È una ciclicità non regolamentata. Ogni tanto si torna a discutere sul prezzo del vino, che nelle carte dei ristoranti esibisce un divario incomprensibile tra costo alla produzione e quello al consumo. Un dato è certo: il prezzo del vino in carta mostra un trend di crescita incompatibile con i movimenti dei costi aziendali, del mercato e della crisi che non vuol saperne di allontanarsi. Il titolo di un articolo apparso su una testata web d’oltreoceano recitava pressappoco: se una bottiglia di vino costa 100 euro, stiamo davvero pagando il giusto valore? La risposta istintiva e non ponderata sarebbe: no! Secondo il report pubblicato, la bottiglia venduta a 100 euro avrebbe un prezzo in azienda di 19, il passaggio distributore-agente lo porterebbe a 33, e i restanti 67 sarebbero tutti appannaggio del ristoratore, con un margine lordo del 203 per cento.
Si potrebbe obiettare che lo scarto da 33 a 100 euro non è così fuori mercato, considerando che il mondo ristorativo anglosassone arriva a un moltiplicatore anche di 4,5-5, che porta quella stessa bottiglia a trovarsi in carta a 165 euro. In una recente visita in Costa Azzurra, alcuni locali proponevano a 45 euro un rosato da battaglia che partiva da 7 euro, e a oltre 110 uno champagne posizionato in carte italiane a 65 o 70.
Nulla da obiettare nel voler raggiungere un sostanzioso gross profit aziendale se il ricarico risponde a criteri selettivi di giudizio commerciale, riflesso di un lavoro professionale che contorna la bottiglia e la avvalora, e che trova un concreto riscontro positivo nell’analisi di ciò che il locale offre al cliente. Purtroppo così non è, anzi lo è sempre più raramente.
Un consumatore che nota una differenza sostanziale di prezzo dello stesso vino nella carta di due diversi locali considera disonesto quello che lo vende più caro. Occorre invece fare un’analisi ad ampio raggio sul profilo professionale e commerciale del locale in questione, per valutare le eventuali differenze tra le due situazioni e se quelle giustificano la distanza di prezzo.
Si parte dalla posizione del locale, perché un conto è trovarsi sul lungomare di Forte dei Marmi, altra cosa è una collocazione nel vicolo dei Dispersi a Gioiosa a Mare. Si esamina la qualità degli arredi, delle suppellettili, del tovagliato, della posateria e di quant’altro sia utile e funzionale al servizio, non ultimo ciò che è appeso alle pareti della sala e le luci che la illuminano; una verifica sullo stato della toilette è altrettanto obbligatoria, così come gettare un occhio all’abbigliamento del personale in sala, oltre che alla professionalità.
Ciò premesso, si entra nello specifico del prezzo del vino, chiaramente influenzato dalla sostanza economica di quanto lo attornia, ma che deve trovare l’assunto finale attraverso una rigorosa indagine di tutto quanto gli è connesso.
Partiamo da chi serve il vino: un’elevata professionalità va retribuita a dovere, per cui, se presente, questa diventa un giustificativo del ricarico sul vino. Un elegante e compito sommelier, di nome e di fatto, cioè formatosi in una scuola, e magari anche sorridente, è il massimo.
Continuiamo con la valutazione del valore economico e stilistico dei bicchieri: teniamo in mano un pezzo da 2 euro e spiccioli, pesantino, con lo spessore del vetro che lo fa apparire un po’ opaco, quasi liso, e una base che pare l’àncora di un mercantile di grosso tonnellaggio, o un calice, se non di cristallo sopraffino, almeno di un materiale accettabile, che si aggira sugli 8 euro, con bella forma, linea e un peso da non far venire l’epicondilite? È varia la sequenza dei bicchieri a disposizione? Se si limita a una semplice flûte, poi bianco, rosso e un generico non-so-se-sia-azzeccato per l’eventuale vino dolce, l’analisi entra in un cul de sac molto critico. Un’ampia gamma di calici, oltre alla loro qualità, può diventare un valido e inappuntabile motivo di ricarico sul prezzo del vino.
Infine, il numero delle referenze e le annate a disposizione di quei vini che meritano una sosta in cantina climatizzata e umidificata (che è un bel costo): giù a sfogliare la carta dei vini per inventariare il numero e valutare l’equilibrio delle proposte, se è farina del sacco del locale e non stilata dal rappresentante e/o distributore, se traspare studio, ricerca e una selezione verso alcune tipologie di vino di non largo e standardizzato appeal, e pure se non appaiono i famigerati asterischi di vino mancante: tutti aspetti di professionalità che devono avere una giusta marginalizzazione sul costo finale del prodotto. Da tener presente anche la quantità e la qualità dell’offerta dei distillati e della tipologia dei bicchieri riservati al loro servizio.
Pertanto, prima di giudicare troppo caro un vino proposto in carta, è opportuno evitare una mera quantificazione monetaria dello scarto tra il costo d’acquisto e quello di vendita, e conteggiare invece cosa è inserito in quello scarto, valutando il valore commerciale di ciò che lo compone e la funzionalità allo svolgimento di un servizio professionale del vino.
Con tutte le cautele del caso, spesso è più difficile giustificare il prezzo duplicato di un vino in un ristorante in cui c’è solo il vino e non il suo contorno di servizio, dove il vino appare perché obbligato ad esserci, piuttosto che vederlo triplicato in un locale in cui il vino è accudito e attorniato da una serie di attenzioni che lo fanno apparire un bene messo al punto giusto nel momento giusto. In quest’ultimo caso, il prezzo ha un margine finale inferiore rispetto all’esempio precedente, perché la percentuale del gross profit è stata limata per trattare il cliente e il vino con i guanti.