È da un quarto di secolo che questo mestiere mi porta in giro per ristoranti. Siedo a tavola, ceno, pago e recensisco. Siedo a tavola, ceno, pago e recensisco. Siedo a tavola, ceno, pago e recensisco. Non potrei stabilire con esattezza a quale cifra ammonti questa infinita catena alimentare, ma se dichiaro che ho cinquemila ristoranti nel mio passato, non vado lontano dalla verità.
Tuttavia, non c’è cuoco e non c’è chef che sappia dire com’è la mia brutta faccia, poiché mi muovo in incognito stretto, per poter riferire ai lettori la stessa esperienza di un cliente qualsiasi.
Sembrerà strano, ma non è poi così difficile restare segreti agli occhi dei ristoratori. Sono sufficienti alcune accortezze. Prima di tutto, non presentarsi mai, nemmeno dopo aver saldato il conto. In secondo luogo, farsi accompagnare da complici affidabili e leali, che reggano la parte nel corso della visita e non la tradiscano negli anni a venire.
Prima di ogni appuntamento, ricordo i punti fermi di un inviolabile protocollo. Perché camerieri e osti hanno cento occhi, trecentocinquanta orecchie e una memoria da elefante. La cautela è la chiave del mio incognito e non è mai troppa.
Dovremo essere clienti discreti e dimenticabili. Non mi dovrete chiamare col nome di battesimo e tanto meno per cognome. Non potremo né trattare, né nominare argomenti classificati (espressione trafugata ai tempi del servizio di leva): giornalismo, Corriere della Sera, recensioni, opere e omissioni degli chef, guide gastronomiche e così via. Non faremo nessun commento rilevante su quanto abbiamo nel piatto. Con i camerieri, non andrà messo in scena nessuno sfoggio di erudizione su vini o alimenti. Ma non dovremo fingere nemmeno ignoranza, perché l’avventore bovino lascia tracce nella memoria. Niente fotografi e, nessuna segnalazione sui social, omertà persino con i parenti stretti.