LA GEOGRAFIA
DELL’OLIO ITALIANO

CAPITOLO 8

La coltivazione dell’olivo domina da secoli lo scenario delle campagne del Sud Italia, ma è l’intera Penisola a essere coinvolta: anche in Piemonte e in Valle d’Aosta la pianta dell’olivo è presente, pur con risultati quantitativamente molto esigui.

Non c’è un’area migliore di un’altra, ovunque si ricavano oli dai tratti peculiari. Ogni territorio esprime la propria identità e i profili sensoriali degli oli prodotti ne sono testimonianza viva.

Dove ci sono olivicoltori bravi, determinati e professionalmente preparati, si ottengono produzioni che meritano considerazione. Lo stesso principio vale per i frantoi. La professionalità e la tecnologia fanno la sempre differenza.

IL PANORAMA OLIVICOLO ITALIANO

Un punto di forza dell’Italia è il suo ampio patrimonio varietale, ricco e variegato. In una relazione ministeriale che fotografava lo stato dell’olivicoltura italiana negli anni 1870-74 erano censite 315 cultivar. Negli anni Ottanta del Novecento il Catalogo olivicolo nazionale ne aveva individuate 395. In un ultimo censimento, pubblicato nel 1998, ne sono state riscontrate ben 538, note anche con 1302 sinonimi.

Gli oli in commercio, tuttavia, provengono da una cinquantina di varietà, quelle realmente più incisive, mentre le altre hanno solo carattere documentale. Basti pensare che nella regione più importante d’Italia, la Puglia, che rappresenta tra il 40 e il 60% della produzione nazionale, in base agli andamenti stagionali, le cultivar più rappresentative sono appena quattro, nel nord la Peranzana e la Coratina, al sud la Cellina di Nardò e, a legare l’intero tessuto regionale, la nutrita famiglia delle Ogliarola, da quella garganica a quella barese a quella salentina, senza trascurare i vari cloni.

L’olivicoltura si concentra perlopiù nel Mezzogiorno, soprattutto in Puglia. Il prodotto tricolore è tendenzialmente in calo e soggetto a una eccessiva variabilità. L’auspicio è che si piantino più olivi, visto che produciamo solo un quarto dell’olio che ci necessita, e soprattutto che si fermi il progressivo abbandono degli oliveti. Gran parte dell’olio italiano, infatti, è esportato all’estero, in primis negli Usa, poi in Germania, Giappone e Francia.

E così, importiamo olio d’oliva da Spagna, Grecia, Tunisia, Portogallo, dato l’elevato consumo pro capite, che si aggira sui 13 litri all’anno.

L’Italia olearia ha una lunga e consolidata storia, e non può permettersi di indietreggiare.

Le mappe sensoriali

Quando si produce un olio extra vergine di oliva, entrano in gioco molte variabili, in gran parte determinate dalla presenza, quantitativa e qualitativa, delle cultivar da cui l’olio viene estratto. L’arte del blending è un’operazione necessaria per caratterizzare e personalizzare gli extra vergini, rendendoli “pezzi unici” in base a come sono miscelati gli oli. Gli stessi profili sensoriali, inoltre, sono soggetti a drastici mutamenti in base agli andamenti stagionali; tuttavia, un produttore professionista riesce a mantenere uno standard qualitativo anche in campagne olearie difficili e complesse.

In Italia, data la carenza di materia prima, parte degli oli regionali non sono riconducibili al territorio, per via del consolidato commercio di olive e di oli tra regioni. Ciò non toglie nulla alla qualità degli oli, ma non definisce i confini di tale qualità. Le attestazioni di origine possono essere la soluzione, anche se il mercato non sembra premiare le Dop. La lettura dei profili sensoriali è resa più complessa dalla presenza diffusa di cultivar alloctone, di provenienza extraregionale o estera, perlopiù spagnola o greca. Non c’è da preoccuparsi, perché le cultivar non autoctone inserite in un ambiente diverso subiscono nel medio-lungo termine l’imprinting del territorio, ed è anzi un bene che vi sia un rinnovo varietale negli oliveti italiani, spesso vetusti nella loro concezione.

Il futuro dovrebbe essere aperto a sempre nuove varietà, così come avviene da tempo nel settore della frutticoltura, più favorevole all’innovazione.