Fiorano, memorie e girandole Armando Castagno La vicenda della vecchia Tenuta di Fiorano, un rettangolo di 200 ettari stesi a lato della via Appia Antica, in comune di Roma, ha contorni così romanzeschi da sembrare una trama di Thomas Mann. Ho amato e amo visceralmente questo posto, anche se ne ho scritto raramente: l’ho vissuto come un luogo mutevole e metaforico, bello di una bellezza stinta, salificata, una soglia, un duro crogiolo dove molto è accaduto e poi si è incenerito. Dal torbido della polvere, oggi che sono tornato a passeggiare a Fiorano dopo tanto tempo, cercando di dare forma a queste parole nella mia mente, ho visto affiorare una cosa. Ero penetrato in auto nel cuore della tenuta, trovandomi solo in mezzo a campi punteggiati di pini marittimi, cardi, fi chi d’India; sfioriti trifogli e margherite di prima estate, restavano a duettare il giallo del tarassaco e il celestino della veronica. Mi sono trovato attaccato con entrambe le mani alle maglie di una serranda abbassata, sull’uscio del fabbricato di pietra adiacente la cappella della Tenuta, alla sua estremità meridionale: ricevuta in risposta al “C’è nessuno?” solo la mia stessa eco, ho curiosato dentro abituando gli occhi al buio. Era un locale atto a deposito: ammassati uno all’altro, attrezzi da lavoro, segnali stradali dismessi, mattoni, strani utensili di falegnameria, relitti di abbeveratoi, arnie consunte e due vecchi trattori. Un refolo di vento nella mattinata agostana mi ha acceso un riflesso alla periferia degli occhi. Sulla mia destra, a quasi due metri dal suolo, ha preso a girare la cosa, che non avevo notato avvicinandomi: assicurata alla serranda da un incerto tubicino rosso, c’era una girandola con i petali color argento, disgregata e corrosa ai bordi ma ancora lucente, lasciata lì chissà quando e per quale funzione. Sono rimasto lì a fissarla. La girandola roteava ancora quando ho rimesso in moto la macchina per proseguire il mio giro tra i campi. Albori Corre l’anno 1946: il principe Francesco Boncompagni Ludovisi, sessant’anni, appartiene a una delle più antiche famiglie italiane: può esibire diciotto titoli nobiliari, due papi in famiglia e altri nove tra gli antenati di sangue; ex parlamentare e senatore del Regno d’Italia, si è ormai ritirato a vita privata dopo la Seconda guerra mondiale e l’avvento della Repubblica. Ha visto il tramonto di molti dei suoi ideali, e nonostante si sia distinto come Governatore di Roma, cioè sindaco (dal 1929 al 1935), e non sia affatto vecchio, è stanco. Il secondogenito di otto fi gli si chiama Alberico, ha ventotto anni essendo nato nel 1918, e a suo favore il padre Francesco ha “refutato” uno dei suoi titoli, quello di Principe di Venosa; è già sposato, sin dal 1941, con la contessina Laetitia Pecci Blunt: avranno una sola fi glia, Francesca, anche lei destinata a sposare un nobile, il marchese Piero Antinori di Firenze. Alberico riceve dunque da suo padre nel 1946 la tenuta di famiglia in località Fioranello; vi si produceva già vino, e il tema è uno dei pochi che possano essere trattati ricorrendo a un suo virgolettato (del 2001): “A Fiorano, il vino si cominciò a produrlo all’incirca nel 1930, ma da viti locali. Fu nel 1946, quando ricevetti da mio padre la proprietà agricola di Fiorano, che giudicai scadente il vino prodotto e consultai l’enologo dottor Giuseppe Palieri, il quale mi propose di innestare sulle viti di Fiorano il cabernet e il merlot alla proporzione reciproca del 50% e, separatamente, la malvasia di Candia e il sémillon per il vino bianco. Così feci subito e mi valsi del dott. Palieri finché visse”. La fama di Palieri sarebbe sfumata fi no all’oblio odierno, ma negli anni Trenta questa fi gura di agronomo-enologo-ricercatore godeva di stima incondizionata; aveva lavorato presso la Barone Ricasoli e vantava pubblicazioni basilari, talvolta profetiche, nei temi della produzione di uve da tavola, dell’uso – e soprattutto della possibilità di “non uso” – degli anticrittogamici contro la peronospora, della storia del diritto agrario, della conservazione dei vini, della “casse ferrica”; inoltre produceva direttamente vino, nella tenuta del Maccarese, lungo il litorale nord di Roma. Lì Palieri aveva dovuto gestire vigneti su terre vergini, che si era riusciti a bonificare nell’epoca fascista dopo 170 anni di vani tentativi, giusta la costituzione di un consorzio forzoso; i proprietari dei fondi, migliaia di ettari, li avevano sempre tenuti ad acquitrino per poterci allevare le bufale, secondo una tradizione secolare in zona, e avevano opposto ferrea resistenza ai progetti di bonifica. Sviluppi Le convinzioni maturate da Palieri nei primi anni Trenta trovano a Fiorano un perfetto campo d’applicazione; il Principe ne asseconda subito l’istinto “non interventista” in vigneto: “La somministrazione alla terra di sostanze chimiche prodotte industrialmente non mi ha mai convinto, fin dalla mia età di sedici anni, ossia nel 1934”, scriverà più avanti. Il terroir è ottimo: la Tenuta si trova nel quadrante nordoccidentale del Vulcano laziale, e sebbene a quota altimetrica modesta (125 metri slm) è ottimamente ventilata; la superficie è pianeggiante e soleggiata. Il suolo è, di suo, arido, ma straricco di minerali vulcanici, fosforo, potassio, zolfo, magnesio, rame, molibdeno: è una pozzolana di un bel colore tra il viola e il rosa, brillante di riflessi. Il terreno è incoraggiato alla produzione da letami prodotti in loco dalle mandrie di bovini e ovini, secondo principi di “agricoltura a circuito chiuso” che ricordano da vicino i dettami steineriani teorizzati ventidue anni prima. Nascono con queste premesse tre etichette di vino distinte, prodotte in non più di 2500 bottiglie complessive; con il taglio paritario di cabernet e merlot, allevati con un sesto d’impianto assai largo, si ottiene un migliaio di bottiglie del Fiorano Rosso; la malvasia di Candia e il sémillon sono invece vinificati in purezza per dar vita a poche centinaia di pezzi l’anno di un Fiorano Bianco e di un Fiorano Sémillon. Tutti i vini maturano in botti di varia origine e forma, tutte attorno ai 10 ettolitri e numerate. Il loro contenuto è stato quasi sempre imbottigliato separatamente, con apposizione nel caso del Rosso di un talloncino rettangolare con l’indicazione del numero della botte e della quantità prodotta. Alla morte di Palieri, avvenuta a metà degli anni Cinquanta, Alberico nomina il suo successore: Tancredi Biondi Santi, che resterà a Fiorano fino alla sua scomparsa (1970) e non verrà mai sostituito. Dopo quasi dieci anni dall’avvicendamento, nel marzo del 1966, Alberico assaggia per la prima volta il Brunello di Montalcino di Tancredi, come racconta emozionato in una lettera conservata in originale al Greppo: aveva fatto la sua scelta, evidentemente, “sulla fiducia”. Come ricorda Elio Mariani, ristoratore a Testaccio presso un locale-monumento, “Checchino dal 1887”, che fu tra i primi a credere nel Fiorano e a venderlo, “una vera fortuna commerciale questo vino non l’ebbe mai; era piuttosto un segreto che girava sottovoce tra quei pochi che, per così dire, sapevano”. Vi erano almeno due circostanze che contribuivano a mimetizzare il Fiorano; la prima era la rarità del prodotto; la seconda, la sua insistita austerità giovanile. I bianchi e i rossi di Alberico rivelavano la loro formidabile tempra solo dopo sei o sette anni, e del resto erano venduti non prima della fine del terzo anno dalla raccolta. “Il Bianco” è ancora Elio Mariani a parlare “era talmente sapido da giovane da profumare poco e così salmastro da sembrare, alla cieca, un vino dell’isola del Giglio.” Uno sguardo alle guide di allora chiarisce questi punti; Veronelli, nel Bolaffi del 1970, assegna tre stelle di “prestigio” e solo una di “popolarità” sia al Fiorano Bianco, sia al Rosso; dalla sua scheda, splendidamente scritta, si apprende che il Bianco, da giovane, profumava di “selce”; che alla fine del 1969 l’annata in vendita di entrambi i vini è la 1966; che il prezzo del Fiorano Bianco è lo stesso del Rosso, 600 lire, cioè quanto il Trebbiano d’Abruzzo di Camillo Valentini, il Torgiano Bianco di Giorgio Lungarotti e il Gavi di Vittorio Soldati. La Guida alle bottiglie d’Italia, firmata da Flavio Colutta, tratta il Lazio e i suoi abitanti come una stampa d’epoca, ma ha un merito: riporta le fotografi e delle bottiglie. Nell’apposita sezione compare l’immagine della bordolese di Fiorano Bianco 1966, la cui etichetta è sormontata da un cartiglio con la scritta, in impressionante anticipo sui tempi: “Vino di viti non concimate chimicamente”. Enigmi La distribuzione del vino fuori da Roma era affidata alla ditta Quirici di Milano; a Roma era reperibile in pochi punti vendita, come il ristorante dei Mariani o l’enoteca di Marco Trimani. La modalità di acquisto del vino all’ingrosso aveva qualcosa di imperscrutabile. Si prenotava telefonicamente la quantità desiderata di Fiorano; la signora Vittoria, sin dagli inizi con il principe Alberico, richiamava specificando l’importo della fattura. Chi comprava sapeva che era necessario portare con sé il denaro contato, non una lira in più né una in meno, niente assegni né resto; si entrava nell’edificio principale, si saldava, e si veniva chiusi a chiave in una stanza quadrata al pian terreno sulla destra dell’ingresso; seduti a un tavolo di marmo rosa, si aspettava di essere liberati e si trovavano quindi i cartoni impilati fuori dalla porta, da caricarsi a cura e fatica dell’acquirente. Occorre immaginare la saletta all’epoca: volumi, repertori e raccolte entro librerie di vecchio legno; alle pareti, i diplomi vinti dalla Tenuta per le sue eccellenze agricole, e avremmo giurato anche per il vino, se non avessimo avuto due testimonianze, dirette e coerenti, che di attestati di qualità per il vino non ve n’era nemmeno uno. Piuttosto, Fiorano aveva vinto premi in Francia, Germania, Stati Uniti e ovviamente Italia per la qualità della sua frutta da tavola, dei suoi bovini da monta, del suo grano. La passione del Principe per l’agronomia trovava in quella specie di tinello la sua unica possibilità di comunicazione con l’esterno; sparsa per la tenuta, la testimoniava invece all’interno una sbalorditiva collezione di trattori, alcuni tuttora lì, oppressi da ruggine, ragnatele e rampicanti e sostanzialmente ischeletriti, ma intrisi di significato. A parte l’iniziatica modalità descritta, il vero enigma legato al Fiorano è nell’esito dell’assaggio di questi vini a distanza di decenni: si tratta, apparentemente, di liquidi immortali, o giù di lì. Oltre alla degustazione dei rossi di cui diamo conto a fi ne servizio, ci è accaduto di provare non meno di cinquanta volte i Fiorano Bianco e Sémillon di millesimi a partire dal 1962 e fi no al 1994 senza trovare che tre o quattro bottiglie preda dell’ossidazione, tutte del Bianco e nessuna precedente al 1990. Eppure, sulle modalità di custodia di queste bottiglie non avremmo pressoché mai potuto giurare. La sorte di questi vini nel tempo era per di più affidata dall’azienda a fattori a dire poco precari: le vinificazioni erano effettuate in un locale aggredito dai licheni in botti mai pulite internamente o esternamente per quasi sessant’anni; le solfitazioni erano operate, si direbbe, per onor di firma, con un disco di zolfo appeso a un fi lo di ferro sterilizzato a fuoco e posto come in infusione nelle botti; si imbottigliava in vetri sottilissimi, appena colorati di verde chiaro; ci si affidava per le chiusure a tappi da 35 millimetri, per almeno il 90% destinati (col senno di poi) a dividersi in due a 2/3 di profondità al momento della stappatura, e a capsule di modesta qualità adese ai colli in modo rugoso e imperfetto. Eppure, se il vecchio Fiorano Bianco mostra oggi doti di rusticità e di solidità di grande effetto, oltre a una aromaticità sottile e dolce, il Fiorano Sémillon tra il 1962 e il 1989, degustato oggi con la massima severità possibile, si impone come uno dei più grandi bianchi italiani mai prodotti, soprattutto nella luciferina versione 1971, ancor oggi screziata di riflessi verde giada e dominata da note di pompelmo, resine, erbe e bicarbonato. Altre annate memorabili di questo vino-capolavoro sono il 1962, il 1968, il 1970, il 1973, il 1975, il 1977, e ancora 1978, 1988 e 1989. Vi è poi l’aura di mistero che circonda la cantina di conservazione dei vini, che abbiamo sempre immaginato come una sorta di catacomba ipogea di tufo, buia e fredda, ma che è rimasta chiusa pressoché a tutti e da sempre. C’è un ultimo arcano di cui dare conto: è costituito dalla fi gura cui è dedicata la chiesetta della tenuta, Santa Fresca, edificata nel 1734 come da lapide annessa. Ebbene, dato eccentrico per una famiglia che tra ascendenti e consanguinei conta undici pontefici, santa Fresca altro non è che un fantasma: inesistente nei repertori della Chiesa, essa ha due sole possibili interpretazioni come dedicataria, e cioè che “Fresca” sia il diminutivo di Francesca (ma sarebbe un caso unico), oppure che il nome riecheggi un’esclamazione di matrice contadina in cui l’eufemismo “fresca” ne cela uno a sfondo sessuale di plateale evidenza; esistono altri casi. La seconda ipotesi è dunque meno improbabile della prima: un coagulo di giocosa blasfemia in un quadro familiare secolarmente fi n troppo austero. Tramonti Nel 1998, al compimento dell’ottantesimo anno di età, dopo 46 vendemmie consecutive e d’improvviso, Alberico Boncompagni Ludovisi ordina ai suoi contadini l’espianto e la distruzione dell’intero vigneto di Fiorano, salvo otto fi lari di cabernet nella parcella ubicata sul lato di via di Fioranello opposto a quello degli edifici principali. Già ritiratosi da anni a Roma, rifiuta nel 2001 di incontrare Luigi Veronelli, che lo aveva implorato per iscritto in una lettera poi resa pubblica, Albe Metà della tenuta e della cantina storica è pervenuta al ramo femminile, quello di Francesca, l’unica figlia di Alberico, e di conseguenza è gestito dalla fi glia sua e di Piero Antinori, Alessia, che ha avviato reimpianti nella sua parte di azienda, a sé stante rispetto al nucleo primigenio del quale fi n qui abbiamo scritto e che reca il nome di “Fattoria di Fiorano”. La continuità diretta del marchio e dell’etichetta (la Tenuta di Fiorano propriamente detta) è assicurata, come da prassi nobiliare, dal ramo maschile più prossimo, quello del cugino di Alberico, Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi, il cui padre Paolo Francesco aveva assistito da vicino l’anziano Principe negli ultimi anni, ricevendone una sorta di sprone alla prosecuzione della sua opera. Paolo, scomparso nel 2007, ha lasciato il timone al figlio Alessandro, il quale ha così potuto ascriversi il merito storico della riproposizione di un vino leggendario (vendemmia 2006); un merito, ma anche una responsabilità, che Alessandro ha peraltro preso “di petto” contattando un agronomo-enologo giovane e di notevole talento, Lorenzo Costantini, che segue da vicino tutte le fasi della produzione, dalla vigna alla cantina, come aveva fatto sessant’anni prima Giuseppe Palieri. Si sono messi a dimora, pare secondo un’indicazione di Alberico stesso, viognier e grechetto in luogo del sémillon e della malvasia di Candia, mentre per il Rosso le varietà sono quelle di sempre. I vini prodotti sono quattro: un Fiorano Rosso, un Fiorano Bianco, e due second vins alla bordolese dal nome di “Fioranello”. I protocolli di vinificazione sono semplici, e rispecchiano le idee degli uomini che hanno fatto la leggenda di Fiorano: Alberico, Giuseppe Palieri, Tancredi Biondi Santi. Gianni Valenti, il gigantesco fattore che aveva seguito Alberico sin dagli anni Sessanta, è rimasto a Fiorano e con un po’ di fortuna lo si può ancora incontrare al mattino presto mentre conduce un trattore o pota amorevolmente una siepe. La girandola del tempo lo ha rimesso in moto quando non sembrava più possibile, e attorno a lui, anziano ma ancora energico, è come se fossero tornati i colori. Se stessi girando un fi lm, lo chiuderei sull’immagine del suo volto sul trattore, occhi socchiusi e un cenno di sorriso, e infine sulla sua figura che si allontana sul mezzo agricolo nello sfondo perenne dei colli Albani, solo e dondolante tra pezze di terra da poco dissodate. 2008 Rubino di media intensità con riflessi bruni. Forte percezione agrumata e piena integrità rispetto ai legni di maturazione a una prima indagine; alloro e persino acetosella e foglia di limone certificano una frazione erbacea di particolare freschezza; infine, qualche virgola floreale e un sentore di catrame. Silhouette agile e interessante, decisamente poco ruffiana. Anche all’assaggio la nota di agrume la fa da padrona; la filigrana del vino richiama i colleghi delle Graves di Bordeaux. Finale acutamente minerale, di discreta lunghezza e molto pulito. 2007 Rubino netto, non impenetrabile. Assetto olfattivo già molto complesso e generoso, con una grafi te “vecchio stile” a dominare il quadro, poi ciliegia nera e china, legna umida, muschio, liquirizia, salsedine, ginepro; col tempo si affaccia una nuance di pelliccia quasi da Lambic. Bocca assai più gentile e graduale, che si porge fluida, innervata da potente acidità; la mineralità su cui sfuma ne conferma però il profilo severo, baritonale, cupo; affascinante eco come di cenere e polvere pirica. Uscito dopo il 2008 in quanto lentissimo nella maturazione, in effetti non ancora compiuta del tutto. Il tempo ne chiarirà il valore, ma certo è già un Fiorano coerente con la fisionomia delle gloriose annate del passato. 1998 Bottiglia priva di etichetta accessoria: documenta l’ultima annata prima dello strappo delle viti e dell’arresto della produzione. Ed è un Fiorano diverso dagli altri, per cui la parola giusta è “svuotato”: ha poco colore – dai riflessi evoluti – e già del fondo; pare che frutta e fi ori lo abbiano evacuato: è acidissimo, crudo, metallico, tannico, ma rapido a sfumare e non in grado di proporre alcunché di simile a un ritorno aromatico, salvo una nota di pelliccia bagnata. Forse è la coscienza della sua origine che ai nostri occhi lo scolora, che ce lo rende così malinconico e ombroso. Una bottiglia buona su quattro aperte; le altre non giudicabili, poiché il contenuto era torbido e amaro. 1994 Botte 30 Inizia qui la serie dei veri Fiorano del Principe Alberico. Il millesimo, torrido nel Lazio, non ha impedito l’ottenimento di un rosso di estrema finezza: trasparente e caldo, con i primi riflessi di un granato vissuto, ha naso estroverso, inaugurato da una ficcante nota “di testa” di acidi volatili; ma esplorando con calma il bouquet si reperisce un piccolo patrimonio, fatto di cuoio, spezie, prugna in confettura, resina di pino, polvere di caffè, tabacco fermentato, un cenno di brett (cerotto, erba medica). Il sorso, piacevole e classico, svela soprattutto la sua filologica adesione al vecchio canone bordolese: medio peso, tannino rude anche se minuto, energica acidità, frutta ammaccata e note “organiche” e di tetra mineralità nei ritorni. Venduto al sesto anno dalla vendemmia, dopo tre anni di botte e tre di vetro. 1991 Botte 38 Da una piccola annata, con scarsa luce ed estate irregolare; molti ambiziosi vini della regione non furono prodotti; l’alcol complessivo di questo – analisi recente – è pari ad appena 11,85%, l’acidità a 5,60 g/l. L’olfatto è l’espressione terziaria di un rosso valoroso: ruggine e mercurocromo, polline, legna umida, ruta, terriccio; pare inoltre incrostato di salsedine. Aiutato nell’espressività dal basso grado, dal poco estratto e dalla potente acidità volatile, il 1991 regala di sé all’assaggio un’idea efebica ed esile; fila via benissimo, scandito da tannini di grana inappuntabile, riproponendo infine all’epilogo ricordi di foglia di tè e di tabacco e qualche screziatura salmastra. 1990 Botte 29 Una sola di tre bottiglie aperte è esente da problemi (“tappata” la prima, ossidata la seconda, chiusa da un sughero che si è letteralmente sfarinato). Ebbene, valeva la pena insistere. È di un colore spettrale, attendibile per un 2001 o un 2004, un rubino intenso con bordo granato acceso, e ha un naso in cui resiste una nota di ciliegia e frutta di bosco croccante; a mancare è piuttosto la consueta complessità a latere: si colgono solo una lieve liquirizia e un che di floreale (lilium) e di animale. In bocca è il più tannico e gagliardo della verticale, nonché forse il meno acido, compresa la volatile, che non si avverte; apre un bel finale saporito e vigoroso, di passabile estensione. C’è per chiudere da inferire una sperimentazione sulla quantità di solforosa (140), più che doppia rispetto a qualunque altro vino della verticale di cui siano disponibili dati analitici. 1989 Botte 23 Primo capolavoro della degustazione procedendo all’indietro. Annata controversa in tutto il Centro Italia, peggiore sulla sponda adriatica che su quella tirrenica, ma poco interessante anche nelle regioni limitrofe (Toscana, Umbria e Campania). Eppure, il Rosso 1989 ha saputo cavare dal merlot e dal cabernet un tesoro di eleganza: il bouquet floreale accompagna note iodate e medicinali, una fragranza quasi cerealicola di pane di segale e luppolo, e la sfumatura di vegetale selvatico classica per la tipologia in annata fresca, qui addirittura di “friggitello” e di peperoncino. Il sorso è fi ne e fresco, continuo e scorrevole, teso per il palpitante contributo dell’acidità; il tannino è, per quanto può esserlo, delicato, l’uscita è tra il dolce e il selvatico, fi no a ricordare la mostarda e il miele di corbezzolo. 1988 Botte 30 Un monumento nazionale. In particolare nell’imbottigliamento delle botti numero 30 e 35 (molteplici assaggi) è pacificamente uno dei più grandi tagli bordolesi italiani mai prodotti. Alcol di 12 gradi esatti, acidità appena superiore a 6 g/l; il 1988 è annata eccezionale per almeno altri due importanti rossi laziali, il Torre Ercolana e il Vigna del Vassallo. Colore scuro ma intatto e naso inestimabile: scortano la ciliegia nera e la grafi te sbuffi di liquirizia, erbe da amaro, chinotto e tartufo. Vitale e carismatico al palato, fatto nobile da un tannino di splendida trama; il tutto è in virtuosistico equilibrio; uscita irradiante e complessa, in cui tornano note amare di genziana e rabarbaro prima del dispiegarsi di una veemente sapidità. 1987 Botte 15 Fu una vendemmia strana: il tempo, in Centro Italia, si guastò irrimediabilmente dopo la raccolta delle varietà precoci, come il merlot, che infatti “timbra” questo Fiorano, tanto da far pensare (ma non ci sono testimonianze dirette) che la percentuale utilizzata sia di parecchio superiore alla media. Il naso conferma il sospetto di cui sopra, con il suo impianto sinuoso e morbido, quasi dolce, impreziosito da sfumature di vegetale lieve (finocchietto, anice), di sottobosco umido e mais tostato, e da un aspetto oscuro di mina di matita e idrocarburi, creosoto e cenere, con un tocco finale leggermente di cerotto. Levigato all’assaggio, con tannino quasi polverizzato, è però in perfetto stato grazie a una sinergia di acidi e sali che viene da definire “operosa”. Pur assaggiato dopo l’88, e quindi sacrificato dal confronto ravvicinato, fa sfoggio di grazia e varietà da grande vino. 1986 Botte 15 Un Fiorano in tono minore, in questa versione così come in quella della botte 37, più volte assaggiata e per noi indistinguibile. Minore perché, dovendo sintetizzare, è troppo “verde”: i toni di peperone delle varietà bordolesi non si sono qui mai risolti in autentica maturità, e sono sempre lì in evidenza, a procurare a questo rosso un’immagine incompiuta e cruda. L’assaggio conferma tutto: difetta un po’ di dotazione acida, e di converso mantiene una forza astringente nei tannini che gli sottrae eleganza. Finale rustico e approssimativo. 1982 Botte 23 Bel punto di granato, ancora con una vivida luce. Bouquet dall’impatto caldo e vissuto, con qualche richiamo di frutta fermentata accanto a tartufo, liquirizia, caffè verde e radici; l’evocazione minerale ha tinte insolite di zolfo e metano; l’aerazione non lo favorisce, liberando una dotazione cospicua in acidi volatili, che in una delle due bottiglie assaggiate lo trascinano nei pressi dello spunto acetico. In bocca ha apprezzabile dinamica e una certa sintonia tra le componenti: l’insieme non manca di autorevolezza, pur in un contesto di limitata complessità; l’acidità si fa impetuosa man mano che si avvicina all’epilogo. 1980 Botte 36 Bislacca edizione, o forse bizzarra bottiglia (pur conservata ottimamente). Fatto sta che il naso si presenta grezzo e segmentato, tra legno amaro e brett, e stantio nelle note di naftalina, acqua piovana, pellame. L’assaggio ne evidenzia una lampante diluizione; il tannino è rigido, i riverberi del sapore sono di resina e alghe, il congedo avviene nel dilagare di un’acidità cruda e bellicosa, e di ritorni retrolfattivi verdognoli e pungenti. Versione marginale, come del resto lo fu il buio millesimo, da freddo a gelido nel Lazio da metà settembre a fi ne novembre. 1977 Riuscita stupefacente nei terroir d’eccellenza del Centro Sud, per quel poco che di ambizioso vi era prodotto (Bolgheri, Castelli Romani, Irpinia, e soprattutto Abruzzo). Manto granato e naso sostanzialmente diverso tra l’analisi a bicchiere fermo e quella dopo la roteazione; sensuale e tenero nella prima, con note di miele di castagno, tabacco Kentucky e frutta cotta, un tourbillon invece a contatto con l’aria, con un carattere quasi ostile di fumo e goudron, timo e corteccia, pneumatico e metallo. Bocca rabbiosa, tannica, ampia; la sua tempra marziale si misura annotandone la tenuta e anzi il miglioramento netto nel bicchiere: oltre quattro ore a contatto con l’ossigeno non ne frenano una progressiva ed entusiasmante “messa a fuoco” aromatica. 1971 Botte 29 Granato ancora lucente nell’orlo e bel bouquet floreale e minerale: proveremmo a descriverlo come un coacervo di lilium e ferro, caramello e tabacco bruciato, cenere, bacche selvatiche; come accade nei sublimi bianchi 1971 della Tenuta, a un dato punto interviene un’impressionante nota agrumata, freschissima, di pompelmo rosa, o forse “bianco” di limone. L’assaggio dice: impeccabile maturazione fenolica (a soli 11,6% di alcol!), intatta dotazione di aromi, epilogo che pare addizionato di seltz tanto è energico e vibrante, oltre che lunghissimo. Una bottiglia eroica, in tutto straordinaria, da quella che riterremmo, nella regione, la migliore vendemmia della seconda metà del XX secolo. 1970 Botte 22 Risultato confortante dall’apertura di una bottiglia, che tuttavia aveva il livello sotto metà spalla; in teoria, è pertanto possibile trovare lo stesso vino in condizioni anche migliori. Il colore, di un granato caldo e maturo, prelude nel nostro assaggio al rilascio di sensazioni di floreale selvatico (rosa canina e persino camomilla), eucalipto e menta, con qualche riferimento al cuoio; tinte vegetali ed erbacee ne colorano di verde lo sfondo. Al sorso è docile e risolto, mostra maturità e dolcezza nell’impianto tannico, un’acidità composta ma non infiltrante, un’insolita traccia alcolica e i primi accenni vinilici in un retrolfatto dai toni evoluti e autunnali. 1968 Circa 6 cm di ullage (“calo”). L’etichetta con l’indicazione della botte e delle bottiglie prodotte è purtroppo andata perduta chissà quando: ne è rimasto l’alone. In compenso, il contenuto della bottiglia è lussuoso: di un aranciato netto, ma trasparente e luminoso, spande un gran profumo di fi ori appassiti, mina di matita, henné, carruba, felce, polpa di cachi; ha un sapore denso e disponibile, dal tannino regalmente fi ne, imperlato di freschezza. Chiude con sobrietà e misura: il retrolfatto è legato all’aspetto silvano di sottobosco umido: tartufo, felce, humus, legna bagnata. 1958 Aranciato trasparente e con riflessi bruni. L’annata, calda e ricca, trova ancora un riscontro a distanza di cinquantasei anni: la si legge nei toni olfattivi di marmellata di arancia amara e terra battuta; sussistono nel bouquet tinte minerali piuttosto fosche, accenti di tabacco scuro e salmastro, cuoio conciato e acetone. Bocca ancora vitale, non tanto nei toni duri (acidità e tannino sono anzi piuttosto dimessi), quanto nella componente salina, che fodera le guance e rilancia la persistenza fi no a una estensione che è vera “dilatazione” del sapore.