Marsala, la grande madre Armando Castagno Aveva ragione Gio Ponti: il colore è difficile per i deboli. E io mi sento messo a dura prova già scendendo la scaletta dell’aereo nell’ultimo lembo occidentale della Sicilia. Effettivamente c’è una luce drammatica, che sfregia gli occhi: mi infilo gli occhiali da sole e mi godo meglio l’impeto, anche lui difficile da reggere, di questi colori puri, il blu che sfolgora in un cielo sterminato, il riverbero del sole che sfavilla a filo del mare, il bianco lindo delle piramidi di sale sullo Stagnone, tanto abbacinante che dei lavoranti ricorderò una volta tornato solo le sagome, stagliate sull’acquitrino, tra i mulini. Le costruzioni antiche sono di un giallo chiaro che pare oro, così le alte mura dietro cui svettano chiome di palme, le porte antiche e gli argini, le ville abbandonate, i fianchi, ruvidi, degli stabilimenti ottocenteschi lungo il porto antico. Qui, una bandierina di plastica con la Trinacria sbatte nel vento mentre l’odore di laguna mi si incunea nel naso. Chiedo a Renato di fermarsi per poter guardare da vicino i moli deserti protendersi verso il mare come braccia squadrate. E così scendo, e guardo; ma qui non attraccano navi da generazioni, e non ne transitano, se non al largo; navi che se pure avessero gli occhi non guarderebbero verso di me; i brigantini, le golette, gli schooner in arrivo di un tempo, pronti al carico del vino alla volta di regni distanti, sono oggi minimi punti persi nell’azzurro, impassibili nell’inchiodare questo luogo e chi lo abita alla semplice e terribile verità che tutto è cambiato a Marsala, e ciò che è stato non ritorna. Senso di marcia La storia del Marsala è nota e agevole da reperire e ripassare: inutile ripeterla in questa sede. Piuttosto, forse, è interessante osservarne la vicenda da una prospettiva diversa. Partire cioè dal 1773, l’anno della prima spedizione di John Woodhouse, quello quindi della pretesa nascita del Marsala, e anziché verso i giorni nostri, in uno sgranarsi tra l’esaltante e il pietoso di eventi fausti e crisi nere, sotterfugi e colpi di genio, boom commerciali, epiche individualità e astuti faccendieri, anziché in questo senso, dicevamo, procedere dal 1773 . Partendo da alcuni punti fermi, incontrovertibili. Il primo, e fondamentale, è che quando gli inglesi sono arrivati a Marsala si sono imbattuti in un vino certamente già ottimo per qualità, prodotto da tempi immemorabili; Pieter Paul Rubens (1577-1640) ne aveva fatto abbondante scorta dopo un viaggio effettuato probabilmente nel 1606. Altri dati vanno considerati: che esiste una tradizione in alcune famiglie della zona comprendente protocolli produttivi, come il ; che il patrimonio ampelografico marsalese preesiste a sua volta di secoli agli inglesi ed è più o meno ancora lì, anche se ne è mutata la gerarchia interna e nuove varietà vi si sono aggiunte; che il terroir è pressoché incontaminato, e con lui la vocazione a produrre vini con caratteri forti e puntuale evocazione degli elementi di territorio, cioè terra, vento, sole e sale; che infine la geografia enologica dei luoghi, con la messa a fuoco delle quattro o cinque aree di accertata vocazione per il vino “di partenza”, è inesistente sulle etichette dei Marsala di oggi, ma è ben presente nella memoria di chi i luoghi stessi li abita e li lavora, e sa quale diversa qualità di vino può venir fuori da Birgi, dalla Spagnola, da Biésina o da Triglia. all’indietro tuttora viva perpetuo non fortificati La nostra convinzione è che il Marsala non andrebbe percepito come un vino inglese, come capita di leggere o ascoltare, ma come un vino marsalese, che - e su questo siamo d’accordo - ha conosciuto fama mondiale grazie agli inglesi nello stile da essi adottato per la sua diffusione. E che in futuro l’interesse sul Marsala come prodotto fortificato debba essere quantomeno pareggiato dall’interesse attorno al vino di base, riagganciando entrambi al luogo di produzione e rinunciando a ritenere questa grande madre del vino italiano come un prodotto tecnico, quando non come, fa impressione persino scriverlo, un ingrediente di cucina. Di tutte le sorti che potevano toccare al Marsala, pre- o post-inglese, quest’ultima è la più miserabile, ha strascichi ancora adesso nel pensiero comune e nella struttura commerciale (cliente fondamentale essendo ancora oggi la Simmenthal), e va combattuta con veemenza nell’informazione di settore, come un atto di giustizia e un dovere risarcitorio. Torniamo dunque a pensare come Benjamin Ingham nel 1822: “la zona di produzione” scriveva “è di importanza fondamentale, con le sue proprie e diverse condizioni pedoclimatiche” (in Nicola Trapani, Marsala: storia, tradizioni e tecnica, Enovitis, Marsala 2011, p. 246). Il territorio, sopra Il disciplinare vigente prevede come zona di produzione delle uve destinate alla preparazione del Marsala l’intera provincia di Trapani, esclusi il comune di Alcamo, interessato da Doc specifica, l’isola di Pantelleria e le Egadi. È un areale vasto, eppure la legge del 1984 che ne ha ridisegnato i confini (la numero 851) lo ha fatto , escludendo una cospicua parte della provincia di Palermo e la parte nordoccidentale di quella di Agrigento. Ciò che resta ha radici storiche sicure, per il Marsala. Oggi la “base” per la produzione proviene in gran parte dalle cantine sociali, ma ai tempi di John Woodhouse I, Benjamin Ingham e Vincenzo Florio, cioè tra il 1773 e il 1860 circa, il vino da trasformare nel Marsala era molto diverso, certamente migliore; proveniva dai vigneti dell’entroterra, la schiacciante maggioranza dei quali erano situati entro un rombo con i centri di Calatafimi (a nord), Marsala (a ovest), Campobello di Mazara (a sud) e Poggioreale (a est, dove sorgeva il paese antico, annichilito dal terremoto del Belice del 1968) come spigoli. All’interno di questa zona erano in piena attività i , almeno duecento alla metà dell’Ottocento, molti dei quali, ridotti oggi a malinconici ruderi, sono visitabili, avendo cura di non sfidare, penetrando all’interno, la loro lampante precarietà statica. Il baglio rurale (dall’arabo , cortile) era il centro, diremmo oggi, del latifondo feudale. Era un complesso di edifici, talvolta svettante sulla campagna nel cuore delle proprietà nobiliari, in cui venivano convogliati, raccolti, lavorati e conservati i prodotti dell’agricoltura. I bagli vinicoli erano una minoranza, ma non c’era famiglia importante che non ne avesse uno: Montalto-Spanò, Spanò-Caracciolo, Fici, D’Anna, Genna, Barbarà, Anca Omodei, Catalano, tante altre, e ovviamente dal 1773 in poi anche Woodhouse, che ne costruì cinque. Spesso, per i problemi legati al brigantaggio, queste strutture erano fortificate e predisposte alla difesa con vari accorgimenti, come le feritoie nascoste in cui infilare armi da fuoco. La campana della chiesetta, immancabile nel baglio, segnava l’inizio e la fine dei lavori per sottrazione bagli ba’as logistico quotidiani. Le estensioni di terra il cui prodotto perveniva al baglio erano grandi, talvolta colossali: Benedetto Genna, la cui famiglia aveva la contrada Biésina come quartier generale, a inizio Novecento possedeva qualcosa come 23.000 ettari di terra. Le unità di misura fondiaria che trovò Woodhouse, tuttavia, non erano certo quelle del Sistema Metrico Decimale che abbiamo appena utilizzato: erano invece - e per molti lo sono ancora oggi - i tumuli ( ) e le salme ( ). I due termini, di plateale derivazione funeraria, intendevano in origine legare il valore di una proprietà fondiaria a quello di una tomba, in una visione disincantata e arcaica. tùmminu sàrma Il , nel marsalese, equivale a 1.091 metri quadrati; la salma a 16 tumuli, circa 1,75 ettari. La è più grande del tumulo perché evocava un morto illustre, mentre il tumulo era percepito come la generica copertura di un cadavere. Addirittura esisteva un sottoinsieme del tumulo, il suo sedicesimo (circa 68 m ) che si chiamava : in dialetto siciliano, il teschio. L’idea che un teschio valesse meno di un tumulo e assai meno di una salma è confermata dalla trasformazione che la crozza agraria ebbe nei secoli a venire: i vecchi tuttora chiamano così la parcella di terreno non dissodato, privo di colture e di pregio. tumulo salma 2 crozza Altro fattore variato in modo consistente è la base ampelografica; escludendo la tipologia Rubino, cui si fatica oggi a trovare un senso in generale e che ne ha ancor meno come per il Port Ruby, restano le quattro uve bianche ammesse, grillo, inzolia, catarratto e damaschino. Quest’ultima cultivar risulta assente dai vigneti locali prima della fillossera, e comunque è stata sdoganata nella Doc solo dopo le modifiche del 1984. Grillo, catarratto (non tutti i cloni, però) e inzolia sono divisi da un abisso filosofico. La preferenza per il secondo e la terza e la ricusazione del grillo, coincidenti guarda caso con il declino del Marsala, hanno una spiegazione banale. Sono uve generose, soprattutto il catarratto, si prestano a produzioni abbondanti e forniscono un vino finale che si può condurre, mediante scelte vendemmiali, a grado alcolico attorno ai minimi del disciplinare (12%). Siccome costa assai meno arrivare ai 17,5-18% vol. del Marsala finito piuttosto che spingendo la pianta a produzioni di elevata alcolicità, per il grillo non c’era speranza. Quest’ultima è infatti la varietà di gran lunga più qualitativa e insieme più fragile della Sicilia Occidentale, dona vini “base” per il Marsala di generosa potenza e ricchissimi di aromi e precursori aromatici (basta assaggiarne le versioni “ordinarie”) e tende quindi a legare il Marsala al territorio di origine a triplo filo, dato che l’incidenza della fortificazione risulta, percentualmente, modesta. competitor aggiungendo alcol È intuitivo che un conto è un Marsala da 18 gradi alcolici di cui 12 conferiti dalle uve e ben 6 aggiunti - e hai voglia allora di straparlare di “legame con il territorio” - e un altro è godersi un Marsala da uve di grillo, o inzolia, capaci magari del 17% di alcol, con fortificazione dell’1-2%. Nel primo caso si è di fronte a un prodotto che, con i cambiamenti climatici degli ultimi due decenni, si può tranquillamente ottenere già oggi in Inghilterra o in Olanda; nel secondo, si ha a che fare con uno dei più straordinari vini mondiali, che proprio nulla ha da invidiare ai grandi Madeira o ai migliori Jerez, sotto nessun profilo che ci venga in mente. Il territorio, sotto La campagna punteggiata di bagli presenta, nel quadrilatero che s’è detto, matrici geologiche diverse; come comprensibile, la geologia contadina ha altri parametri che quella ufficiale. Quest’ultima si basa sulla matrice del sottosuolo, e nel distretto tende a isolare, con disegno concentrico, tre formazioni: vaste formazioni di nella zona costiera (brecce del Pliocene superiore, età meno di 3 milioni di anni), banchi di (Pliocene inferiore, 5 milioni di anni circa) ed enormi banchi interni di silicee e ferruginose (Eocene medio, età 40 milioni di anni). I contadini, da sempre, guardano la superficie, la coltivabilità e la facilità di conduzione, e parlano a loro volta di à (la breccia conchigliare) è (le calcareniti) e semplicemente (le argille ferruginose), magari raddoppiando la “r” di rosse. tufo conchigliare calcarenite e sabbie argille e arenarie sciasci cu agghiar dda terre rosse Come accennato, la vocazione delle contrade migliori alla produzione di vino di ottima qualità è accertata da ben prima che qui giungessero Woodhouse e Ingham. I cinque “grand cru” del Marsala storico si chiamano Birgi, Spagnola, Triglia, Petrosino e Biésina, cui possono essere aggiunte, per costanza di attestazioni nei testi agricoli, le contrade Fornara-Samperi, Baronazzo, Amafi, Rakalìa, Falconiera, Digerbato, Ciàvolo, Rinazzo, Pozzillo, Santi Filippo e Giacomo, Zaffarana, e l’elenco potrebbe continuare. Nomi che oggi in ambito enoico non significano nulla (tranne “Samperi”), ma che un tempo erano famosi proprio per il vino che ne veniva. Birgi e Spagnola costituiscono i luoghi eletti della costa marsalese a nord della città. Birgi è oggi una frazione di Marsala, subito a sud dell’aeroporto trapanese intitolato a Vincenzo Florio; ha diverse contrade al suo interno; da , , come da e doveva arrivare uno dei vini di maggiore potenza alcolica e aromatica da prima dei tempi di Woodhouse. La contrada Spagnola, altra storica origine di vini eccezionali, è oggi un agglomerato urbano tra Birgi e la città di Marsala, proprio nella zona delle Saline. A sud di Marsala, ecco Triglia e Petrosino, altri “cru” costieri. Petrosino fa comune a sé dal 1980, e il suo caso è diverso; fu proprio Woodhouse a promuoverne la coltivazione intensiva (1777) dopo secoli di sostanziale abbandono; lo stemma del paese è il portone del Baglio Woodhouse. Il vino ottenuto qui, da vigne battute dai venti africani e martoriate dalla salsedine, doveva essere ardente, alcolico, e si dice che in certi anni non necessitasse di fortificazione alcuna nemmeno da parte dei . Più lunga tradizione vinicola su esiti probabilmente simili ha, nelle vicinanze, la contrada Triglia, oggi in comune di Petrosino, appena più interna e quindi più difesa dal “salso” del mare. Infine, Biésina, con le sue frescure notturne, la quota altimetrica più alta, la forte ventosità e la straordinaria insolazione, che può rappresentare anche le altre grandi contrade di un tempo ubicate nell’entroterra tra Marsala e Salemi, nel panorama costellato di bagli agricoli. Birgi Novi Birgi Vecchi Nivarolo San Teodoro marsalisti Problemi di metodo L’idea che ci siamo fatti a forza di domandare, ascoltare, assaggiare e leggere, è che il vino di Marsala precedente l’arrivo degli inglesi doveva essere, in una parola, . Non è termine tecnico, ma speriamo renda. Era prodotto per uso privato, le mense dei nobili e le case dei contadini, attraverso un sistema locale molto antico, il . Si prelevava periodicamente una quantità di vino dalle grandi (o piccole, o piccolissime, nelle case dei coloni) botti di invecchiamento (“per nessun motivo più della metà”, ammoniva Benjamin Ingham), e contestualmente se ne versava nella botte scolmata una misura di vino giovane sufficiente a compensare il prelievo appena operato per il consumo e l’evaporazione naturale (che toccava il 15% annuo). Il sistema manteneva il livello del vino sempre stabile nei decenni, un’età media costante al prodotto presente nella botte, caratteristiche organolettiche omogenee, e si poteva replicare all’infinito - in alcune famiglie si fa ancora, e la botte si lascia al primogenito. Il metodo “Soleras”, a file sovrapposte ( ) di fusti di legno collegati tra loro da tubicini, in voga in Spagna sin da tempi remoti, a Marsala non si era visto prima degli inglesi; il suo funzionamento è noto. Come per tutti i vini italiani a denominazione di origine, i vasi vinari di maturazione sono soggetti a controllo stretto delle quantità presenti e di eventuali aggiunte o sottrazioni è necessario tenere aggiornati appositi registri. Appare azzardato sostenere, come si legge spesso, che il Marsala sia “sovente ottenuto da metodo Soleras”, oltretutto alieno alla storia della tipologia e rimasto sempre confinato a una esigua quantità di vino e a pochissime aziende; il nome si può - vedi disciplinare - usare al posto o accanto al nome “Vergine”, ed è del tutto svuotato di significato, visto che non implica nel modo più assoluto l’adozione del metodo produttivo reso celebre dallo Jerez. Ugualmente, semplici nomi privi di normativa si rivelano le quattro sigle di alcuni prodotti ottocenteschi, oggi liberamente utilizzabili, cioè l’I.P. (Italia Particolare), per il semplice Marsala Fine, il G.D. (Garibaldi Dolce), per il quale non si richiede altro che il Marsala sia un normale Superiore Dolce (cioè con almeno il 10% di zucchero residuo, 18 gradi alcolici e 2 anni di invecchiamento minimo), il S.O.M. (Superior Old Marsala) e l’L.P. (London Particular, o “Inghilterra”) per cui è solo necessario che il Marsala sia classificato “Superiore”. Già che c’era, il legislatore avrebbe potuto sdoganare altre sigle arcane di un tempo, quali O.P. (Old Particular), C.O.M. (Choice Old Marsala), G.F. (Garibaldi Finissimo), P.G. (Particular Genuin), P.D. (Pale Dry), I.M. (Italian Marsala), E.D. (Erice Dolce), e ancora “Parigi”, “Trinacria”, “Stromboli”, “Margherita”, “Rex”, “Vino delle Dame”, “Corona” e persino “Igienico”. Se non altro, le sigle identificavano, non senza un poco di poesia a guardarle oggi, ipotesi di vero Marsala; erano certamente meno perniciose delle tipologie “all’uovo”, “alla mandorla”, “alla fragola”, “crema banana” o “crema limone”. Quasi sempre, queste ultime, sconcezze ineffabili, capaci di tirar giù in una ventina d’anni, senza apparente sforzo, un edificio glorioso come il Marsala, creato pietra su pietra e botte dopo botte in cinque secoli da una moltitudine di grandi artigiani e uomini di genio, oltre che da generazioni di schiene e di braccia. molto buono perpetuo escalas mai Domani Il futuro del Marsala, oggi molto incerto, dati alla mano, è forse ancorato a una ennesima, ma stavolta radicale, revisione del disciplinare, a un ripensamento generale del vino che torni a giustificarne il legame con il luogo di cui porta il nome e al contempo ne disconosca gli ultimi quarant’anni di produzione e ne scoraggi la fabbricazione industriale, indiscriminata e qualitativamente meschina. Il Marsala merita altro. A modesto avviso di chi scrive, il Marsala Fine e il Marsala Ambra (in cui al si rimette il ruolo che dovrebbe pertenere al , cioè la formazione di una sensazione ossidativa visiva e aromatica) andrebbero cancellati d’imperio come tipologie e se proprio si vuole confinati ad apposita denominazione di ricaduta con nome diverso. Il Marsala Superiore, il Superiore Riserva, il Vergine e il Vergine Riserva dovrebbero derivare da uve di partenza - dalle quali andrebbe eliminato il damaschino e ridotto a un massimo del 30% il catarratto - di tenore alcolico minimo pari a 14% almeno, se non a 15%. Ci piacerebbe non leggere più la parola “Soleras” sulle etichette del Marsala Vergine, sublime gioiello da tutelare con ogni mezzo e per il quale proporre la qualifica di vino Docg; e sarebbe meraviglioso consentire l’ingresso in etichetta di menzioni geografiche nel caso in cui le uve arrivino interamente da zone storiche accortamente delimitate. Sarebbe necessario trovare la maniera di regolamentare, nel senso di e l’indicazione dei millesimi in etichetta, così come fanno a Jerez e a Madeira (non è l’indicazione “Boal”, “Sercial” o “Malmsey” a fare la leggenda del Madeira e delle Soleras di Jerez, sono piuttosto le scrittine sottostanti in numeri arabi: “1793”, “1878”, “1895”, “1907”…), e di conseguenza l’autolesionistica indicazione “20 anni”, “10 anni” o “5 anni”, che resta lì anche quando gli anni passano e il vino entro le bottiglie ne ha molti di più e di conseguenza, essendo un Marsala, di più. Infine, è fondamentale che si ponga mano a provvedimenti che stimolino i giovani al recupero di terreni di proprietà pubblica per riconvertirli al vigneto per la produzione del Marsala, ad esempio attraverso contratti di affitto a tariffa agevolata e progressiva, nonché, se del caso, a una regolamentazione derogatoria ed eccezionale sui relativi diritti di caramello tempo enfatizzare incoraggiare scoraggiare vale reimpianto. Introduzione alla degustazione Il tentativo di indagare il Marsala di stile pre-inglese ha una tappa obbligata: la cantina di Marco De Bartoli (1945-2006), ora portata avanti dai figli Giuseppina e Renato, in contrada Samperi, nell’entroterra marsalese a tre chilometri dal mare. Una parte dell’appezzamento, la Fossa di Samperi, ospita molto probabilmente la vigna italiana a più bassa quota altimetrica (-6 metri slm); il resto è appena sopra il livello marino, su un grande banco di calcarenite e sabbia fine, stracolmo di conchiglie e di fossili. L’azienda non produce che Marsala Oro e non utilizza che uve grillo; è diventata celebre quando Marco, nel 1980, lanciò un prodotto che, nonostante il nome, sembrava e invece era più degli altri nell’anima, più filologicamente attendibile, il Vecchio Samperi. Questo vino era nient’altro che il Perpetuo della tradizione, non fortificato e quindi fuori disciplinare; parallelamente a quanto fece Marco De Bartoli, viaggiando per l’Italia sulla sua vecchia Citroën, il Vecchio Samperi si mise di traverso rispetto alle produzioni industriali già allora imperanti. Trattavasi, se ci passate il termine, di una specie di tracciante luminoso che, sparato idealmente a metà Settecento o persino prima, a un certo punto esplose nel cielo di quegli anni. Lo capirono in pochi, questo messaggio colto e antico insieme. Ma per quei pochi, l’idea del Marsala come vino di Marsala e non come prodotto lavorato si fece strada. Intanto Marco, che nel 1980 aveva trentacinque anni, aveva cominciato a battere il territorio alla ricerca di antichi Perpetui, di una radice, qualcosa di simile a una memoria del luogo in formato liquido. nuovo vecchio Quelli contrassegnati dall’indicazione “Vino Perpetuo” erano contenuti in botti, spesso dimenticate o lasciate nei bagli dismessi e riacquistate da Marco a piccoli lotti dagli eredi, spesso a costo di infilarsi in mezzo a bufere familiari, a successioni difficili, a pareri contrastanti tra gli eredi; e infine imbottigliate e conservate in cantina, senza etichetta se non l’indicazione di un millesimo, presumibilmente quello della più recente aggiunta al Perpetuo. Sono vini ovviamente non commerciabili, di estrema rarità, qualità, come leggerete, dall’ottimo all’eccezionale, al delirante. Dove non specificato diversamente, i vini degustati appartengono tutti alla categoria “Semisecco” così come delineata dal disciplinare del Marsala (zuccheri residui tra i 40 e i 100 grammi/litro). La degustazione è avvenuta in più riprese e spesso con assaggi doppi e in un paio di casi tripli. Le annate di “Riserva Privata” tra il 1941 e il 1903 sono state degustate in contrada Samperi nel settembre del 2014. Nella degustazione che segue, non troverete tutti vini prodotti da lui, ma anzitutto . vini di Marsala Ringraziamenti L’autore intende qui ringraziare la famiglia De Bartoli e in particolare Giuseppina e Renato, per la premurosa accoglienza in azienda; grazie anche a Marilena Leta, Michele Miceli, Francesco Intorcia e Domenico Trapani per le fotografie, le opinioni, le parole, il tempo donato, il coraggio, l’amicizia. 2005 Marsala Superiore Oro 5 Anni Vigna La Miccia (2005) Dall’omonima vigna in contrada Samperi; il millesimo denuncia il superiore pregio rispetto alla tipologia dichiarata (Cinque Anni). Vinificato in solo acciaio, ha sostato 48 mesi in barrique e 6 mesi in bottiglia. Di un color topazio lucente, ha naso fine e dettagliato, sobrio nella nota alcolica: cenni inizialmente piccanti di rafano verde ne introducono di pasta reale, orzo, agrumi, papaya, tabacco fermentato, e un tocco di trementina appena accennato; in bocca la sua liquorosa avvolgenza scalda, ma non brucia, ha continuità e vigore, e chiude su sentori eterei e iodati tra tocchi balsamici e agrumati. Ipotesi di Marsala goloso e fresco, ma non per questo meno promettente in vista di una sua futura evoluzione. 1993 Marsala Superiore Riserva 10 Anni (1993) Altro che “dieci anni”: al momento della degustazione ne aveva più di 21. È un Semisecco da 55 g/l circa di zuccheri residui e quasi 8 g/l di acidità totale. Dopo la voce sopranile della “Miccia”, arriva la sua, baritonale: una nota agrumata molto scura (bergamotto, tamarindo) apre un profilo tenebroso e ossidativo, anche lui di un certo fascino sebbene grasso e magmatico. Descrittori utilizzabili per il bouquet: succo di albicocca, legna umida, il sottobosco autunnale con funghi, felce e corteccia, e forse fico secco e marron glacé. Al palato è denso e salino, dirompente nell’occupazione della bocca, lunghissimo in persistenza, nella quale tornano note boschive e terrose, e si affacciano ricordi di cioccolato, più dolci e maturi. 1987 Marsala Superiore Oro Riserva 1987 Vino geniale: risolta in qualche minuto una nota “umami” (glutammato, in pratica), rovescia di prepotenza nella sala di degustazione un profumo di fiore di sambuco che ricorda addirittura quello di certi Sauvignon blanc; con l’aerazione porge profili ulteriori, una leggera smaltatura, un côté fungino, una sfumatura di kumquat, una di semi di lino, e su questa via si apre in una mezz’ora a una freschezza e a una respirabilità imprevedibili, fino a ricordare l’ananas e la pesca sciroppati; prima di concedersi una lussuosa uscita, calda ed eterea, pare attraversi una stalattite di sale, trovando così una purezza splendente ad onta dell’alcolicità (19%). Ha una scintilla di follia, non c’è dubbio; ma rappresenta uno spot a favore della varietà del Marsala, e del suo ineluttabile legame con il vino e la terra di origine qualora prodotto con criterio. 1986 Marsala Superiore Oro Riserva 1986 Il confronto con il vino precedente è impressionante, specie per chi pensa ai Marsala come a vini “tutti uguali”. Dopo i fuochi d’artificio e l’emotività del 1987, ecco dunque arrivare la salda sicurezza del 1986, senz’altro più “classico” ma anche, forse, più prevedibile. L’attacco è morbido e persino dolce, a sottolineare la distanza dall’estroso precedente: nuance olfattive di dattero, miele di erica, colla vinilica, e ancora liquore al caffè, crema pasticciera e buccia di limone introducono un sorso vasto ed emolliente, materico, denso lungo il lento sviluppo, rischiarato infine da una sapidità che ne agevola la beva e chiude su un che di salmastro, proprio un indizio, sussurrato eppure molto nitido. 1960 Vino Perpetuo di Marsala, Riserva personale, 1960 (non in commercio) Non è solo un cospicuo salto all’indietro nel tempo; è un gran salto laterale nello stile. In effetti, la silhouette aromatica cambia radicalmente; qualche iniziale “impuntatura” lascia presto spazio a un insieme maturo ma poco o nulla fruttato, assai più netto; scotch da pacchi, anice, un che di uva passa, intensa nota di cappero e acqua salmastra, ginseng, qualche accenno di corteccia; è vino oltretutto capace di cambiare almeno tre o quattro volte in una quarantina di minuti, con l’emersione di note resinose e muschiate, di tabacco e, alla fine, di buccia di cedro. L’assaggio enfatizza il ruolo della fortificazione e il lavoro del tempo: l’alcol è una sorta di vampa al fosforo che tiene desto quasi a forza il vino sottostante, mentre in uscita tornano le note salmastre percepite dal naso, e infine dilaga incontrastata l’acidità volatile con le sue note fermentative di fruttaio e la sua puntuta aggressività. 1958 Vino Perpetuo di Marsala, Riserva personale, 1958 (non in commercio) Buon colore arancio chiaro, ma meno luminoso di altre annate. Il naso parte al rallentatore, bloccato su una nota tra l’albicocca disidratata e l’alcol per un tempo non brevissimo; poi filtrano sensazioni più variegate, henné, orzo, cera d’api, uva sultanina, metallo saldato, maraschino e cappero; un insieme di buona, sebbene non sconvolgente, varietà, che trova conferma al sorso, a nostro parere statico, un po’ vuoto a centro bocca e quasi compiaciuto verso l’epilogo, pungente di spezie, acido volatile e alcol. La scodata finale è su sensazioni cerealicole da distillato. Comportamento virtualmente identico in una bottiglia che avevamo assaggiato qualche mese prima e proveniente dalla stessa catasta. 1955 Vino Perpetuo di Marsala, Riserva personale, 1955 (non in commercio) Vino secco, ottenuto – come chiarito in premessa – da un “perpetuo”, con il 1955 come ultimo millesimo aggiunto. Color ambra trasparente dai mille riflessi e stordente naso di pappa reale, olio di mandorla, carruba, cannella, liquirizia, henné, e soprattutto con una sconcertante incisività minerale e speziata, su note di idrocarburo e cardamomo. Bocca ampia, integra, più indietro del bouquet nell’evoluzione ossidativa e superbamente composta, dove infiltranti note salmastre e gessose preludono a un finale nel quale la speziatura e le note di sigaro prendono il sopravvento. Profilo generale altero e austero insieme, di certo il più concretamente minerale dell’intera degustazione, statuario e solenne; difficile che un carro armato simile possa perdere mordente prima di un mezzo secolo almeno di ulteriore affinamento. 1949 Vino Perpetuo di Marsala, Riserva personale, 1949 (non in commercio) Profuma come immaginiamo profumassero – o “odorassero”, per meglio dire – le navi da carico del Marsala di inizio Ottocento. Agrume, sì, buccia di cedro e foglia di limone in particolare, ma anche una stiva piena: humus, salsedine, alghe, legna umida, caffè, e ancora tabacco biondo, muschio, muffa e polvere; profilo di eccezionale capacità evocativa per cui confessiamo di non saper trovare descrittori convincenti. Bocca vasta, diffusa, di grande veemenza alcolica e stratificata di aromi, infervorata in fondo per via dell’alcol, e salatissima; una persistenza che ci pare insensato valutare in secondi perché, non assaggiando altro a seguire, si è destinati a passare la nottata in compagnia del suo caratteriale sapore. 1945 Vino Perpetuo di Marsala, Riserva personale, 1945 (non in commercio) Tre assaggi a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro di questo antico Perpetuo dal Baglio Angileri; unico vino della verticale che presenti discrepanza rilevante tra i profili olfattivo e gustativo. Tanto impreciso è il primo, uno strampalato caos di aromi (frutta ammaccata, aspic di carne, datteri, cappero, miele di melata, manna, pneumatico) quanto rabbiosa e coesa è la dinamica del suo sapore, generoso nell’alcol ma ruvido come avesse ancora da svolgere del tannino, enorme per dimensione e respiro, spietato in persistenza. Due note finali di servizio per i colleghi sommelier che dovessero procedere: uno, il 1945 ha molto fondo, purtroppo; in tutte le bottiglie residue, valuteremmo la quantità di liquido da sacrificare nell’ordine del 25- 30% almeno. Due, la 1945 è più labile di altre annate allo scuotimento da trasporto; massima cautela dunque, o si intorbidirà perdendo focalizzazione e leggibilità. 1941 Vino Perpetuo di Marsala, Riserva personale, 1941 (non in commercio) Colore ambra acceso e netti, per quanto eccentrici, riflessi verde petrolio. Un impressionante panorama marino si squaderna nel bouquet sin da subito, fatto di acqua ferma, salsedine e cozze; poi calcare, agrumi e saggina, e ancora noci, caffè verde e liquirizia, un che di terroso e un’idea maltata. Al sorso ha un’asciuttezza regale, nessuna fretta nello sviluppo, una delicatezza toccante nel porgere e distribuire le poche risorse di morbidezza che gli sono rimaste, e un lirico, meraviglioso gradiente di sfumature nel lunghissimo epilogo, riverberato in una freschezza che sembra palpitare. Sorprendente, carismatico e monumentale come quasi tutti i Marsala “di guerra” che ci sia capitato di assaggiare; esito senza mezzi termini tra i più travolgenti della verticale. 1935 Vino Perpetuo di Marsala, Riserva personale, 1935 (non in commercio) Arancio netto, trasparente; bagliori color mogano. A tutta prima, il profumo sgomenta, rammentando in modo inequivoco l’aromaticità dei vecchi Pinot noir di Borgogna, per poi liberare nuance mediterranee più attendibili di ginepro, finocchietto, pomodoro secco, caffè tostato e angostura, e a seguire gli oli essenziali di mandorla, la noce e la pasta sfoglia, la lavanda e il tè rosso, il tutto in un abbraccio alcolico ed etereo. Anche all’assaggio il 1935 ha qualcosa di soave; il suo sviluppo punta sulla tonicità estrattiva che ancora esibisce più che sulla grinta, sulla dovizia di morbide sfumature mielate e mature più che sulla tensione; chiude languido, foderando le guance di un sapore mellito. Differisce in modo sostanziale dal 1941, essendo più voluminoso e lussuoso, forse con un tocco in meno di esuberanza vitale per via di uno stato evolutivo più avanzato. 1922 Vino Perpetuo di Marsala, Riserva personale, 1922 (non in commercio) Tra l’arancio e il vermiglione lucente, leggero e trasparente. Il bouquet, eterogeneo, riepiloga e riassume in sé i due campioni assaggiati in precedenza (1935 e 1941) e ha preso il meglio da ciascuno; ha la verve agrumata, fresca e volatile del primo e la matura forza d’urto del secondo, per un insieme arduo da descrivere (dovendo provarci: caramella d’orzo, metallo, salgemma, propoli e albicocca) e di convincente mobilità nell’ora circa che è rimasto nel bicchiere. Al sorso è vasto, ardente, estroflesso, viene da dire “guascone” nell’irruente ingresso; la sua parte migliore è la complessità aromatica, che arriva a qualificare l’epilogo dopo svolgimento ricco di minuzie e innervato da un’acidità – passateci il termine – singolarmente complessa, frutto ormai di una stratificazione di acidi diversi e non solo del tartarico. Ciò che scende nel calice oggi dalla vecchissima bottiglia non somiglia ad alcun vino che ricordiamo di avere mai assaggiato nella categoria. È grande e rarissimo, per la sostanziale estinzione delle bottiglie, già poche in partenza; tuttavia, capitasse di incrociarlo ancora sigillato (ceralacca rossa), vale più o meno un assegno in bianco. E se servisse una colletta, contateci. 1903 Vino Perpetuo di Marsala, Riserva personale, 1903 (non in commercio) Colore arancio con riflessi mattone, perfettamente trasparente. Il bouquet ha un fare inconsueto; inaugurato da una caldana di alcol e da un’affumicatura da camino spento, svolge poi un tema tutto sommato ordinario e consolante, costruito su note classiche per i vecchi vini fortificati, dalla noce alla liquirizia, al dattero, al miele di eucalipto, poi lichene e rabarbaro, vinile e nocciolo di albicocca, salina e fichi al forno. Dopo circa mezz’ora nel calice, tende però a sedersi sulle note fruttate e fermentative, le meno interessanti. L’assaggio lo trova pienamente compiuto; la tessitura è setosa, acquisito l’equilibrio generale, intensamente speziato il retrolfatto; concede infine un riverbero alcolico e un tocco marino di innegabile charme. 1901 Vino Perpetuo di Marsala, Riserva personale, 1901 (non in commercio) Circa 45 grammi di zucchero residuo. È il primo dei due vini la cui “base”, semisolida, è stata acquistata da Marco De Bartoli negli anni Ottanta (al chilo!) dagli eredi del Maggiore garibaldino Salvatore Amodeo. Ripristinati in una decina d’anni con lente, caute aggiunte di alcol, i due vini sono tornati a) liquidi e b) potabili; sono poi cresciuti nell’affinamento in grandi recipienti di vetro e infine, una volta imbottigliati, costituiscono oggi due tra le più sublimi e prodigiose sostanze liquide che si possano reperire in Italia. In particolare, a parere di chi scrive, quella caratterizzata dal millesimo 1901 (in realtà comprendente anche molto vino ottocentesco) ha qualcosa di portentoso. Il bouquet travalica, per complessità e bellezza, ogni aspettativa; in una soffusione indistinta, volteggiano per minuti note bellissime di tabacco, scorza di mandarino e tè sencha. Dopo ulteriore aerazione, queste prime suggestioni lasciano campo a una declinazione dolce-amara fatta di sentori ancora freschi, definiti, miracolosamente puri: il calice prende a profumare di propoli e pappa reale, indugia quindi sulle note “salse” di salmastro e iodio, e ancora cacao, sakè, noce e mille altre sensazioni, lungo uno sviluppo compassato ma inesauribile; in pieno controllo sia l’alcol, sia la volatile, in un contesto che si distingue per sobrietà anche dal punto di vista estrattivo; nel finale, lunghissimo e terso, l’acidità deborda. Si resta, francamente, ammaliati. Trattasi, nella categoria di cui fa parte, di un supremo vertice, in grado di sedersi al tavolo dei più eccelsi Madeira, Porto o Jerez, e senza il minimo timore reverenziale. 1860 Marsala Superiore “1860” s.a. Da vigne prefillosseriche di grillo e catarratto; c’è da inferire una gradazione alcolica molto elevata del vino di base, e quindi, nella versione originale, la fortificazione deve essere stata piuttosto modesta. Questo raro vino (1.000 bottiglie da mezzo litro) è dunque un Perpetuo che compendia diverse annate del secondo quarto dell’Ottocento, ma ha un termine post quem: il 1830, anno della prima annata commercializzata dall’azienda degli Amodeo, fondata nel 1837. Si chiamava, all’epoca, Marsala Lilibetano Maximum, e ha fatto storia. La vampa del naso “fa la riga in mezzo” a chi sia dotato di capigliatura: è un vapore di alcol, pomodori secchi, wasabi, champignon, orzo, carne arrosto, noce tostata, pietra e maggiorana, o almeno questo è quanto “spara” nella sua frazione più scura e per così dire caratteriale; poi perviene una vera valanga di crema pasticciera, noce, canditi e dolcezze glassate, rosolio e cioccolato bianco, dattero e cotognata, ed è questa la sua anima più tenera, barocca e mediterranea; sullo sfondo, si stagliano note chimiche di una complessità e un’originalità tale da rendere ingrato il compito di chi deve provare a descriverle (sansa di olive? naftalina? alcol denaturato? verderame? tutti e quattro?). L’assaggio è prepotente, caldo, vitale e rabbioso quanto il profumo, con valori elevati di tutto, acidi, estratti, alcol e sali minerali che nobilitano la strepitosa persistenza, di un nitore straordinario. Vino epico, capace di banalizzare bottiglie celebrate della sua categoria; epilogo degno di una cavalcata sul filo della memoria lunga quasi duecento anni.