali nasceva l’oleum maturum, di qualità inferiore rispetto ai primi due; l’oleum caducum, estratto da olive cadute a terra, era mediocre; da olive marce e guastate dai parassiti si ricavava lo scadente oleum cibarium, destinato agli schiavi o per l’illuminazione. L’olio poteva essere di prima spremitura (flos) o seconda (sequens), con notevoli differenze gustative tra i due prodotti. DALL’OBLIO ALLA RINASCITA Nel 476 d.C. con il crollo dell’impero romano, e con esso della cultura e del progresso raggiunti, il commercio subì un fortissimo arresto: troppo pericoloso viaggiare, impensabile concludere affari con i vicini divenuti nemici. L’agricoltura era di faticoso sostentamento, con i popoli che lentamente si stringevano in feudi fortificati e di altura per difendersi. Le invasioni dei barbari dal nord portarono nel Mediterraneo nuove abitudini alimentari, tra cui l’uso dei grassi animali (burro e strutto), prima usati marginalmente e ora diventati essenziali, data la grande instabilità, accompagnata per giunta da un clima freddissimo. Cambiò il paesaggio stesso: le dolci e ben organizzate campagne romane, con gli efficienti sistemi di irrigazione, le strade e gli acquedotti, furono progressivamente abbandonate e trasformate in boschi per proteggersi, per avere legna da ardere e per permettere alla selvaggina e ai cinghiali di ripopolarsi. La produzione di olio si mantenne, a stento, solo nelle zone tradizionalmente più vocate e a beneficio dei ricchi e della Chiesa, usato nei riti liturgici, per illuminare e nei periodi in cui era vietato consumare grassi animali. Sull’altra sponda del Mediterraneo, invece, l’olio resisteva. I bizantini, eredi diretti della gloriosa cultura romana e rappresentanti dell’antico mondo greco, mantennero l’uso dell’olio in tutti i campi d’applicazione. Anche gli arabi, che qualche secolo dopo occuparono gran parte dell’impero di Bisanzio, non distrussero gli oliveti poiché ugualmente sacri per loro. Quando le truppe arabe invasero la penisola iberica, riportarono parzialmente in auge la cultura dell’olivo in questa parte di Europa. La forte influenza araba è ancora rintracciabile nei termini azeite e aceite, che rispettivamente in portoghese e spagnolo significano “olio d’oliva”, evidenti discendenti dell’arabo azzayt, “spremuta di olive”. Benché in Oriente e nel Nord Africa si producesse olio in abbondanza, il perdurare dello scisma politico-religioso non consentiva di riprendere il commercio: una vera disgrazia per gli europei. Tuttavia, questo rappresentò anche la salvezza dell’olivicoltura nel Vecchio Continente, di quella italiana in modo particolare. Infatti, se è vero che coltivare era difficile e rischioso, l’olio era pur sempre richiestissimo ed essenziale, quindi, non potendo acquistarlo da altri, occorreva produrlo da sé. Chi era in grado di coltivare gli olivi in modo protetto erano i frati e i monaci. Conventi e monasteri, piccole fortezze custodi di nozioni agricole antiche, si adoperarono in tutta la penisola per recuperare gli olivi. In pianura padana gli oliveti furono salvaguardati dall’editto longobardo di Rotari, del 643 d.C., che ne vietava l’abbattimento. Si trattava però di olivi solitari, disseminati nelle vigne, sull’arativo, negli orti ecclesiastici, in quantità ben lontane in confronto all’antico splendore romano. LA SVOLTA DELL’ANNO MILLE Dopo l’anno Mille l’olivicoltura incominciò a rifiorire. Il clima divenne più mite e i giochi di potere si stabilizzarono: potere religioso e secolare strinsero una solida alleanza, con effetti positivi sull’economia. La forte espansione demografica e lo sviluppo delle aree urbane crearono una richiesta sempre maggiore di viveri e beni. Dai monasteri e dai conventi ripartì l’impulso per un’agricoltura più produttiva ed estesa, accompagnata da azioni di bonifica e cura del paesaggio. E la penisola italica si ricoprì velocemente di olivi. La fine delle Crociate e la rivoluzione economica portarono a una forte apertura commerciale e allo slancio imprenditoriale verso l’esportazione. Presero forma profondi cambiamenti socio-economici e diverse città portuensi, quali Genova e Venezia, divennero centri di scambio per tutto il continente: nacquero le Repubbliche Marinare. I mercanti più avventurosi si spingevano in Spagna e nell’Africa settentrionale per trovare l’olio più competitivo da rivendere in Europa, mentre dai produttori italiani si accaparravano il prodotto più fine e ricercato da destinare ai mercati abbienti. Si registrò un forte incremento dell’olivicoltura soprattutto al Sud della penisola, nelle zone oggi riconducibili alla Puglia e alla Campania, che sacrificarono campi di grano e territori selvaggi per allargare gli oliveti. Al Centro, in particolare nel Lazio e in Toscana, la produzione eccedente la domanda locale permetteva la vendita ad altri territori. L’olivicoltura riprese vigore anche nelle zone settentrionali, tra Lombardia e Veneto, a ridosso del mite lago di Garda, in Piemonte e in Liguria. Leggi locali arrivarono a imporre ai proprietari terrieri di piantare più olivi, e chiunque danneggiasse queste piante doveva pagare conseguenze superiori rispetto all’offesa di qualsiasi altro bene naturale. L’estrazione e il traffico commerciale legato all’olio divennero così intensi che si resero necessarie norme comuni sulla produzione, la compravendita e il trasporto. Nei porti, controlli molto severi frenavano frodi o scambi sottobanco. Le Repubbliche Marinare guadagnavano somme ingenti dai dazi imposti per ogni libbra di olio caricato e scaricato, con tasse diverse in base alla qualità e alla provenienza del prodotto: ad esempio, l’olio italiano, soprattutto quello proveniente dal golfo adriatico (perlopiù pugliese), era considerato il migliore, dunque era il più costoso e richiesto. Nel XIV secolo la dinastia francese degli Angiò incoraggiò nel Regno di Napoli la produzione olearia, abolì le tasse sulla macinatura delle olive e incentivò la conversione dei terreni agricoli in fiorenti oliveti. Non tutti però accettavano il monopolio sul commercio dell’olio esercitato da Venezia e Genova, le quali, oltre a governare i prezzi, favorivano alcune produzioni a scapito di altre (come accadde in pianura padana, che in poco tempo fu inondata di olio non autoctono). Il Granducato di Toscana e lo Stato pontificio cercarono dunque di fare affidamento sulle proprie forze, ma la domanda superava sempre l’offerta. Il ricco Stato pontificio regolava meticolosamente la produzione e il commercio nel proprio territorio, imponendo di immagazzinare scorte di olio ogni anno. Firenze aveva una ragione ulteriore per la sua sete d’olio: la nascente industria tessile necessitava di molto prodotto per oliare i telai, cardare la lana e trattare le fibre. Compensare con altri oli, come quello di noce, non bastava, mentre si rivelava uno spreco impiegare per i telai il sopraffino olio toscano, apprezzato all’estero insieme alle pregiate stoffe e al vino. Per questo, il Granducato si adoperò per acquistare olio più semplice da quei produttori sfuggiti al controllo veneziano e genovese, trovandoli nelle zone meno battute di Calabria e Basilicata. Gran parte dell’olio calabrese rimarrà per secoli il lampante per eccellenza, ovvero il combustibile per le lucerne, la base per i saponi e il lubrificante per i telai di molte realtà italiane ed europee. Siamo tuttavia lontani dall’eleganza dell’olio dell’epoca classica. La raccolta era poco curata, si ammassavano le olive già cadute aiutandosi con panni stesi a terra e i rami erano poco potati. La qualità del prodotto cedeva il passo alla quantità e a una produzione meno fine per scopi non alimentari. A causare una brusca inversione di marcia fu l’epidemia di peste nera, fra il 1347 e il 1352, che in circa dieci anni falcidiò oltre un terzo della popolazione europea e arrestò l’economia del continente. IL RINASCIMENTO Agli inizi del Quattrocento in Europa la riorganizzazione delle zone rurali rimaste abbandonate per decenni beneficiò della lungimiranza rinascimentale, che concepiva l’agricoltura in modo più razionale, in funzione del prodotto da ottenere, destinando alcuni terreni a determinate colture, pianificando i raccolti, affinando le tecniche, promuovendo la nascita di fattorie e cascine in chiave moderna. Nella seconda metà del secolo l’olivicoltura specializzata arrivò a imporsi in modo sistematico, ridisegnando la trama del paesaggio italiano ed europeo. L’olio e l’olivo si riaffacciarono dunque da protagonisti, rivestiti delle antiche simbologie della cultura classica ma con una connotazione anche tecnologica. Per tutto il Cinquecento Venezia rimase un punto di riferimento commerciale: acquistava tra le 6000 e le 7000 tonnellate di olio all’anno e ne rivendeva oltre la metà fuori dai territori della Serenissima, soprattutto all’industria saponiera e tessile. Regni e signorie intessevano relazioni diplomatiche e perfino la corona d’Inghilterra e lo zar di Russia iniziarono a trattare direttamente con i produttori del Mediterraneo. In Europa meridionale fu la penisola iberica ad affermarsi gradualmente come grande produttrice di olio, grazie alla spinta impressa dal trono di Spagna che, constatati i successi nel Regno di Napoli recentemente conquistato, incentivava l’olivicoltura dappertutto, Sardegna e isole minori comprese. Sfruttando i territori già predisposti e collaudati durante la dominazione araba o trovandone altri ugualmente vocati, la Spagna riuscì a raggiungere in breve i livelli di produzione delle vicine regioni italiche, anche se, ancora per diversi secoli, l’olio del golfo adriatico rimase il più ricercato. Comparvero ulteriori politiche di defiscalizzazione e nuovi accordi tra pubblico e privato. Ad esempio, il Granducato di Toscana, per favorire la produzione del suo costoso olio, concedeva quasi gratuitamente grandi estensioni di terreno collinare a chi impiantasse oliveti. Si rafforzarono inoltre le infrastrutture via terra e i collegamenti stradali, per facilitare il commercio e il trasporto. Anche scienza e ingegneria si interessarono all’olio. Sfruttando le scoperte apportate dalla rivoluzione scientifica, si costruirono oleifici strutturati e frantoi più efficienti – come quello idraulico, con macine mosse dalla forza dell’acqua –, divulgando corretti metodi di potatura e di raccolta, soprattutto la brucatura a mano, realizzata spesso grazie a manodopera femminile specializzata e salariata. L’olio solca di nuovo tutti i mari e batte ogni strada d’Europa, facendo la fortuna dei mercanti e il piacere di molti. Persino le fasce più deboli lo usano comunemente per illuminare gli ambienti domestici e come condimento nelle ricette quotidiane. Non sostituisce del tutto l’uso dei grassi animali, ma ora è più rispettato ed esaltato nelle sue caratteristiche organolettiche. Nel Seicento alcuni raccolti poco produttivi, uniti a un incremento delle tasse e all’obbligo di cedere un quinto della produzione al padrone della terra, portarono a un aumento drastico del prezzo dell’olio italiano. La resa era così bassa rispetto ai rischi e alle spese che gli olivicoltori abbandonarono le piante. Venezia era in difficoltà a causa della presenza britannica che minacciava la sua influenza nel Mediterraneo e dei pirati che assaltavano le sue navi; sopravviveva grazie alla navigazione fluviale del Po e dell’Adige, per rifornire le Signorie del Nord Italia e i territori asburgici e prussiani. ILLUMINISMO, PROGRESSO ED ETÀ MODERNA Il Settecento è passato alla storia come il secolo della prima rivoluzione industriale. Il settore tessile conobbe un cambiamento radicale grazie all’invenzione della spoletta volante, che consentiva una tessitura quasi automatica, e qualche decennio più tardi del filatoio idraulico, che accelerò notevolmente i tempi di filatura. Alla fine del secolo, il telaio meccanico decretò in modo irreversibile l’inizio di una nuova era industriale: un solo uomo era in grado di filare cento chilogrammi di cotone in 150 ore anziché in 100.000, come richiedeva un lavoro interamente svolto a mano da diversi operai. Altra invenzione straordinaria fu la macchina a vapore, che rese fruibile una fonte di energia prima sconosciuta e diede vita a nuove forme di industria, come quella metallurgica. La dinamica e i concetti dell’industrializzazione furono applicati anche al settore alimentare, con l’affermazione dell’industria conserviera. Si poteva produrre in meno tempo, in maggiori quantità e con costi ridotti. A tutto questo corrispondeva una maggiore richiesta di materie prime, tra cui l’olio. Ciò nonostante, il XVIII secolo fu segnato da raccolti negativi, dovuti a un forte abbassamento delle temperature. La gelata del 1709 fece morire la maggior parte degli olivi in area mediterranea e il prezzo dell’olio salì in modo vertiginoso. Venezia e Genova persero importanti quote di mercato e si tornò a una produzione di autoconsumo in molte zone della penisola. Ci vollero diversi anni per recuperare quanto perduto, ma la seconda metà del secolo si rivelò un periodo straordinario: l’Italia, grazie alla specializzazione applicata nel Rinascimento, era la produttrice del miglior olio sul mercato europeo, sia quello per uso alimentare (proveniente soprattutto dal Granducato di Toscana) sia il lampante, richiestissimo dall’industria (estratto in Calabria e in altre regioni del Sud). Appena il clima tornò mite e gli olivi produttivi, diversi investitori privati acquistarono terreni per trasformarli in oliveti. Nel 1753 nacque l’Accademia dei Georgofili, la prima istituzione scientifica dedicata all’agronomia e ai lavoratori della terra. Si raccolse in modo enciclopedico tutto ciò che riguardava l’olivicoltura, dalla potatura alla raccolta delle olive, fino alla catalogazione illustrata delle cultivar esistenti. Nacquero prodotti più ricercati per clienti abbienti ed esigenti, creando appositi canali commerciali, come il veneziano “Negozio di Ponente”, consorzio formato dai mercanti più esperti e affabili. Grazie all’ottimismo generale dettato dal progresso, nell’Ottocento si verificò un ulteriore sviluppo positivo per l’olivicoltura, soprattutto in termini qualitativi. Gli olivi di pregio erano selezionati e piantati tatticamente in numerose zone d’Italia, per ottenere ovunque un olio migliore e in maggiori quantità. Aumentarono gli olivi in Liguria, in Umbria, in Calabria e nello Stato pontificio, grazie a nuovi sussidi e agevolazioni. L’olivo era parte del corredo di ogni proprietà terriera ed era percepito come un investimento sicuro. Negli anni della seconda rivoluzione industriale e dell’Unità d’Italia l’olivicoltura giunse a rese mai viste prima, con costi decisamente inferiori. Si installarono i frantoi a vapore e le prime presse idrauliche, capaci di estrarre fino al completo esaurimento delle sanse. Comparve la foratina, una guida in metallo cavo che sosteneva i fiscoli attraversando verticalmente tutti gli elementi della pressa. Essa permetteva al mosto oleoso di esser raccolto anche lungo l’asse centrale, per poi essere diviso senza sprechi, accorciando i tempi di separazione. Gli introiti generati dalla nuova tecnologia e la consapevolezza positivista applicata all’olivicoltura portarono, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, alla nascita delle prime grandi case olearie, tra le quali Carapelli, Fratelli Carli, Isnardi, Monini, Bertoldi, Sasso, tutt’oggi esistenti anche se per la maggior parte non più italiane. Il XIX secolo fu anche il periodo delle grandi migrazioni. Milioni di italiani, greci e spagnoli lasciarono il Vecchio Continente per intraprendere viaggi dagli esiti incerti, verso mete sconosciute e quasi sempre senza speranza di un ritorno in patria. In Australia, Nuova Zelanda, Brasile, Cile, Argentina, Stati Uniti, Canada i migranti europei riproposero le tradizioni e le conoscenze familiari, soprattutto culinarie e agricole. Fu grazie alla nostalgia del Mediterraneo e dei suoi profumi che l’olivo iniziò a esser coltivato e apprezzato in queste terre inedite al consu mo di olio d’oliva. I risultati furono da subito ottimi, e ancora oggi in numerosi stati del continente americano e in Oceania l’olivicoltura rappresenta una proficua voce dell’agricoltura nazionale. Intanto, in Europa, la fine del XIX secolo si rivelò di nuovo durissima per l’olio, a causa di uno sfortunato susseguirsi di gelate e di numerose malattie alle piante. Di lì a poco ebbe inizio uno dei periodi più tragici e destabilizzanti della storia dell’umanità e l’olivicoltura dovette aspettare quasi mezzo secolo per tornare al suo splendore. LE GUERRE MONDIALI La storia dell’olio nel Novecento è segnata da fasi discordanti, soprattutto a causa di avvenimenti drammaticamente noti. Dopo la tragedia della Grande Guerra, gli oli di semi invasero il mercato, sfruttando la penuria di derrate alimentari provocata dal conflitto e le richieste dell’industria, che doveva riprendersi con poche risorse a disposizione. Inoltre, diverse gelate ostacolarono ulteriormente l’olivicoltura. L’olio d’oliva assume da ora una connotazione quasi esclusivamente alimentare e il lampante del Sud deve trovare un nuovo impiego, dato che ormai quasi ovunque vige l’illuminazione elettrica e l’industria si rifornisce di oli raffinati di altra origine, estratti grazie alla chimica con costi notevolmente inferiori. Eccetto alcune politiche di defiscalizzazione, poco viene fatto per salvaguardare gli oliveti secolari, sostenere l’economia del Sud e fermare la competitività del prezzo degli oli di semi. Solo con l’avvento del Fascismo e del mito dell’autarchia, l’olio d’oliva torna in voga, supportato con apposite leggi e agevolazioni economiche, senza che questo freni i già troppo affermati oli di semi. Con la Seconda guerra mondiale gli oliveti sono abbandonati. Tornati dai campi di battaglia, i sopravvissuti a ben due conflitti vogliono ricostruire il Paese, dopo anni di fame e miseria. Tuttavia, nel settore olivicolo manca una concezione qualitativa, soprattutto nelle regioni meridionali, dove si produce tanto ma in modo approssimativo. Il desiderio di dimenticare quello che è stato allontana i giovani anche dal passato culinario, pertanto gli alimenti della tradizione appaiono rozzi e popolari. In voga ora sono i nuovi cibi dell’America liberatrice, che nell’Europa vede una magnifica opportunità di mercato per i suoi prodotti e per la creazione di bisogni consumistici. Il burro sembra più nobile dell’olio, al massimo si preferiscono le candide e neutrali margarine vegetali, nate da diversi tipi di grassi poco pregiati, anche animali, e proposte in Francia a fine Ottocento come fondi di cottura sostitutivi ed economici. LA TUTELA DEL PRODOTTO E DEL CONSUMATORE La Politica Agricola Comune alla fine degli anni Sessanta restituisce un po’ di dignità e rispetto all’olio d’oliva. L’Italia era l’unica produttrice di olio tra i sei paesi della CEE: gli olivi non erano quindi una priorità comune, anzi, Germania e Olanda erano legate ai grassi animali e agli oli di semi, ma gli oliveti rientravano nel patrimonio rurale dei paesi membri. Come per ogni altro settore agricolo, furono stanziati sussidi per la produzione e la commercializzazione, sotto il controllo dell’Organizzazione Comune dei Mercati (OCM) dei grassi vegetali, istituita nel 1966. Altri fondi destinati all’ammodernamento delle strutture agricole furono, però, poco e male utilizzati e non riuscirono a incentivare la produzione di olio, a malapena sufficiente per il mercato interno. Il settore risultava ben rappresentato a livello nazionale da associazioni quali il Consorzio Nazionale degli Olivicoltori (CNO), ma con pochi controlli sui frantoiani e sui fondi europei, a spese della qualità e della quantità del prodotto. Dalla metà degli anni Ottanta, con l’entrata di Spagna, Grecia e Portogallo all’interno della CEE, le lobby dell’olivicoltura hanno iniziato a farsi sentire a Bruxelles con più forza ed efficacia. L’Italia ha considerato gli stati entranti non come alleati per ottenere più riconoscimenti per il settore, bensì come avversari nella produzione e concorrenti sui fondi europei. Pur lasciando all’Italia un primato quantomeno storico e una sorta di precedenza sulla questione, sono state gradualmente aumentate le quote di produzione di olio dei nuovi membri, che in poco tempo hanno surclassato la produzione italiana. Il peso di milioni di consumatori affezionati all’olio d’oliva e dei produttori sempre più numerosi ha spronato la creazione di direttive e regolamenti ad hoc, per proteggere e garantire la qualità dell’olio. Il regolamento (CEE) 2568/1991 definisce i diversi tipi di olio d’oliva e olio di sansa di oliva in base alle caratteristiche chimico-fisiche, come l’acidità e la presenza o meno di difetti, coniando il termine “extra vergine” per l’olio di oliva di categoria superiore ottenuto direttamente dalle olive e unicamente mediante procedimenti meccanici. Si approvano le prime leggi sulla Denominazione di Origine Protetta (DOP), sull’Indicazione Geografica Protetta (IGP) e sull’etichettatura dell’olio, per tutelare e informare il cliente. Questi testi legislativi sono aggiornati e modificati nel corso degli anni, soprattutto in corrispondenza degli allargamenti dell’Unione Europea e delle esigenze di produttori e consumatori. Nel 1998 e nel 2003 le riforme del sistema legato alla Politica Agricola Comune portano alla creazione del Pacchetto Mediterraneo, un insieme di disposizioni che regola il regime di sostegno ai prodotti più importanti per l’Europa meridionale, tra cui le olive e l’olio. Grazie al Pacchetto Mediterraneo, l’OCM è integrata dal regolamento CE 865/2004, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore dell’olio di oliva e delle olive da tavola, e si adottano diverse misure per tutelare la qualità, migliorare la competitività dell’olio europeo e garantire maggiore trasparenza al consumatore. Il 1° luglio 2009 entra in vigore il nuovo regolamento CE 182/2009 che introduce interessanti novità in materia di commercializzazione ed etichettatura dell’olio d’oliva vergine ed extra vergine, obbligando a specificare chiaramente l’origine del prodotto.