Aveva ragione Gio Ponti: il colore è difficile per i deboli. E io mi sento messo a dura prova già scendendo la scaletta dell’aereo nell’ultimo lembo occidentale della Sicilia. Effettivamente c’è una luce drammatica, che sfregia gli occhi: mi infilo gli occhiali da sole e mi godo meglio l’impeto, anche lui difficile da reggere, di questi colori puri, il blu che sfolgora in un cielo sterminato, il riverbero del sole che sfavilla a filo del mare, il bianco lindo delle piramidi di sale sullo Stagnone, tanto abbacinante che dei lavoranti ricorderò una volta tornato solo le sagome, stagliate sull’acquitrino, tra i mulini. Le costruzioni antiche sono di un giallo chiaro che pare oro, così le alte mura dietro cui svettano chiome di palme, le porte antiche e gli argini, le ville abbandonate, i fianchi, ruvidi, degli stabilimenti ottocenteschi lungo il porto antico.
Qui, una bandierina di plastica con la Trinacria sbatte nel vento mentre l’odore di laguna mi si incunea nel naso. Chiedo a Renato di fermarsi per poter guardare da vicino i moli deserti protendersi verso il mare come braccia squadrate. E così scendo, e guardo; ma qui non attraccano navi da generazioni, e non ne transitano, se non al largo; navi che se pure avessero gli occhi non guarderebbero verso di me; i brigantini, le golette, gli schooner in arrivo di un tempo, pronti al carico del vino alla volta di regni distanti, sono oggi minimi punti persi nell’azzurro, impassibili nell’inchiodare questo luogo e chi lo abita alla semplice e terribile verità che tutto è cambiato a Marsala, e ciò che è stato non ritorna.