Collio sognato
Armando Castagno

C’è un Collio sognato del quale hanno parlato vent’anni fa ai nostri sguardi di giovani appassionati; un fiabesco avamposto sperimentale che aveva da poco cambiato - ci dissero - la sorte e l’aspetto dei bianchi del Nordest italiano e in generale del paese, che li aveva svecchiati a colpi di tecnologia, che li aveva resi, come comunità di produttori e non come singolo, grandi e spendibili a livello mondiale. Vini - si legge nei testi dei primi anni ’90 - finalmente freschi nel frutto, più leggeri di alcol rispetto alle “bombe” degli avi, meno ruvidi, più ricchi e appetitosi, “più cremosi, puliti ed eleganti”. L’idea non era affatto errata, ma partiva da una constatazione, da un criterio valutativo, che ha mostrato anni dopo di avere il fiato corto, inteso come lo fu: quello della “ricchezza”, la quale non ci sembra col senno di poi costituire il punto di forza dei bianchi del Collio, che invece asseriremmo essere la personalità, quand’anche ostica, scapigliata, perfino ruvida. La ricerca della “ricchezza” è sembrata arrivare a risultati eccezionali e immediati; ha fruttato all’epoca, insomma, premi e fama a livello nazionale e mondiale per via dell’innegabile bellezza dei profili, in grado di spiccare per piacevolezza, estroversione e facilità di lettura negli assaggi condotti alla cieca ad esempio per le guide o le riviste. Ma non di rado, questa universalità espressiva si è depressa in una progressiva perdita di identità dei vini portabandiera del luogo, soprattutto i Collio Bianco (da uvaggio), i quali, con poche e ben note eccezioni, sono diventati indistinguibili l’uno dall’altro anche perché figli della stessa ricetta, golosi e appetitosi sì, ma privi di una reale complessità e di un qualunque fattore emotivo nella trasformazione negli anni; una congerie di bianchi coesi come creme chantilly e sostanzialmente di quelle e poco altro profumati.