Clos Montmartre Fulvio Piccinino Montmartre e Pigalle. Due nomi che immediatamente portano alla mente Parigi. Da sempre simboleggiano l’altra faccia della città, alternativa e trasgressiva, da non perdere se si vuole vivere fino in fondo l’esperienza della capitale più visitata al mondo. Entrambi hanno perso l’originalità primordiale, ma mantengono ancora, grazie a chansonnier, artisti di strada e locali storici, una valida testimonianza della Parigi della Belle Époque, quando la città dominava culturalmente l’Europa agli inizi del Novecento. Montmartre, oltre che un laboratorio sociale, è altresì un luogo di interesse per gli enofili perché, a pochi metri dalla basilica del Sacro Cuore, che domina la collina, si scorge, adagiata su un suo fianco, una delle poche vigne di città esistenti al mondo. Questo giardino vitato rappresenta l’ultima piccola testimonianza di una viticoltura ancestrale che in passato occupava ettari di territorio francese a nord di Parigi. La vite fu portata dai Romani a seguito della fondazione di , l’antico nome della capitale, e pure i Galli divennero grandi consumatori di vino, conquistati dalla complessità del nettare di Bacco. Le prime testimonianze certe arrivano nel 944 quando il vigneto fu citato negli annali di Flodoard, poeta e storico, responsabile dell’archivio di Reims, incaricato di rendicontare gli anni fra il 919 e il 966. Ma il salto qualitativo e produttivo si ebbe solo nel XII secolo. Le cronache riferiscono che su questa collina fu edificato, per volere di Adelaide di Savoia, un convento di monache, e fu impiantato un vigneto esposto magnificamente a sud della collina. Se ne ricavava un vino da liturgia rosso, come voleva la tradizione cristiana in quei secoli, di eccellente qualità, tanto che uno degli appezzamenti fu chiamato, nei secoli successivi, “La Goutte d’Or”. Lutetia Su questa collina, estesa ma alta solo centotrenta metri, le notizie storiche narrano che i viticoltori dell’epoca saggiamente misero a dimora a est vitigni bianchi e a sud quelli rossi, per assicurarsi la piena maturazione. La qualità dei vini era sicuramente elevata: ogni anno le badesse dovevano consegnare quattro barili del loro miglior vino per l’anniversario dell’incoronazione. Il clima, insolitamente caldo, permetteva di realizzare vini rossi corposi e bianchi dolci e aciduli anche a queste latitudini. Dal XV al XVII secolo l’Europa fu colpita dalla cosiddetta “piccola glaciazione” con conseguenze drammatiche a livello sociale. Fame e pestilenze tormentarono le popolazioni indebolite dalla carestia, seguita alle difficoltà di coltivazione dei cereali e del foraggio per il bestiame. La gelata che spazzò via definitivamente la viticoltura a nord delle Alpi ebbe luogo nel 1709 e mise la parola fine ai vigneti, progressivamente abbandonati per mancanza di mano d’opera, data l’elevata mortalità. Poche colture si salvarono poco più a sud delle Alpi, ma il clima sfavorevole e la maturazione approssimativa degli acini, che dava vini deboli e troppo acidi, determinarono il successo dei vini provenienti dal caldo e soleggiato bacino del Mediterraneo. Il nuovo scenario sancì la morte commerciale di molti vini e con essi la scomparsa di alcune varietà che si erano dimostrate troppo sensibili alle malattie. Questo cataclisma fu una fortuna per la moderna viticoltura. La vite mutò per adattarsi. Si pensa che molte varietà a bacca rossa, come il pinot, in questo periodo mutarono i geni responsabili del colore divenendo bianchi per avere maggior possibilità di sopravvivenza in un clima rigido. Uno fra tutti, nacque sua maestà lo chardonnay, da un incrocio naturale fra il pinot e il gouais blanc, un vitigno che dava vini poveri e privi di carattere, di cui fu successivamente proibita la coltivazione in tutta la Francia. Con un patrimonio ampelografico da ricostruire e con le esperienze tragiche accumulate si promulgò un editto nel 1731 con il quale, di fatto, si vietava la coltivazione di vitigni dai risultati mediocri e nelle aree poco vocate. La Normandia tramutò l’intero parco vitato in alberi di mele e pere, dando vita all’eccellenza del sidro e del Calvados, mentre Parigi lo sostituì in maggioranza con boschi e spazio vitale per la sua espansione urbanistica. Poco più a nord del parallelo di Parigi sopravvisse solo la Champagne, per via del terreno gessoso che poteva far superare eventuali gelate, e qualche chilometro a sud i vigneti della Loira, grazie al microclima temperato offerto dal grande fiume. Tuttavia la viticoltura non era destinata a soccombere completamente nella capitale. La Parigi medioevale fu completamente rasa al suolo dal 1852 al 1869 e il suo centro ricostruito dall’architetto Haussmann secondo i criteri dell’architettura razionale del periodo. Le case moderne, pulite e funzionali furono abitate dalla nuova ricca borghesia che si andava affermando, mentre gli abitanti originari furono spinti verso le periferie e soprattutto verso la collina di Montmartre. Il versante della collina esposto a nord diventò un’utile cava di gesso per la costruzione. Nel 1860 la collina era ancora al di fuori della cinta daziale parigina e i prezzi del vino erano molto più bassi che nel resto della città, ma il prodotto di quelle vigne era ricordato malignamente in una breve poesiola scurrile che sottolineava le sole proprietà diuretiche. Il destino delle vigne esposte a sud era irrimediabilmente segnato. I prezzi accessibili e la bellissima vista sulla città ne fecero un’area estremamente appetibile per la nuova espansione abitativa. Ai piedi di Montmartre sorse il quartiere dei locali e dei night club, dove i nuovi abitanti della capitale, cresciuta in maniera esponenziale, potevano assistere a spettacoli licenziosi. Nacque così la magica alchimia che sancì il mito di Pigalle. Il tessuto sociale decisamente variegato e spumeggiante contribuì in maniera determinante alla formazione della cosiddetta “Comune di Montmartre”, cui parteciperanno i maggiori artisti del periodo, da Picasso, a Modigliani a Henry de Toulouse-Lautrec. Le case nel frattempo avevano conquistato tutta la collina diventando, oltre che dimora degli artisti, anche l’abitazione di gente povera che qui poteva sostenere un affitto. Il quartiere ebbe anche le sue rock star. Il principale fu Aristide Bruant, amico di Lautrec, che si esibì per lunghi anni allo “Chat Noir” e al “Lapin Agile”, locale simbolo sopravvissuto della Parigi alternativa e la cui insegna continua a specchiarsi sulla vigna di Montmartre. La sua figura è significativa poiché con i proventi delle sue performance acquistò la casa adiacente alla vigna, salvandola dalla rovina. La leggenda narra che questo edificio fosse stato una delle alcove preferite del re, e che qui si incontrasse segretamente con una delle cugine di Adelaide di Savoia, prima badessa del vicino monastero. Oggi il pied-à-terre del re è divenuto la sede del piccolo museo della vigna. Eppure, dopo alcuni anni la magia di Montmartre iniziò a spegnersi lentamente. La Prima guerra mondiale con le sue distruzioni, l’abbandono del quartiere da parte di molti protagonisti, ritiratisi ormai vecchi e stanchi nelle più tranquille campagne adiacenti alla capitale, e il ritorno di altri nella nazione di origine privarono la scena della sua originalità. Venendo a mancare i “guardiani” della vigna, profondamente provata dal passaggio della fillossera, questa scomparve definitivamente nel 1928. I problemi non erano finiti, poiché un ambizioso piano edilizio del comune di Parigi aveva l’obiettivo di riqualificare l’area, determinando la scomparsa delle vecchie abitazioni e di ogni possibilità di ritorno delle viti, ma alcuni abitanti, inguaribili romantici, erano determinati a far rivivere il quartiere e il Clos Montmartre. È il caso di monsieur Poulbot che nel 1929 fondò la Repubblica di Montmartre, fermamente deciso a difendere gli spazi verdi della collina. Bocciato il suo progetto immobiliare, al nostro non rimase che ricorrere a uno stratagemma: lo spazio destinato alla rinascita della vigna fu adibito a parco giochi per i bambini. Privare i piccoli di quest’area avrebbe provocato un’insurrezione popolare in tutto il quartiere e probabilmente nell’intera città. Il periodo piuttosto agitato a livello sociale, con una crisi mondiale alle porte, sconsigliava vivamente ai governanti mosse avventate e impopolari. Sul cancello fu posto un cartello “Parco di Parigi” con tanto di firma del sindaco. Nulla di più falso, a partire dalla millantata inaugurazione con le personalità della città, per dare ulteriore credito alla burla. Nessuno indagò a fondo, nessuno osò toccare lo spazio verde dove i giovani del quartiere giocavano felici. Dopo aver salvato l’area, si decise di passare alla fase successiva, ossia reimpiantare una vigna, cosa che avvenne nel 1933. Una vigna carica di simboli, che voleva riportare alla memoria gli antichi fasti, con un’unica pecca: sarebbe stata necessariamente esposta a nord. Ma questo poco importava ai fondatori della confraternita, i quali caricarono il luogo di simbolismo e orgoglio nazionale. Furono dunque impiantati 1760 ceppi suddivisi fra i 27 vitigni coltivati all’epoca in Francia, con un leggero predominio di pinot nero, gamay e chardonnay per la capacità di resistere meglio al freddo e alla poca insolazione della posizione. Per questo motivo, in tempi recenti si è deciso di aumentare la quota del primo vitigno, per migliorare la qualità del vino, poiché sirah, grenache e carignan, i vitigni tipici della Linguadoca e della Provenza, hanno dimostrato di gradire poco il piovoso clima parigino. La vigna inoltre ha una presenza di eccezione, un biotipo particolare di rosa nota con l’appellativo “di Montmartre”, posta all’inizio di ogni filare allo scopo di segnalare eventuali attacchi di parassiti. Nel 1934 alla prima vendemmia, fatta solo a scopo dimostrativo, assistette anche il Presidente della repubblica, che sancì così la fine delle “ostilità” nei confronti dell’associazione “Vecchia Montmartre”. L’obiettivo era stato raggiunto. Negli anni successivi l’uva raccolta fu venduta a cantine della regione e il ricavato utilizzato per scopi sociali nobili, quali l’acquisto di derrate alimentari per i poveri del quartiere o l’offerta del pranzo di Natale agli anziani del borgo. Nel secondo dopoguerra dopo la vendemmia si spremeva immediatamente il succo dei grappoli, venduto a offerta alle decine di migliaia di persone che assistevano alla festa. Nel 1953 fu presa la decisione di vinificare un prodotto alcolico dalle caratteristiche uniche, se non altro per la variegata presenza di vitigni e per il carico di storia che portavano con sé. Il vino prodotto era posto in vendita a caro prezzo per finanziare nuovamente opere a scopo umanitario e sociale. Nasce così un’associazione di volontari che ogni anno, a gennaio, organizza un pranzo per i poveri e gli anziani nello storico ristorante “Le Moulin de la Galette”, più volte rappresentato da Van Gogh, Picasso e Renoir. Ma questo è nulla di fronte alla festa della vendemmia, la seconda settimana di ottobre, che vede coinvolte cinquecentomila persone. L’uva è trasportata in una cantina di proprietà del comune di Parigi e qui vinificata, ma si vorrebbe in futuro creare una piccola cantina in loco. Il vino rosso ottenuto, di discreta qualità, è venduto all’asta a prezzi oscillanti da 40 a 50 euro per una bottiglia da mezzo litro. Un vino icona non vincolato alle logiche di rapporto qualità/prezzo. Dal 2014 è in commercio solo un rosato, ritenuto dall’enologo più confacente qualitativamente alle caratteristiche della vigna, che continua a donare vini piuttosto acidi. Il vino, al di là delle sue qualità, è il simbolo della vittoria della tenacia, dell’intelligenza dell’uomo e della sua voglia di libertà, concetti che sono molto cari ai francesi, da sempre affezionati alle figure eroiche e controcorrente che la loro storia ha via via sfornato. Un progetto ambizioso, quello della Vigna di Montmartre, una lunga storia fatta di caparbietà che ha avuto fortunatamente un lieto fine. Un sentito grazie all’associazione che ha permesso lo scatto delle fotografie esclusive e il racconto di quanto scritto.