il cibo letterario
Mariaclara Menenti

La letteratura è cibo. Da odorare, assaggiare, tenere tra i denti, sulla lingua, masticare, inghiottire, digerire con tutta calma. Da godere, innanzitutto: è oggetto e fonte di piacere, anche smodato; altrimenti non è niente. È nutrimento mentale, di parole pungenti e sarcasticamente succulente, o saporite e fragranti; o più delicate, da cogliere al fondo di pietanze corpose. Sono coinvolti tutti i sensi, e non si è mai sazi. La letteratura è cibo nella percezione del gusto e del disgusto (che è esso stesso gustoso, per il vero gourmet), dal profumo del desiderio alla nausea delle parole. Alla tavola letteraria il gusto è tutto; non esistono profumi troppo carichi e soverchi, bisogna avere stomaco forte e palato fine. Dopodiché, il buon lettore (il vero lettore, altro che un serial reader da fast food) è un mostro autoreferenziale, poco attento alle stelle e alle classifiche, che considera per partito preso non attendibili. Il cibo letterario è senso e dissenso, frugale e intemperante, da consumare a morsi in lunghi passaggi dai contorni amari, da rigurgitare per ricominciare (a tanto arriva il vero libertino, e chi è sempre a dieta se ne faccia una ragione; se hai gusto, saresti capace di strozzarti pur di non rinunciare all’ultimo boccone. Che è il più gustoso e che è sempre quello che sta ancora nel piatto). 

Cibo odoroso nella letteratura colta, al gusto di paradosso, da meditazione; nella letteratura carnale e carnosa, succosa, erotica. Cibo imputridito nella letteratura pigra, lattiginosa, a tratti acidula, persa; nella letteratura morbida, affabile, adulatoria, che àncora il pensiero e ne abusa. Cibo come metafora sociale (sempre a patto che la metafora abbia sapore, o dissapore, anche da sola, senza condimenti), occasione sempre imperdibile di incontri e scontri. Certo, tutto parte dalla lingua, ma non c’è gusto senza immaginazione. Ecco perché il cibo è una letteratura che usa anche il simbolo, che lo si colga o no; è sempre un pretesto per parole dolorosamente profetiche o pensieri turbatamente erotici; accetta il dualismo, l’esclusione, e non c’è pietanza che scotti troppo o sia troppo piccante, salata o amara: nel piatto del lettore il piacere può sfiorare l’autolesionismo, suscitare reflussi emozionali, fra il gusto per la vita e il sapore della morte.