La vicenda della vecchia Tenuta di Fiorano, un rettangolo di 200 ettari stesi a lato della via Appia Antica, in comune di Roma, ha contorni così romanzeschi da sembrare una trama di Thomas Mann. Ho amato e amo visceralmente questo posto, anche se ne ho scritto raramente: l’ho vissuto come un luogo mutevole e metaforico, bello di una bellezza stinta, salificata, una soglia, un duro crogiolo dove molto è accaduto e poi si è incenerito. Dal torbido della polvere, oggi che sono tornato a passeggiare a Fiorano dopo tanto tempo, cercando di dare forma a queste parole nella mia mente, ho visto affiorare una cosa. Ero penetrato in auto nel cuore della tenuta, trovandomi solo in mezzo a campi punteggiati di pini marittimi, cardi, fi chi d’India; sfioriti trifogli e margherite di prima estate, restavano a duettare il giallo del tarassaco e il celestino della veronica. Mi sono trovato attaccato con entrambe le mani alle maglie di una serranda abbassata, sull’uscio del fabbricato di pietra adiacente la cappella della Tenuta, alla sua estremità meridionale: ricevuta in risposta al “C’è nessuno?” solo la mia stessa eco, ho curiosato dentro abituando gli occhi al buio. Era un locale atto a deposito: ammassati uno all’altro, attrezzi da lavoro, segnali stradali dismessi, mattoni, strani utensili di falegnameria, relitti di abbeveratoi, arnie consunte e due vecchi trattori. Un refolo di vento nella mattinata agostana mi ha acceso un riflesso alla periferia degli occhi. Sulla mia destra, a quasi due metri dal suolo, ha preso a girare la cosa, che non avevo notato avvicinandomi: assicurata alla serranda da un incerto tubicino rosso, c’era una girandola con i petali color argento, disgregata e corrosa ai bordi ma ancora lucente, lasciata lì chissà quando e per quale funzione. Sono rimasto lì a fissarla. La girandola roteava ancora quando ho rimesso in moto la macchina per proseguire il mio giro tra i campi.