“Il più alto dei Chianti”, come una recente campagna promozionale veicolava la Rùfina, è in realtà semplicemente il più a Nord, e non quello in cui reperire le maggiori altimetrie; peraltro, dei vari vini da sottozona (sette) che ricadono sotto l’ampio ombrello della Docg Chianti, è l’unico che può a buon diritto definirsi “appenninico”, e col territorio del Chianti c’entra quanto lo scrivente con la fisica quantistica. Luigi Veronelli non aveva mancato di far notare con parole anche molto dure come il prefisso Chianti sia qui null’altro che una comoda forzatura commerciale: “masochistico abuso”, aveva scritto. Una visita nei luoghi e nelle cantine confermerà in modo assertivo come la Rùfina abbia da vendere – in senso letterale – una originalità innegabile, oltre che una qualità media come denominazione tra le più alte d’Italia. Per fattori culturali anzitutto: segnato dalle torri d’avvistamento di epoca tardo-medicea e dalle proprietà fondiarie dei nobili rimaste a lungo in conduzione mezzadrile, il territorio è ancora in possesso di una profonda cultura del lavoro di matrice contadina; ci sono sì le ville dell’aristocrazia fiorentina e vigneti maestosi nell’aspetto e nel nome come il Poggio Reale, ma anche frazioni dall’etimo significativo come Stentatoio o Carbonile, e cognomi come Ciucchi, Mugnai, Fabbri, Sarti, Massai, ad evocare, in mezzo ai blasoni nobiliari, il sacrificio di generazioni di braccia e schiene.
Anche le evenienze climatiche tracciano un profilo peculiare, almeno per la Toscana del vino; dalle pendici appenniniche, quasi disabitate, battute dal vento e aguzze come piramidi, scende la sera un velario di aria fresca o persino fredda, anche in piena estate, costringendo in agosto a dormire sotto le lenzuola; la luce radiante del mattino estivo è meravigliosa: le colline, gli alberi, le case, hanno contorni netti e il nitore di un bassorilievo nel cielo azzurrissimo.