Pas dosé, una scelta stilistica dal profilo affilato, tagliente, senza concessioni a edulcorate morbidezze. Una rubrica che mira a intercettare le contraddizioni e le criticità nel mondo del vino offrendo, laddove possibile, un contributo alla soluzione.
Pas dosé
Antonello Maietta
La prima normativa che in Italia ha codificato in modo organico le Denominazioni d’Origine dei Vini risale al 1963. In quell’anno infatti il Decreto del
Presidente della Repubblica n. 930 mise un po’ di ordine nella materia, ereditando dal Trattato di Roma del 1957 le basi per una successiva
regolamentazione europea.
Fin dalle origini, i disciplinari di produzione dei vini sono messi spesso sotto accusa per i motivi più disparati, chi li ritiene troppo blandi, chi li
considera troppo restrittivi, chi vorrebbe zone di produzione sensibilmente più ampie, chi desidera meno vincoli nelle percentuali dei vitigni
utilizzabili, giusto per fare qualche esempio.
Un elemento su cui quasi tutti concordano è la necessità di avere delle norme chiare ed effi caci piuttosto che lasciare al libero arbitrio di ciascuno
la soluzione da seguire, soprattutto quando in ballo c’è la designazione in etichetta della comune appartenenza a un territorio.
La lettura di queste regole ci riserva spesso svariate sorprese, poiché nei disciplinari di produzione di parecchi vini, anche prestigiosi e blasonati,
il legislatore indica parametri diversi tra la gradazione alcolica minima, il cosiddetto titolo alcolometrico volumico, che le uve destinate alla
vinificazione dovranno assicurare al futuro vino e il grado alcolico minimo che il vino, ottenuto da quelle stesse uve, dovrà avere all’atto
dell’immissione al consumo. Questa discrepanza non è mai particolarmente elevata, nella maggior parte dei casi non supera lo 0,5%, tuttavia, a rigor di
logica, questi due dati dovrebbero coincidere.
Sostanzialmente si stabilisce che, rispettando un determinato parametro minimo, ad esempio 12% di alcol in volume, quelle uve potrebbero rivendicare una
determinata appellazione, ma il vino ottenuto esclusivamente dalla loro trasformazione non potrà mai ambire a quella stessa denominazione, poiché il suo
disciplinare prevede una gradazione alcolica minima del 12,5% all’atto dell’immissione al consumo. In termini molto pratici si sottintende che, qualora
in un’annata non dovessero ricorrere le condizioni per ottenere la gradazione minima nel vino, potrebbe essere adottata la pratica dell’arricchimento
dei mosti con mosto concentrato rettificato. Operazione, è bene ricordarlo, assolutamente legittima e legale nel nostro Paese. Questa opportunità
tuttavia non offre alcuno stimolo per procedere in modo più virtuoso al raggiungimento della gradazione alcolica minima prevista dal disciplinare,
potendo sempre contare, paradossalmente anche nelle annate più felici, su un aiutino esterno.
Bello sarebbe, nelle prossime modifiche dei disciplinari, correggere anche questa anomalia.