La geniale creatività italiana applicata alla birra non pastorizzata, esplosa appena una ventina d’anni fa, ha saputo coniare una tipologia di birre assolutamente nuova. Ovvero quelle birre che utilizzano, nella loro ricetta, uva, vino o mosto di vino. Del resto, un’idea a prima vista così stramba, come quella di far convivere nello stesso bicchiere i due elementi, dove poteva nascere se non da noi?
terra di confine
Maurizio Maestrelli
Titolo alla Cormac McCarthy, quello che ha scritto Non è un paese per vecchi, tanto per intenderci, e tema spinoso per questo primo articolo dedicato alle birre. Ma nessuna preoccupazione, qui non sosterremo nessuna tesi su che cosa gli uomini abbiano scoperto per primo, se il vino o la birra, e ci guarderemo accuratamente dall’impantanarci in un’inutile disquisizione sulla maggiore nobiltà dell’uno anziché dell’altra. Da questo punto di vista, confessiamo subito di amare in egual misura i grandi vini e le grandi birre, perché entrambi donano piacere al nostro palato e gioia alla nostra anima. È vero che spesso la birra e il vino sono visti come antagonisti, sul mercato, o al massimo come compagni di strada che tuttavia camminano ben separati sui due diversi lati. In qualche caso, tuttavia, si tengono per mano. Ovvero, ci sono birre che hanno come presenza determinante nel processo produttivo, e poi come tratto caratterizzante nell’aspetto organolettico, ciò di cui si compone il vino. Sia sotto forme di uve, sia, più spesso, sotto forma di mosto. Lo stile - nella birra esistono gli stili o tipologie - non è uno di quelli classici e storici, come possono essere le stout o le pils, ma un’invenzione del tutto nuova e innovativa. Una sorta di sperimentazione che si è andata radicando sul successo dei primi campioni, assaggiati senza ombra di preconcetti e trovati, in molti casi, eccellenti. E dove potevano incontrarsi il vino e la birra, nella stessa bottiglia, se non in Italia? La nouvelle vague brassicola che vede decine di artigiani italiani cogliere successi commerciali, di pubblico e di critica, ha come filo conduttore una grande libertà d’espressione, dettata molto probabilmente dal fatto di essere nati in un Paese che, fino al loro arrivo sulla scena, era sostanzialmente ingessato, dal punto di vista birrario, nel trittico di birre chiare, ambrate e scure di bassa fermentazione. Insomma, la “fantasia al potere” di sessantottina memoria ha da noi potuto liberarsi senza ostacoli o retaggi. Almeno tra i campi d’orzo. Non è un caso, ad esempio, che i birrai italiani siano stati i primi a esplorare il territorio circostante alla ricerca di sapori che potevano andare a personalizzare le loro creature. Si è così rapidamente arrivati ad avere birre prodotte con le pesche di Volpedo, le susine damaschine o il chinotto di Savona, con cereali al tempo inusuali come il farro, la saragolla e il grano saraceno, con spezie e con fiori.