di che cultivar siete? Luigi Caricato Nel mondo del vino sono i vitigni, nel mondo dell’olio sono le cultivar. La qualità non deriva solo dal territorio, con l’uomo che ne governa le sorti, ora fronteggiando, ora assecondando la natura. Gran parte di ciò che si dice qualità è frutto anche del germoplasma, ossia di quel vasto e composito patrimonio varietale che rende unici sia i vini sia gli oli. La declinazione al plurale è la forma più corretta, giacché non esiste il vino o l’olio, ma, appunto, i vini e gli oli. Figuriamoci, poi, la capacità e la sapienza nel mescolare e combinare tali fattori. Nel caso specifico delle varietà disponibili in campo – vigna o oliveto – si possono ricavare da una parte i vini monovitigno, dall’altra gli oli monocultivar. Anche i blend sono il segno evidente di un successo stratificato nel tempo. La combinazione delle varie cultivar, per ciò che concerne gli oli, così come dei vitigni per quanto riguarda il vino, fa sempre la differenza. Ed è una differenza sostanziale. Sta qui un punto di forza che occorre conoscere a fondo per poter affrontare una materia tanto antica quanto sempre attuale. Fare vino, fare olio: non è mai lo stesso. È come la materia che si plasma. Pensate al marmo per uno scultore. La pietra e l’uomo. Le forme che se ne ricavano non saranno mai le medesime e del medesimo valore. Anche l’uva e le olive sono materia che va plasmata. Come non tutti i marmi sono uguali, e nemmeno gli artisti che li scolpiscono, così gli stessi vignaioli e olivicoltori non hanno la medesima materia prima a disposizione e nemmeno loro stessi sono paragonabili, per il loro specifico lavoro, l’uno con l’altro. Ciascuno di essi interroga, indaga e agisce a partire dalla materia a disposizione. Ecco, pertanto, l’importanza di disporre di un ricco e composito patrimonio varietale. Nel quotidiano impegno a ottenere buoni o eccellenti vini, buoni o eccellenti oli, c’è la centralità del germoplasma. Niente di così unico e straordinario può essere ottenuto se vi è carenza di vitigni o di cultivar. Non si può prescindere dalla varietà e dalla specificità degli ecotipi presenti in campo. È questa variegata risorsa genetica a fare la differenza. Ovunque. Ecco allora la necessità di onorare le peculiarità che derivano dal diverso materiale genetico impiegato. L’agricoltore, quando sceglie una o più cultivar, sceglie la sorte dei propri oli. La speranza è che opti per una materia prima unica, in grado di soddisfare, oltre alle esigenze primarie, anche quelle che determinano una buona o eccellente materia prima finale. Conoscete le cultivar dell’olivo? Sapete quante ne esistono al mondo? Quante sono state censite, tra quelle coltivate nel corso degli ultimi decenni? Sì, perché anche le cultivar possono non essere eterne. Molte delle cultivar dell’antichità non sono più coltivate. Un po’ la selezione naturale, un po’ la selezione operata dall’uomo in funzione degli obiettivi che un coltivatore, di viti o di ulivi, si pone, il patrimonio varietale è sempre mutevole. Si sceglie per vari motivi. Preferendo la quantità di olio presente nel frutto o la qualità dell’olio presente nei vacuoli dell’oliva? La quantità di olio estratto o la bassa resa purché l’olio sia di eccellente fattura? Prediligendo le varietà più resistenti al clima, quindi le più rustiche, o le varietà più gentili, magari capaci di darci oli ineguagliabili, ma con piante che poi perdiamo ai primi geli e inverni rigidi? Tanti e differenti sono gli obiettivi di un olivicoltore, quanti, altrettanti e differenti, sono gli oli che si possono ricavare. E l’Italia? L’Italia primeggia in maniera netta. Lo sapevate? Chi ha il germoplasma più ricco? Ebbene sì, il primo paese al mondo per numero di varietà di olivi presenti sul territorio è proprio l’Italia, con 538 cultivar censite. Segue la Spagna, con 272. Al terzo posto si posiziona la Turchia, con 80; a seguire, quarta la Siria (che in questo momento storico non se la passa molto bene, purtroppo; sperando che gli olivicoltori sopravvivano agli olivi), con 70 cultivar; quinta la Grecia, con 52 varietà; sesta la Tunisia, con 44; settima l’Algeria, con 36; ottavo il Portogallo, con 24; nono il Marocco, con 6; e poi c’è il Nuovo Mondo, che in verità ha attinto alle cultivar mediterranee. La copertura delle cultivar sul territorio. Ciò che conta, tuttavia, non è il numero di cultivar censite, ma quanto sia concretamente esteso il patrimonio varietale realmente utilizzato. Si scopre così che solo 24 varietà in Italia coprono all’incirca il 58% della superficie totale destinata all’olivicoltura. Non solo: le cultivar coratina, ogliarola salentina e cellina di Nardò (tutte e tre pugliesi, la prima nel nord della regione, le altre due del Salento) coprono all’incirca il 19% della superficie totale coltivata. Altre varietà di olivo – le più rappresentative, ed effettivamente le più diffuse – sono le cultivar carolea, frantoio, leccino, ogliarola barese, moraiolo, bosana, cima di Mola, dolce di Rossano, ogliarola messinese, ottobratica, sinopolese, nocellara del Belice, canino, carboncella, itrana, moresca, rotondella, taggiasca, tondina, grossa di Gerace e nocellara etnea. Tutto il resto del germoplasma rimane, oltre che sulla carta, solo in pochi esemplari, e di conseguenza risulta di fatto poco presente nelle bottiglie d’olio. Altre cento varietà coprono, ciascuna, una quota variabile dallo 0,1 allo 0,9 per cento della superficie coltivata. Si comprende bene come in realtà siano poche le cultivar concretamente operative, al punto da ritrovarle, sotto forma di olio, nelle bottiglie in commercio. E voi? Voi di che cultivar siete? Qual è la vostra, o le vostre cultivar preferite? Prestate attenzione agli oli che acquistate e utilizzate? Che cosa accade in Spagna? Il paese iberico ci ha ormai non superato, ma surclassato. Mentre gli spagnoli negli ultimi decenni hanno investito in olivicoltura, piantumando milioni su milioni di piante, noi, al massimo, abbiamo rinfittito alcuni vecchi impianti, oppure abbiamo deciso (non so se a malincuore) di abbandonare l’olivo nelle sue collocazioni più difficili, o di non piantare più mantenendo solo l’esistente. Dunque, la Spagna è proiettata sempre più a essere la vera protagonista del futuro; ci piaccia o meno, questa è la realtà. Nessuno si spinga però a denigrare la Spagna, sostenendo che produce pessimi oli. Non è così. Ne producono di ogni tipo: in grandi quantità, per soddisfare un consumo di massa, per un mercato poco interessato alla qualità, ma ad avere un olio utile allo scopo in cucina; inoltre, la Spagna produce anch’essa extra vergini di una qualità elevata, ma anche altri oli di grande eccellenza (non è un caso che vincano tanti concorsi mondiali). Il guaio, per noi italiani, è che tali oli di grande qualità la Spagna li produca anche in quantità elevate – e non c’è d’altra parte da stupirsi, se si fa un confronto realistico e oggettivo con i bassi numeri italiani (noi, insomma, produciamo pochissimo olio, tanto da non essere autosufficienti, meno, in ogni caso, di quello che ufficialmente dichiariamo). La Spagna, tuttavia, almeno in fatto di cultivar ci è seconda, e tale sicuramente resterà. Rispetto alle 272 cultivar censite sul territorio, le principali 24 cultivar coprono il 96 per cento della superficie totale coltivata a olivo. E non solo: a essere proprio sinceri, le tre principali cultivar nazionali coprono all’incirca il 63 per cento della superficie totale; anche se, di fatto, è la picual la vera dominatrice della scena. Perché scegliere oli generici? La questione non è di secondaria importanza. Ora che si è consapevoli del vasto patrimonio di cultivar disponibili nel mondo, possiamo concludere che rimanere consumatori di un olio generico è senza dubbio poco stimolante. Trovandoci di fronte a un’estesa ricchezza varietale, sarebbe proprio il caso di modificare i nostri orientamenti al consumo. Un olio di massa, che definisco molto opportunamente “olio democratico”, in quanto chiunque può permettersi di acquistarlo, ha una sua dignità e merita rispetto; ciononostante, disponendo noi di un tesoro inestimabile, perché non aprire pian piano, con un briciolo di curiosità, ai tanti oli dalle caratteristiche sensoriali così peculiari e uniche? In Italia, paradossalmente, sugli scaffali faticano a imporsi gli oli regionali. Le attestazioni di origine protetta Dop o Igp non decollano, segno che gli italiani preferiscono un olio indistinto, purché unga, purché condisca, purché assolva al proprio compito di amalgamare, di esercitare una molteplicità di impieghi e funzioni. Forse invece, ora che la qualità è migliore ovunque, è giunto il tempo di fare un salto di qualità anche nei consumi, come pure nei modi di comunicare e di far percepire la qualità. E i blend? Un altro aspetto da affrontare è quello dei blend. Nel vino sono altamente considerati. Pensate al termine cuvée, per esempio. Negli oli c’è chi disdegna stizzito la combinazione tra diversi elementi. Si utilizza il termine “miscela” per indicare l’assemblaggio di differenti espressioni produttive, anche nell’ambito delle medesime cultivar; ma la dicitura “miscela” è percepita in senso spregiativo, quasi a evocare la miscela che da ragazzini si comprava dal benzinaio per rifornire il serbatoio del motorino. Solo le miscele del caffè sono accolte di buon grado. Anche il ricorso al termine blend fa paura e c’è chi lo avversa. Tutto questo e altro ancora lo scopriremo nelle prossime puntate. C’è molto da conoscere, e molti pregiudizi ancora da sfatare. olio officina - FOOD FESTIVAL Olio a tutto eros La quarta edizione di Olio Officina Food Festival, a Milano, al Palazzo delle Stelline, dal 22 al 24 gennaio, si annuncia molto particolare. Dopo il successo delle precedenti edizioni, con il dichiarato obiettivo di far mutare la consueta visione dell’olio, sta prendendo sempre più forza la manifestazione ideata dall’oleologo e scrittore Luigi Caricato, raggiungendo un pubblico nuovo e curioso. Così, dopo aver affrontato il tema dei (2012), (2013) e (2014), e dopo aver teorizzato il concetto di “olio democratico” e di “olio quale bene comune condiviso”, è la volta di un tema insolito, ma non per questo privo di legami con la storia: (2015), a testimonianza di come un prodotto antico, ma sempre contemporaneo, vada vissuto e considerato al di là del proprio ambito, circoscritto alla sfera alimentare, entrando in una prospettiva più ampia e coinvolgendo tutti i possibili linguaggi e ogni possibile interlocutore. L’olio, che sul piano strettamente gastronomico si rivela un ottimo veicolatore di sapori, allo stesso modo veicola, sotto molteplici aspetti, anche il piacere erotico. I sapori di un alimento sono amplificati quando si ricorre all’olio, e così, anche quando utilizzato per nutrire la pelle, spalmato sul corpo, l’olio permette il passaggio degli umori verso l’esterno. Tali segnali, trasmessi dalle sostanze feromoniche, facilitati dal ricorso all’olio, così come avveniva in passato, agevolano di fatto l’attrazione. “A Olio Officina Food Festival - ribadisce il direttore della manifestazione Luigi Caricato - a entrare in scena in questi anni è stato un mondo di figure nuove e alternative, come il paesaggio, l’economia, l’arte, la letteratura, la musica, la medicina, l’architettura, l’antropologia e perfino la filosofia, creando vero scompaginamento della realtà, senza riscontri analoghi nel passato. È una rivoluzione nei linguaggi, tale da rimettere in discussione l’idea stessa di olio da olive. Questo sincretismo di linguaggi porta con sé un rinnovamento del settore, spingendolo a una rilettura dell’alimento olio extravergine di oliva. Andando oltre la pura condizione di merce, l’olio da olive diventa un indicatore culturale, come secoli fa, dal quale non si può prescindere.” nuovi linguaggi dell’olio il lato femminile dell’olio l’anima sociale dell’olio il lato erotico dell’olio Palazzo delle Stelline, corso Magenta, 61 www.olioofficina.com Olio Officina Food Festival – Condimenti per il palato & per la mente Ideato e diretto da Luigi Caricato Quarta edizione. Milano, 22-24 gennaio 2015