il cliente solitario
Valerio M. Visintin

Il cliente è un male necessario. Nelle trame più sottili di una ristorazione che sta cambiando pelle, va affermandosi passo passo questo pensiero affilato e sovversivo. È il motto segreto di un partito di minoranza, ma consistente nei numeri e trasversale ai ceti sociali.

Nella considerazione di alcuni osti, il cliente è un estraneo che esige, giudica, protesta e pretende, talvolta, la ricevuta fiscale. Che pacchia se si potesse vivere senza gente tra i piedi.

Non si dice, ma trapela negli umori e nei racconti che lampeggiano sui social network.

Non si ammette, ma è un sogno latente che appare e scompare come uno spettro persino nelle interviste di quei cuochi d’alto bordo che la parola “cliente” non la ricordano nemmeno, preferendo “ospite”, “suddito” o “fan”.

“Cliente, ha detto? Sì, sì… mi ricorda qualcosa… È tipo l’azoto liquido, no?”

Ovvio che questa inconfessabile ripulsa porti in dote una scala di valori e un campionario di specifiche allergie, che possono mutare da un locale all’altro in ragione delle rispettive caratteristiche. C’è, tuttavia, uno spauracchio comune a tutti. La iattura massima, da scongiurare aggrappandosi a corni e cornetti. Un nemico universale, che osti e chef non osano neppure nominare.

Costui è il cliente solitario. Quell’impudente che sciupa il simmetrico equilibrio della sala. Che, peggio ancora, occupa un tavolo da quattro e consuma per uno.

Non fa differenza se sia donna o uomo, poiché la sua condotta lo eccettua dal consesso umano. Voci indiscrete sussurrano che, per combattere queste calamità innaturali, vi sia un occulto protocollo, vergato da amanuensi nelle cantine di un antico maniero.

Il cliente solitario, su tali libri maestri, sarebbe catalogato come presenza funesta e collocato nell’argine di un pentacolo.