alcol? No, grazie!
AIS Staff Writer

Si fa sempre più serrato il dibattito sull’incremento della quantità di alcol presente nel vino, non soltanto come conseguenza del cambiamento climatico, ma come precisa scelta enologica. Negli ultimi vent’anni, infatti, il contenuto etilico si è costantemente allontanato dall’asticella del 13%, per raggiungere vertiginosi apici naturali ormai prossimi al 17% (vedi USA Zinfandel & affini, ma anche in casa nostra). Il tutto dà l’idea che sia stata studiata una strategia particolare, allo scopo di definire un modello enologico uniformato e di facile riconoscibilità per il consumatore.

I tecnici che operavano tra gli anni ’60 e ’70 si rifugiavano spesso nell’alibi alcol per stabilire le potenzialità salutistiche e di resistenza dei vini; eppure in quegli anni i vini traguardavano con fatica la soglia del 12,5%, qualche disciplinare prevedeva l’uso di varietà dalla limitata esuberanza calorica per non esagerare in potenza e alcune versioni in rosso consentivano perfino di “diluirlo” con uve bianche. Sono ormai anni che quelle tesi sono state confutate.

Il trend alcolico è diretta conseguenza delle applicazioni enologiche del Nuovo Mondo e della volontà non solo di concentrare il gusto, ma anche di dare un’espressione olfattiva il meno possibile amaricante; probabilmente è collegato a un varietalism esasperato, per tirar fuori tutto il frutto possibile, ricercando le variabili odorose a tendenza molto matura, spesso gelatinosa, talvolta di confettura o, peggio ancora, sciroppata.

La spinta eno-mediatica degli anni ’90 ha consolidato un immaginario vinicolo (più nel rosso che nel bianco) dal gusto potente, basato su un dualismo tannico/alcolico in cui il vincitore - l’alcol - doveva produrre un effetto texture molto morbido e calorico, per mitigare il poco gradevole green dei dilaganti vitigni cabernet sauvignon, cabernet franc e merlot. C’erano, e purtroppo ancora ci sono, vini in cui i tannini si inzuppavano così tanto di alcol, da uscirne con un’astringenza pseudo zuccherina. Questo aspetto appare come un controsenso organolettico: attira moltissimo i nuovi bevitori, ma poi li stanca, perché impedisce di scovare le naturali microrusticità dei tannini catechici, dalle cui combinazioni strutturali e flocculanti si può tentare di intuire il potenziale di evoluzione del vino. Uno dei responsabili di questo addolcimento è di certo la quantità di alcol presente nel liquido, che non va colpevolizzata in quanto amplifica l’effetto edulcorante, ma perché produce un calore che porta a cottura il fruttato. L’effetto risulta ancor più enfatizzato se i tannini sono ellagici. Questo stile oggi è messo in discussione perché allontana il cibo dal vino, risultando troppo strutturato rispetto all’alleggerimento delle preparazioni culinarie e al minor sforzo di masticazione richiesto. Una tendenza esplosa con Ferran Adrià di El Bulli, a Roses, poi con Heston Blumenthal al The Fat Duck, a Bray nel Berkshire, periferia di Londra, e oggi trova in René Redzepi del Noma, a Copenhagen, un acceleratore di quelle pseudo consistenze e non cotture. L’idea gustativa che ha sdoganato il concetto di cucina molecolare arricchiva i piatti di eleganti e particolari espressioni, caratterizzandone il tratto aromatico e gusto-olfattivo, senza pretendere una robusta dotazione alcolica nel vino. Per queste preparazioni, anzi, l’alcol risulta un killer implacabile, capace di sterminare con precisione chirurgica quelle sfumature aromatiche e gustative che da fuori insaporiscono la sostanza interna. Il vino in abbinamento necessita di una leggerezza morbida piuttosto che una concentrazione disidratante. Un esempio dal Noma Restaurant: animelle di vitello con piselli, germogli di foresta e aglio grigliato. Non è la cottura, e nemmeno la consistenza, che danno potenza al cibo, sono i germogli e l’aglio grigliato; non serve quindi potenza nel vino, ma leggerezza, vibrazione sapida e volume liquido che abbia una trama paritaria al cibo. Si potrebbero citare moltissimi altri esempi.

In Italia abbiamo subìto questo ingrassamento alcolico per strizzare l’occhio al mercato d’oltreoceano. È stata quasi un’azione di proselitismo enologico per accasare al gusto italico non internazionalizzato gli adepti dei cabernet e del merlot. Adesso le avvisaglie di retromarcia non sono più un canto di sirena e giungono ancora dagli States, dove qualcuno si domanda se un vino con oltre il 15% di alcol sia così appetibile. Qualcuno si è accorto che l’acidità e un po’ di delicatezza strutturale si sposano meglio con il gusto di moltissimi cibi, non solo di nuova concezione. Noi plaudiamo a questa svolta, a patto che non si snaturi il carattere di alcuni prodotti della tradizione, virando verso un eccesso al ribasso, magari intervenendo sulla genetica dei lieviti per assurgere alla vacuità alcolica, altrimenti saremo daccapo. Nel dubbio è sempre utile il ricorso all’antica saggezza: in medio stat virtus.