addii
Valerio M. Visintin

“Mi occupo di food.”

“Di cosa???”

“… di food: food gourmet, street food, junk food…” “Ma come diavolo parli?”

Ecco. Se, alle prime avvisaglie, ogni individuo di sani principi avesse opposto il suo ruvido altolà, le cose non sarebbero andate diversamente, perché un collasso culturale non si ferma a mani nude. Ma non saremmo stati complici di questo precipizio foodista. Avremmo dovuto, insomma, affrontare il contagio linguistico con minor condiscendenza. Consapevoli che le parole non seguono le idee, ma le accompagnano e, in misura variabile, le influenzano. Pazienza. Il sogno di redenzione è ormai una causa persa. Quando il linguaggio si corrompe sino a questi estremi, è chiaro che la malattia è giunta a uno stato di non ritorno.Arrendiamoci.Tuttavia, avverto l’obbligo di celebrare le parole sacrificate sull’altare del nuovo dizionario del food, dando loro un degno commiato. Addio, dunque, a “gastronomia”. Ci mancherai. Mai più avremo un vocabolo così aristocratico e complesso, evocatore di segrete alchimie. Addio a “cucina”, che ormai ci è consentito in deroga soltanto se abbinato all’aggettivo “alta”. E addio al verbo che ne deriva, perché nessun cuoco di buon nome ammetterebbe mai che il suo lavoro, così intensamente artistico, è cucinare. Cuoco? Che gaffe. Scusate. Il cuoco è un’icona d’altri tempi. Era il personaggio pingue e tutelare che ricamava gesti bianchi tra i fumi dei tegami. Addio, caro vecchio cuoco. Oggi, acclamiamo lo chef, la superstar che si esercita sui palchi dei congressi e nei salotti televisivi, che scrive libri in libreria e poesiole sui menu. Addio al verbo “mangiare”, retaggio impolverato di un’antica abitudine plebea e, diciamolo francamente, volgarotta. I comandamenti del food impongono di “degustare”. Ed è inutilmente pignolo far presente che si tratta di una voce di origine mercantile, con la quale si intende l’assaggio prima dell’eventuale acquisto; non certo il godimento pieno e conviviale di una cena al ristorante. Addio ai “clienti”. Non li cita più nessuno, poverini. E non perché le disastrose contingenze economiche ne hanno bruscamente assottigliato i ranghi. Ma in osservanza di priorità e di gerarchie più moderne, per le quali in cima alla catena alimentare si collocano molte altre figure di maggior rilievo. Si calcola, alla luce di recenti studi, che il cliente sia al penultimo posto, dopo i cugini di secondo grado dei foodblogger e subito prima degli zii dei lavapiatti. E poi? Lasciate che estenda l’estremo saluto anche a sostantivi più concreti e tangibili. Addio alle tovaglie, che i ristoranti più à la page stanno mandando in pensione. Addio ai contorni, che il vento del food sta esiliando nelle pieghe più popolari e marginali della ristorazione. Addio allo scontrino fiscale che, per altro, non è mai andato molto di moda. Addio ai camerieri di professione, perché gli allievi delle scuole alberghiere sono tutti aspiranti Cracco o Bottura e in sala dovremo servirci da soli. Addio alle pareti intonacate, poiché vige l’obbligo mondano, sebbene non scritto, di lasciare i mattoni vivi e sbrecciati, per timbrare quel grazioso effetto dopo-bomba che tiene desta l’attenzione della gente. Addio stoviglie e posate così come le abbiamo conosciute, perché l’estro generativo degli chef deve potersi esprimere anche in questo ambito, forgiando nuove immaginifiche attrezzature per l’uso delle quali verranno stampate apposite istruzioni. E addio, alla fine, a tutti questi addii. Inutile indugiare nei rimpianti. In definitiva, di che cosa ci stiamo occupando? Di food.