aste del vino
AIS Staff Writer

Nell’ottobre scorso a Hong Kong, mentre gli studenti manifestavano con lo slogan “Occupy Cen- tral with Love and Peace”; mentre ad Admirality (il centro finanziario) si consumava la reazione della polizia, con il mondo incapace di comprendere i motivi della contestazione, consapevole che Hong Kong è Cina, Cina è business, e il timore di un irrigidimento diventa una pericolosa ipotesi; mentre accadeva tutto ciò, nella Hong Kong del lusso, dell’imposizione fiscale quasi inesistente e del libero scambio si teneva un’asta di Sotheby’s con vini di Borgogna, tra cui un lotto di 114 botti- glie di 19 annate, dal 1992 al 2010, di Romanée-Conti (produzione annua meno di 5000 bottiglie). C’erano anche 66 magnum collection di Henri Jayer, battute a 8,2 milioni di dollari (838.000 €), equivalenti a 12.696 € a bottiglia, con costo al calice di 1058 €.

Romanée-Conti è un’azienda avvolta da un alone angelico, ormai un mito, storicamente posseduta per questioni più finanziarie che viticolturali. Henri Jayer, nato a Vosne-Romanée, era invece un vignaiolo duro e puro, “pieno di buon senso paesano e di una modestia leggendaria” (J. Rigaux). Quasi a voler dire che era uno di noi, lui che ha accudito quel vigneto premier cru Cros-Parantoux dal 1945 al 2001, la sua ultima vendemmia. Un vigneto che tutti reputavano incapace di dare del pinot noir accettabile. Ci chiediamo se quel vignaiolo, figlio di coltivatori di uve, aspirasse davvero a diventare un’icona del marketing finanziario del vino, o preferisse essere conosciuto come un al- lattatore di vigne, un purificatore di uva, un dispensatore di segreti enologici, un eno-pediatra della nuova linfa che il pinot nero acquisì con le sue intuizioni. La prima di tutte: non si fa vino senza stare in vigna, o meglio, quando l’uva arriva in cantina, il vino è già fatto. Stentiamo a credere che Henri Jayer si sarebbe sentito gratificato da quest’onda speculativa, movimentata da chi si accaparra i vini non per degustarli, ma per lucrarci: fredda merce di scambio. Intendiamoci, è ormai un trend con molto appeal, che però tra il pubblico vede sempre meno occidentali.

Qual è il significato dell’esplosione monetaria dei vini di Henri Jayer, soprattutto dopo l’ultima vendemmia e poi la morte? Sembra di rivivere le storie di quei pittori che oggi sarebbero dei mi- liardari morti, perché i loro quadri, unici e irripetibili, hanno acquisito valore. Non accade lo stesso per il vino! La vigna è ancora lì, ancora fa maturare gli acini; piuttosto è il vino che, a differenza dei quadri, una volta in bottiglia non può essere restaurato, il suo è un cammino mortale. Il vino è ripetibile e se, come diceva Lorenzo il Magnifico, “di doman non c’è certezza”, si potrebbe anche pensare che un domani quel vino possa essere prodotto con attributi qualitativi migliori.

Quali meccanismi hanno prodotto in pochi anni questo frammento di mercato extralusso? Mec- canismi consumistici? Eno-egocentrici? Eno-effimeri? Di certo i processi agricoli, enologici e di filiera che si applicano per fare una bottiglia di vino non sono in grado di giustificare questi eccessi. Sono sempre esistiti i vini costosi e quelli no, ma il divario non aveva mai raggiunto tali sproporzio- ni: che il vino sia un’opera d’arte alla Van Gogh? Immaginate il vendemmiatore che di buon’ora con guanti, cesoie e paniere si reca nella vigna di Romanée-Conti, ma potrebbe essere Château Mar- gaux o Lafite, o altro, e mentre recide il grappolo, che è già un pezzo di futura arte enologica dal potenziale valore di 400-500 €, con tre cesoiate raggiunge l’importo netto della sua retribuzione mensile. Chissà se gli hanno fornito un vademecum che lo inviti a non mangiarsi alcun chicco d’uva, che vale 0,43 (nel vecchio conio sarebbero 832 lire); per non parlare degli acini che cadono, il cui sobbalzo sul terreno genera fibrillazioni alla borsa di Singapore. Per la cronaca un kg di uva da vigneto grand cru della Côte des Blancs si scambia fino a 6 (dicono sia la più cara), mentre un kg di sangiovese o di nebbiolo per Docg è quotato 2 €.

Più ci pensiamo, più ci convinciamo che il vino non meriti questi eccessi e che parlarne in questi termini possa innescare devianti entusiasmi in chi si affaccia produttivamente nel pianeta vino, mentre annichilisce la quasi totalità dei probabili appassionati e/o degustatori, indotti a credere che non valga la pena interessarsi al vino, essendo quello paradisiaco inavvicinabile.

Non è così! Quei prezzi d’asta non significano certificazione di qualità, non garantiscono che il vino di quella bottiglia sia migliore a tal punto rispetto agli altri da assurgere a elisir enologico. Siamo convinti che Henri Jayer, a suo tempo, e altri vignaioli potatori non la pensino come i signori delle aste. Il valore del vino è la valorizzazione di un sacrificio, è una umanizzazione enologica, non una video-schermata di grafici in un ufficio al 103° piano dell’International Commerce Centre. Il vino è vigna, cantina, bottiglia, osteria, enoteca, ristorante, è contatto tra persone, è condivisione di profumi e sapori, è animata discussione sulla lunghezza del gusto, è imprecare perché quell’ultima bottiglia era “tappata”; non è certo alzare la mano per aggiudicarsi il lotto fingendo che i rialzi siano immuni da artifizi.

Il vino è materia che vive, il suo valore economico può azzerarsi molto più velocemente dell’ul- timo respiro dell’ossidazione. Non sappiamo a chi facciano gioco le impennate nei prezzi e non ci interessa saperlo. Non vogliamo fare una crociata, forse il fenomeno così come è apparso si stempererà; di certo, gli eccessi di prezzo non salvaguardano la mortalità del vino, che potrebbe salutare il compratore con un bel morituri te salutant.