il pittore delle vigne
Roy Zerbini

Che la vite fosse una pianta diversa dalle altre fu assodato da quando si trasse dai suoi acini un liquido, o meglio una bevanda, chiamata oinos. La scoperta dei poteri di questa pianta fu una predestinazione soprannaturale, un dono selvatico, che richiese l’abilità dell’uomo ad allevarla e ridurla a uno stato di addomesticato, di coltivato. Ancor di più un dono, questa volta pericoloso, risultò il succo spremuto dai suoi grappoli: quel succo - mosto - si dotava di un calore naturale, il denso liquido bolliva spontaneamente nelle vasche, infine divenuto vino andava consumato con assennatezza, al pari delle medicine più efficaci.

Oinos fu quindi un dono preziosissimo e inestimabile, una bevanda da subito essenziale nella civiltà dell’alimentazione e della religiosità sacrificale. Necessitò di un controllo sociale, perché un uso smisurato poteva - e può - trasformarsi in qualcosa di velenoso, come fosse una pozione, un filtro magico, che fa barcollare il fisico, perdere il controllo e smarrire la memoria.

Questo rischio altalenante e ondeggiante connesso all’uso del vino, questa non certezza di conoscenza del confine, oltrepassato il quale non si pensa più come si pensava un attimo prima, tutto ciò divenne narrazione immaginaria, ma non fantastica, e un’occasione per rappresentare la natura legata alla vite, alla lavorazione, alla vendemmia, alla pigiatura e infine alla produzione del mosto. Un siffatto elemento vitale è penetrato immediatamente nelle tensioni iconografiche e i vasi greci ne danno ampia testimonianza, con una proporzionalità naturistica che mette in primo piano l’imponenza e la maestosità della vite, la grande pianta arbustiva cui i gesti del viticoltore tentano di dare una dimensione a misura di uomo. Nelle immagini le esagerate enfatizzazioni della dimensione dei grappoli rispetto alle foglie, e anche rispetto al vendemmiatore, evidenziano la meravigliosità della pianta, tanto da raggiungere una dimensione celestiale, come a sfiorare lo status degli dei.