il suono del vino
Fabio Rizzari

Cosa hanno in comune il vino e la musica? Nulla, ovviamente. Uno è un liquido, propriamente una “soluzione idroalcolica”, l’altra è “l’arte che consiste nell’ideare e nel produrre successioni strutturate di suoni semplici o complessi” (dizionario Treccani). Uno si beve – per i più raffinati si degusta –, l’altra si ascolta, o per i più bravi si esegue. Sarebbe un grave errore provare a versarsi del vino in un orecchio, non se ne caverebbe alcun suono, al massimo, un gorgoglìo, e le conseguenze medico-sanitarie potrebbero essere fastidiose. Allo stesso modo sarebbe frustrante tentare di assaggiare un’onda sonora: in pubblico, durante un concerto, boccheggiando come un pesce nel tentativo di suggere i suoni, si verrebbe presi per pazzi; mentre farlo tra le mura domestiche porterebbe a discussioni forse imbarazzanti con i propri familiari.


Due mondi distanti, dunque. Un momento. Distanti... ne siamo sicuri? Siamo certi che non esistano punti di contatto, elementi analogici capaci di trasportarci da una riva all’altra? A pensarci bene, su vino e musica si può tentare di scrivere, eccome. Certo, ci si muove su un crinale sottile, delicatissimo. Se si esagera, si propongono al lettore perplesso associazioni del tutto arbitrarie e incontrollatamente soggettive:
“Questo Brunello di Montalcino mi ricorda la poltrona verde sfondata di mia zia materna, quella che viveva a Camogli; i tannini morbidi sono come il suo sfiancato molleggio e il tatto vellutato del vino come il tessuto consunto dei suoi braccioli”. Un’immagine che ha un suo fascino, ma se ci è sfuggita la conoscenza diretta della zia di Camogli, o meglio della sua poltrona verde, ci manca qualcosa per afferrare il parallelo e magari trovarci d’accordo. 


Se viceversa si cerca un improbabile rigore oggettivo, si sconfina in un assetto ragionieristico del tutto fuori luogo: “La acid music di Karl Brickenberg ha pH basso, come il Riesling 2010 di Hans Richter; se si ascolta dalla battuta 9 alla battuta 14 della sua Sinfonia per occhiali da sole velato si può facilmente constatare la vicinanza con il terzo di bocca del vino, che ha toni di limone di Amalfi, kumquat e arancia amara”.
In altre parole, occorre cercare un difficile equilibrio tra l’inevitabile soggettività del proprio gusto e il più ampio sentire comune: se la miscela è buona, il ricordo della poltrona verde della zia potrebbe tradursi in un’esperienza che tutti, o quasi, riuscirebbero a comprendere. Niente di particolarmente nuovo, comunque. I più colti la definiscono sinestesìa, termine che indica sia una figura retorica molto nota (“dove il sol tace”, “parole dolci”), sia un vero e proprio fenomeno psichico in cui il soggetto percepisce in modo contaminato sensazioni provenienti da sensi diversi. Baudelaire parlava di “una facoltà che intuisce immediatamente, al di fuori dei metodi filosofici, i rapporti intimi e segreti delle cose, le corrispondenze e le analogie”; e Rimbaud teorizzava una “lingua nuova, che tenga insieme profumi, suoni, colori”.

Provo a misurarmi con questa scivolosissima materia da tempo. Ho cominciato, ormai quasi vent’anni fa, grazie alla proposta di scriverne sulle pagine del suo “Ex Vinis” da parte dell’ormai santificato e unico Gino Veronelli. Oggi l’AIS mi offre uno spazio simile, e di questo sono molto grato. Dal prossimo numero proverò dunque a scrivere qualcosa di sensato su vino e musica. E di non involontariamente comico, magari.