un'estate al mare Roy Zerbini Il percorso dei vini bianchi, i cambiamenti nella produzione e nel gusto degli ultimi decenni raccontati da un’insolita prospettiva, le calde estati, ritmate dai successi musicali, dagli eventi di cronaca e dalle manifestazioni sportive. … stile balneare. Ogni anno si rinnova questa profezia canicolare, che procura “fantastiche illusioni”, che “farà cadere in tentazioni”. Si parte dal 1982, anno in cui Giuni Russo deliziò l’udito dei pruriti pseudopuerili con un finale ritmico strabiliante per i sognati divertimenti priapici dell’arenile vacanziero, tanto da finire con “toglimi il bikini”. Sebbene quell’anno sia dominato dal triplice urlo di “Campioni del mondo” sussurrato da Nando Martellini, dal dolore per la scomparsa dell’hitchcockiana attrice Ingrid Bergman e dell’impalpabile, elegiaca, sofferente e regale eleganza di Grace Kelly, il vino imperava comunque nella canicolarità di quell’estate bestiale. Era il tempo del vino “bianco carta”, si privilegiava la trasparenza traslucida, espressione di una essenzializzazione firmata da una leggerezza acidula, dove i profumi diventavano intriganti perché finalmente rinfrescanti e più o meno dolcemente vegetali, e i vini erano il frutto della dilagante tecnica produttiva che combinava acciaio e temperatura controllata. Furono gli anni della primordiale e vera purezza fruttata, gli anni dei pionieri friulani, da Jermann a Gravner, da Schiopetto a Manferrari, per passare da Kante e Pontoni, e altri ancora. A quel tempo il brillare ambrato in cromaticità era toccare il cielo con un dito, attraendo quel colore un’infusione di salinità, per produrre una vibrata energizzazione che riusciva a inglobarsi in piena armonia nelle proiezioni delle nascenti tendenze delle morbidezze organolettiche. Fu l’estate del tocai friulano, del timidissimo pinot bianco di Gianni Vescovo; estate in cui ancora poteva resistere l’appeal cinematografico del “Corvo di Salaparuta”, che niente ha a che fare con il film Corvo rosso non avrai il mio scalpo del compianto regista premio Oscar Sydney Pollack. Ancor di più, nel 1985, quando i Righeira negavano il valore assoluto dell’estate stessa con la canzone L’estate sta finendo , ci fu un vino super cult, super brillante e super verdolino che rispondeva al genialissimo nome di “Galestro”: una Toscana in bianco, pura e intelligente utopia enologica, tanto che agli albori del ’90 si autoestinse con immacolata verginità, sottraendo però il trebbiano dal contado enologico chiantigiano. Di successo in successo, di in onda, per citare Cocciante dell’86, il vino bianco s’appiccicò sempre di più all’estate per l’incipiente indirizzo giornalistico del bere “bianco”, quel vino cioè in cui la tinta doveva restare stinta, ma non opaca o smorta. Al gusto dominava il freddo metallico, che però piaceva a quelle papille ancora da educare, e comunque molto distanti dalle allora strattonate invasioni ossidanti, anche se ben controllate, e tutte da aborrire! Arneis (Cornarea) e il Cortese di Gavi e dei Colli Tortonesi (Volpi), semifrizzanti, iniziarono a primeggiare. Era una specie di riscossa delle regioni a bacca rossa, assalite dai friulani, altoatesini, trentini e poi veneti. Onda Fino al 1990 le estati del vino segnarono un bere incosciente, se visto a ritroso, però d’efficacia per l’imposizione (forse un parolone) di un consumo di vino in bottiglia, non più il quartino della casa. E venne il tempo dell’estate in grigio, intesa come Pinot, un vino in cui si evitava la cessione cromatica color ramato (sic!), anzi quel Cà Bolani rosa bronzo andava epurato (altro sic!), per far spazio alle pianeggianti distese veneto-friulane d’indistinta purezza frescheggiante. Un bianco che farà storia, e che è ancora storia… e per la sua storicità sia medagliato. Ma il di bacciniana memoria e di ritmicità evergreen iniziò a incunearsi nella semplicistica freschezza di quel mancato “gris”, e apparvero il più austero Sauvignon blanc e il teutonico Gewürztraminer. Due vini in antitesi, però con un’unica inconfutabile tesi: piacquero! Il Sauvignon era lontano dalla del nord-est, stremato da un’idealizzazione che il bianco fosse davvero “bianco”, per cui non presentava quel carico di penalizzanti metossipirazine, ma assorbiva un nuovo non innovativo, che rispondeva al Pouilly-Fumé e al Sancerre: due luci enologiche! Si iniziò a parlare di mineralità, era il fumé delle terre bianche dell’Indre-et-Loire, terreni all’epoca paragonabili alle lontananze dell’avventuroso viaggio dei figli del capitano Grant di Jules Verne. Il Gewürztraminer fece esplodere l’Alto Adige e piacque, piacque da subito per la sua bevibilità al femminile. Bello è il ricordo della sua lucidità verdolina che si lasciava contaminare da un leggero paglierino, e quel fruttato che te lo raccomando per esoticità, abbinato a un dolce floreale, di gelsomino. Piacque quel Gewürztraminer, piacque a tal punto che dilagò in tutta la penisola e resistette nella hit parade organolettica per anni. Sotto questo sole cat pee Le estati si succedettero e i vini bianchi non mancarono di accompagnarle, anche per essere dissetanti armonie in quel “meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto” che Montale aveva già intuito anni prima. Vini anche dissetanti, non semplicemente autoreferenziali. Ecco tra il 1995 e il 2000 un rocambolesco connubio enologico, che trova una concomitanza latitudinale tra il Vermentino e l’Ansonica, due paralleli di freschezza gustativa in antitesi sapida, ma saldati dalla finezza erbacea d’erbe aromatiche sia fresche, sia secche, ma sempre tirreniche. I palati complicati all’epoca si inzupparono anche nello Chardonnay, spesso pennellato dal legno nuovo (e frequentemente troppo ), talvolta ingentilito - si fa per dire - dal sensuale sentore di talco del Pinot bianco (vedi Bâtard). oaky L’estate non deve essere una beva classicheggiante, i “grandi” del bianco creano stimoli autunnali e invernali, noi siamo qui per oggettivare l’estate, per non cadere nelle malinconie melodiche di Bruno Martino e del suo “Odio l’Estate”. “S’è spezzato il ricordo”, sussurrava l’affranto Cesare Pavese, scrivendo dell’estate, e quel filo di memoria diventò un elastico, e finalmente giganteggiarono il Verdicchio new style dei Castelli di Jesi (Villa Bucci), i timidi accenni minerali del Lugana (Cà dei Frati), le vaghe incursioni rimodulate del Soave (Pieropan). “Oh estate!”, cantò Pablo Neruda e in quell’esclamazione c’è il senso del racconto organolettico di tanti vini da vinificazione in bianco della temporalità 2001-2010. “Oh estate abbondante, carro di mele mature, bocca di fragola in mezzo al verde, labbra di susina selvatica, strade di morbida polvere sopra la polvere, mezzogiorno, tamburo di rame rosso, e a sera riposa il fuoco, la brezza fa ballare il trifoglio, entra nell’officina deserta; sale una stella fresca verso il cielo cupo, crepita senza bruciare la notte dell’estate.” Già sembra, nella lettura, di essere in una degustazione guidata di un Fiano o di un Greco di Tufo, di ritornare al Vermentino passando per la salinità oceanica dell’Albariño, di fiondarsi nel Veltliner e impolverarsi finalmente con i nordici Riesling. Nel 2010 per i Litfiba fu e l’etichetta storica nera e regale del Gavi La Scolca lo sbiancava di botto. Vini al “Sapore di sale, sapore di mare”, come vuole l’odierna tendenza (per fortuna) dei fruitori dell’iPhone e dell’Android philosophy, che siano questi i messaggi eno-subliminali dell’estate 2014? alla Nina Zilli, dove i sorrisi dei nuovi maggiorenni sognano il ritornello della canzone: “romantico quel bacio imprevisto ad alto tasso alcolico, le luci lontane di feste affollate, l’odore del mare di agosto”. E allora lasciamo che quest’estate 2014, purtroppo ancora intrisa degli sconfortati entusiasmi di una crisi, sbocci in tutto il bianco/giallo/arancio possibile, come fosse una bandiera enologica, quelle Sorelle Bandiera che “fatti più in là, così vicino mi fai turbar”, diventa mare ed estate pura, e attesa trepidante d’avventura: “con quegli occhi che tu hai, con gli sguardi che mi fai, con le mani che tu hai, tu mi tocchi come sai”. Sole Nero Un’altra Estate Avventuriamoci tutti nelle sperimentazioni e nelle imprese organolettiche nell’attesa del nuovo solstizio. Il 2013 ci lasciò con “sento il mare dentro una conchiglia, estate, l’eternità è un battito di ciglia”; il 2014 ancora non lo si può sapere, ma già s’intuisce che ci sarà una bianca beva, incluso il frizzantissimo alfiere di Conegliano e dintorni, una beva “selfie”. Già me lo immagino, che per Dino Sarti nel 1974, “più che una via è un’istituzione”; già che qualcuno/qualcuna pettegoliere/pettegoliera di professione s’intorta un selfie Grillo, un selfie Pecorino o un selfie Passerina, piuttosto che un whatsapp di Franciacorta. Le nuove giocosità del inframmezzano obsoleti sms, mms, con facebook, whatsapp e wechat, e i vini rischiano di perdersi nei megapixel, se troppo aggregati alle assonanze di tecniche produttive che possono oscillare tra il selfie bio e il selfie organic, dentro un canale natural chic che trova difficoltà ad affermarsi nelle ritmate limpide illogicità dei neoventenni. Viale Ceccarini, Riccione Caffè della gioventù perduta C’è molta voglia di semplicità di profumi e di sapori, di vini che facciano sorridere, di meditar non se ne ha voglia, perché nel vino dell’estate 2014 si dovrà trovare il tutto e il di più dell’aneddoto di Crepet: “nel bicchiere ritroviamo il tempo del dialogo”. Vini d’allegria, non involuti nel loro potere alcolico, ma capaci di sprigionare gli arabescati effetti di odorosi ventagli disegnati in fragranza, in florealità e in croccante freschezza fruttata. Un’estate in bianco - enologicamente sia chiaro -, con i mediterranei Pigati e Vermentini, con Biancollela e Pallagrello, con Fiano minutolo e , con la Vernaccia toscana rinsavita e la Malvasia delle terre friulane, ma soprattutto con un vino che attiri il senso del (“abbi il coraggio di conoscere”), nel fermo ricordo che “un uomo che beve solo somiglia a un suicida”. vitis apiana sapere aude