Mi rimaneva una sola confortante certezza riguardo l’aristocrazia della ristorazione italiana, tirata per la giacchetta dalle mode più sceme, confusa dalla crisi, lisciata e lodata senza posa dalla critica istituzionale, che preferisce coltivare il proprio orticello piuttosto che i lettori.
Quasi tutto era perduto, poiché, in preda a una sorta di compulsione iconoclasta, l’avanguardia del settore aveva lavorato in sottrazione, cominciando col demolire e scomporre le ricette della tradizione. Non sazi, si erano rivolti con il medesimo accanimento alla sala, generando locali contusi e scrostati. Infine, si erano dedicati alla tavola, esiliando le tovaglie, disegnando piatti sbilenchi o vastissimi, bicchieri monchi, sedie anti-uomo, tovaglioli che sembrano già usati dal cliente precedente e posate multiuso che ricordano i coltellini svizzeri.
Ma il fattore umano mi consolava. Confidavo, insomma, che almeno per camerieri e cuochi ci sarebbe stato un salvacondotto, un argine di buonsenso allo smisurato impulso dei creativi. Illuso. La rivoluzione è un’alta marea che non conosce né ostacoli, né pietà. E non c’è stato scampo per il personale di sala. Addio, vecchie giacche bianche, panciotti, camicie immacolate all’ombra dei farfallini.
In questi ultimi tempi, ho avuto la fortuna di essere servito da camerieri nelle tenute più bislacche e preoccupanti, come quelli vestiti da gangster, in abito nero, camicia nerissima e cravatta colorata. Ogni proposta dei quali sembrava un’offerta che non si può rifiutare.
Ma ho avuto a che fare anche con poveri disgraziati costretti a indossare certi grembiuli color ginocchiera, tristi come un negozio di ortopedia. O giacche piene di bottoni metallici e colletto alla coreana: una via di mezzo tra la divisa ottocentesca dei vigili urbani e la giacchina di Steve McQueen in Papillon.
Il massimo dello stupore, tuttavia, risale a poco tempo fa. Quando, a Milano, mi sono recato da “Alice”, vertice gastronomico del farinettiano Eataly. I ragazzi e le ragazze in sala indossavano leggiadramente un completino di coloretti chiari in tessuto morbido. Dapprima ho pensato al pigiama di un mio zio di terzo grado, che visitai in ospedale da bambino. Poi, però, mi è tornata alla memoria la tenuta dei protagonisti di Spazio 1999, telefilm fantascientifico degli anni Settanta. Quasi identici. Una reinterpretazione (tanto per stare al lessico del settore) di straordinario stile. Fortunatamente, la vena emulativa non è giunta sino al punto da armarli di laser.
E in cucina? Non s’era ancora visto niente di rilevante. Ma non bisogna mai sottovalutare la controparte. E, infatti, ecco che a “Casa Perbellini” i cuochi sono vestiti come picciotti siculi, con gilet e coppola. Citazione tanto più geniale in quanto priva di senso apparente, dato che ci troviamo nella piazza patronale di Verona.
Vedremo se questa tendenza troverà terreno fertile anche tra i fornelli. Nell’attesa, mi permetto di suggerire un’ulteriore e decisiva svolta. Perché non distribuire e imporre cappellini, parrucche e nasi finti alla clientela?