la custodia come missione Armando Castagno “Tal che si mise a circuir la vigna / che tosto imbianca se ’l vignaio è reo”: quando Dante scrive questi versi (Paradiso, XII 86-7), preoccupandosi della salute della vite che il vignaiolo deve circondare di cure, a Coltibuono si faceva vino da due secoli e mezzo almeno. Dante si riferisce alla vigna del Signore, cioè la Chiesa; ma anche le antichissime vigne dell’abbazia di Coltibuono, fondata dai Firidolfi o più probabilmente dai Ranieri nel 1049 e già nel 1051 condotta dai monaci benedettini vallombrosani, avevano un forte valore metaforico: luogo di elevazione, di lavoro, piccolo angolo di paradiso ritrovato (e infatti “paradiso” deriva dal persiano pàiri daēza, “giardino recintato”). Esattamente in parallelo a quanto sarebbe avvenuto in Borgogna nel 1098, quando Roberto di Molesme e ventuno suoi confratelli fondarono l’abbazia di Cîteaux e l’ordine cistercense in reazione all’ormai ostentata inosservanza della Regola da parte della “casa madre” di Cluny, così a Coltibuono approdò Giovanni Gualberto, in seguito Santo, intenzionato a fondare una congregazione di monaci che seguissero con rigore i princìpi benedettini. Anche il monaco francese e i suoi adepti misero presto insieme, grazie ai legati testamentari di possidenti, nobili e funzionari di zona, una cospicua estensione di terra, in seguito trasformatasi, per buona parte, nel più celebrato vigneto del mondo, quello che si stende lungo la Côte d’Or, con i suoi antichi Clos, le sue parcelle ammantate di mito, la sua ponderosa letteratura. Sin da quegli anni lontanissimi, con ogni probabilità, a Coltibuono si produce vino; non che la degustazione seguente possa arrivare all’alto Medioevo, tuttavia si tratta, con ogni probabilità, della più profonda verticale di un vino italiano che sia mai stata pubblicata: cinquanta annate tra il 2010 e il 1946, a festeggiamento dei cinquant’anni dell’Associazione Italiana Sommelier. Archivi storici di bottiglie che consentissero un tentativo del genere, almeno nel nostro Paese, ce ne sono pochi; l’idea che noi di Vitae abbiamo avuto, perseguito e alla fine realizzato - essenzialmente grazie alla straordinaria disponibilità della famiglia Stucchi Prinetti - ci ha lasciato addosso, più che una generica “vertigine della storia” o la pur ovvia soddisfazione giornalistica, un senso di meraviglia. Come accennato, la Badia sorse in tempi antelucani; e nacque appartata, per una logica tendenza all’isolamento delle congregazioni religiose non interessate al potere politico (a differenza, ad esempio, di quella di Cluny). Questa filosofia, che divenne poi testo scritto ad opera dei cistercensi - la zona dove fu edificata Cîteaux era descritta come un locum horroris et vastae solitudinis -, doveva aver ispirato anche i fondatori di Coltibuono, chiunque fossero. La Badia, dedicata a san Lorenzo, sorge sulle alture a nord di Gaiole, nascosta in mezzo alla macchia compatta di alti boschi che separa il Chianti Classico dal Valdarno Superiore. Dalla provinciale 408, che curva dopo curva raggiunge Montevarchi, si distingue improvvisamente la mole tetragona della torre campanaria in pietra d’alberese, con un’ampia monofora su ciascun lato, e che sovrasta la muratura dell’abside stagliando verso il cielo. I vari corpi di fabbrica annessi a questa, che era la chiesa dei monaci vallombrosani, sono di forme e stili differenti, ma l’insieme ha il suo fascino anche adesso che la Badia non è più tale; l’insieme dell’esterno ha aspetto coerente almeno dalla fine del Cinquecento: sulla mappa della zona tracciata per conto dei Capitani di Parte Guelfa (1580-1595) la Badia “a culti bono” vi figura recintata da mura bianche, accorpata con quattro edifici di altezze diverse attorno alla chiesa di San Lorenzo, affiancata dalla torre quadrata. Rispetto ad allora, non è cambiato molto: pergolati di viti accompagnano ora a tratti il perimetro della costruzione; un monumentale cedro del Libano di oltre venti metri di altezza e sette di circonferenza spunta dietro i tetti; un piccolo e bellissimo giardino, ripartito geometricamente da siepi di bosso la cui potatura forma parallelepipedi e sfere, vede prosperare così tante e diverse piante medicinali e aromatiche da profumare, in ogni stagione, come un’erboristeria. Più che favorire la meditazione, Coltibuono la impone. E non è così sorprendente per chi l’abbia visitata il fatto che nei decenni vi sia stato messo a punto il protocollo, fatto di almeno altrettanta fatica quanto talento, per un Chianti Classico che, per citare uno scritto recente di Filippo Apollinari, andrebbe custodito come il metro di Sèvres. Effettivamente, il vino potrebbe assumere su di sé la stessa funzione del metro di unità di riferimento per tutti gli altri, tali la sua misura, la sua classicità. Dopo vicissitudini storiche nebulose, ma certamente tormentate quanto tutte quelle dei beni ecclesiastici in Toscana nel corso dei secoli, la Badia finì secolarizzata nel 1810 in occasione dell’imminente nascita del figlio di Napoleone Bonaparte; per “secolarizzata” si intenda che i religiosi vennero cacciati via d’imperio; gli edifici annessi alla chiesa, adibiti a stalle e pagliai, ne vennero separati, mentre la chiesa fu declassata a parrocchiale. Il coacervo, smembrato nell’unità e nel senso, fu venduto a un commerciante di Livorno, Giovanni Calamai, che si trovò al centro delle lagnanze e delle ritorsioni dei parrocchiani, rimasti fedeli al solo monaco lasciato a Coltibuono, don Ilarione Parenti. La Badia fu prima affittata a termine, poi Calamai, in difficoltà economiche, le usò, e siamo al 1816, l’ultima indelicatezza: stimata quasi centomila scudi, la vecchia struttura finì a fungere da primo premio di una sua “lotteria” personale, per la quale stimava di poter vendere 60.000 biglietti a 4 scudi l’uno. Ne risultò vincitore il trentanovenne conte Giovanni Giraud, un’ambigua figura di drammaturgo giramondo che con una sua opera aveva ispirato perfino Gaetano Donizetti; accusato ben presto di avere ottenuto il prezioso bene in modo truffaldino, Giraud se ne disfece a beneficio del principe polacco Stanislao Poniatowsky, di stanza a Firenze, che nel 1833 lasciò sua moglie Costanza Luci vedova e oberata di debiti. Quella del 1846 al cavalier Guido Giuntini fu dunque l’ultima vendita di cui Coltibuono fu oggetto. Giuntini, il cui padre Michele aveva già acquistato altre proprietà rilevanti dal punto di vista vitivinicolo, come la Fattoria Selvapiana nel cuore della Rùfina (1827) e la tenuta della Parrina, ad Albinia (1830), procedette all’acquisto non prima di essersi fatto mettere per iscritto dal Vaticano che nessun vallombrosano avrebbe più potuto accampare diritti di sorta sulla Badia; ed è in effetti l’avo degli attuali proprietari, i tre fratelli Emanuela, Paolo e Roberto Stucchi Prinetti. Il padre dei tre, Piero, scomparso nel 2002, fu tra i pionieri del Chianti nella valorizzazione della tipologia Riserva (probabilmente da metà anni Cinquanta) e addirittura, sin dal 1962, fu il primo nel distretto a imbottigliare e vendere l’olio della fattoria; utilizzò la bottiglia a sezione quadrata, oggi diffusissima, prendendola in prestito, chissà su consiglio di chi, da quella tradizionale del maraschino. La proprietà è sconfinata, sebbene nei decenni centrali del XX secolo si sia fatalmente contratta dopo la vendita di alcune porzioni, tra cui poderi abbastanza o molto conosciuti nel nostro mondo, come Riécine, Capannelle, Monterotondo, Ciona, e altri più oscuri, come Fontecaresi, Turicchi, Porcignano, Montiverdi, Lavatoio, Saliceto e il Podere Le Porcelline, che una voce popolare, maligna quanto spassosa, sottolinea essere stato all’epoca adiacente a un monastero di suore. Dei quasi 800 ettari totali, 59 sono coltivati a vite, una ventina a oliveto, il resto, a parte qualche pezza di seminativo e qualche incolto, è bosco d’alto fusto, e come ricorda Roberto Stucchi Prinetti fu questo ad un dato momento la sola vera ricchezza di Coltibuono: “A fine Ottocento il flusso di reddito più cospicuo veniva dalle querce, che erano utilizzate per produrre traversine ferroviarie. Quello è il periodo in cui in Italia furono realizzate molte linee ferroviarie, e le traversine di quercia erano pagate bene. I crinali del Chianti vennero all’epoca fortemente disboscati, e infatti i pini e gli abeti che si vedono oggi sono quasi tutti dell’inizio del Novecento, quando furono rimessi per ricostituire la foresta e limitare l’erosione, che aveva iniziato a essere un problema notevole”. Querce e castagni, esposti rispettivamente sulle piagge che guardano sud e nord, e ancora alberi tipici del Chianti Classico come aceri, ciliegi e meli selvatici, carpini e lecci, e quelli per così dire “d’importazione” come acacie, pini e abeti, costituiscono oggi una risorsa economica residuale; si opera una ceduazione di mantenimento e la foresta viene tutelata e gestita, ma mancano voci reddituali direttamente legate al bosco. Tuttavia, questo rimane elemento decisivo nella custodia del territorio, sotto una quantità di profili, dalla regolazione dell’umidità a quella della temperatura, dall’annullamento dell’erosione dei suoli alla regimentazione delle acque, alla purificazione dell’aria. Le foreste di Coltibuono sono infine una casa accogliente per abitanti come istrici, scoiattoli, cinghiali, daini e caprioli, allocchi e gufi, falchi e poiane; la tutela di questo vasto bosco li preserva da una sparizione già archiviata come irreversibile in molti altri luoghi simili del centro Italia. In uno dei locali della Badia abbiamo trovato appesa al muro una vecchia lavagna con il censimento del bestiame diviso per Podere e per razza: nelle 34 unità poderali dipendenti dalla Badia - che a un certo punto erano arrivate a 48 - si annoveravano quantità inusitate di suini, ovini e bovini; i primi, ad esempio, contati e qualificati con i termini tradizionali di lattonzoli, lattoni, verri, scrofette, scrofe, magroncelli, magroni e suini grassi. Tempi passati per Coltibuono, ma in verità non è soltanto l’impiego del bestiame a essere cambiato: è l’intera struttura produttiva e, come in quasi tutti i territori da vino, la gerarchia interna delle risorse. Da sempre, qui e altrove in Toscana fino almeno al 1950, la vigna ha avuto un ruolo nel quadro dell’agricoltura promiscua dei poderi e dei borghi mezzadrili, ma un ruolo, se non marginale, certo non così totalizzante come l’odierno. Incredibile per il nostro sguardo è invece la diversità dei prodotti agricoli che un’entità come Coltibuono poteva produrre contemporaneamente. Si leggono sui vecchi libri-magazzino della Badia le voci grano, orzo, miglio, segale, grano saraceno, marroni, castagne; saggina, ceci, cicerchie, fagioli di più tipi, piselli, fave; gelsi e bachi da seta (commercio questo un tempo fiorentissimo nel Chianti, tanto che molti poderi hanno ancora grandi alberi di gelso entro la proprietà). I castagni davano legna, pali, colonne, travi da costruzione e per le botti, ma anche fascine e carbonella; le querce, come accennato, legno da traversine, mangimi e altro; e via andare, in un elenco che qui prenderebbe almeno altre trenta righe. Le vigne di Coltibuono sono oggi decentrate rispetto all’azienda, ma vicine tra loro: la gran parte è a Monti in Chianti, in comune di Gaiole, in una zona di medio-bassa altitudine relativamente all’areale, tra i 250 e i 300 metri sul livello del mare. Altri sono a Castelnuovo Berardenga, sulla strada tra Pianella e Vagliagli, su terreni appena più caldi e leggeri. La Riserva, il vino oggetto della nostra ricognizione verticale, è ottenuta da cru diversi a seconda dell’annata (Vignone, Poggino, Casciaio…), ma ci sono due colline, Montebello e Argenina, a Monti, che quasi ogni anno offrono uva adatta a un vino tanto ambizioso. Sono zone simili, una di fronte all’altra, a loro volta divise in vigneti più piccoli, su terreni con un 35 per cento di argilla, pietrosi grazie al galestro e all’alberese, e con rilevanti differenze al proprio interno come tipico del Chianti Classico. Si notano, scavando anche solo mezzo metro, banchi di ciottoli stondati e puddinghe, lenti sabbiose e arenarie dure, banchi di argilla priva di scheletro, piastre di bianchissimo alberese duro come il cemento, scisti scuri, ossidati, aguzzi. Queste vigne, che comprendono oltre al sangiovese (85%) anche varietà locali come ciliegiolo, colorino, mammolo, fogliatonda, malvasia nera, pugnitello e sanforte, furono messe a dimora a 5.500 ceppi per ettaro tra il 1987 e il 1988 dopo una selezione massale condotta dal team di Maurizio Castelli; Roberto ricorda con un sorriso affettuoso l’intervento diretto “in campo” di una vigneronne del calibro di Giovanna Morganti (Podere Le Boncie) che all’epoca collaborava con Castelli, e la figura di Guido Giorgi, fattore dell’azienda dal Dopoguerra a tutti gli anni Settanta, che contribuì a conservare in tutti i reimpianti della sua epoca le vecchie “massali”, tenendo insieme quello che, con tutta evidenza, è da considerare ancora oggi un patrimonio. Quando si procede alla vinificazione, la scelta degli appezzamenti che daranno vita alla Riserva è in genere già stata operata, e le relative vigne diradate; la raccolta manuale convoglia in cantina le uve di sangiovese e canaiolo (più raramente anche di ciliegiolo e colorino), che vengono fermentate per azione di lieviti indigeni. L’avvio della fermentazione, lasciato per decenni all’intervento selvaggio dei lieviti di cantina, è da qualche tempo demandato alla popolazione sviluppatasi entro un piccolo “pied de cuve” di mosto portato a gradazione alcolica attorno ai 5-6 gradi grazie all’aggiunta di modeste quantità di vino. “Questo sistema per noi è l’ideale” ci dice Roberto Stucchi. “Abbiamo notato che la fermentazione con i lieviti commerciali ci dava molti più problemi di quella spontanea, sotto forma di riduzioni insistenti o sviluppo di brettanomyces e dei loro molesti composti secondari. Ci siamo riferiti agli studi di Massimo Vincenzini, che qui in Toscana ha svolto in quasi quaranta aziende un lavoro spettacolare sull’ecologia dei lieviti, sia commerciali sia indigeni, mostrando le caratteristiche dei due e le relative interazioni dinamiche. Si possono desumere dati sorprendenti dai suoi studi: ad esempio, che in alcune cantine sussistono popolazioni di lieviti locali che a un certo punto tagliano fuori anche i più vigorosi tra quelli commerciali e prendono in carico la fermentazione; o che - almeno per il sangiovese - le fermentazioni condotte dai lieviti indigeni danno risultati nettamente migliori dei selezionati sotto l’aspetto della complessità aromatica, il che non è certo un parametro da poco.” Terminata la fermentazione, il vino resta in macerazione a contatto con le bucce per tre settimane circa. Di lì, è trasferito per maturare in grandi botti di rovere francese o austriaco di varia capacità, e vi rimane circa due anni. Un affinamento di almeno 4 mesi in vetro prelude alla messa in commercio; la produzione media per annata è oggi attorno alle 30.000 bottiglie. L’azienda provvede, in coincidenza con l’uscita della Riserva, all’accantonamento di un numero congruo di bottiglie, che ormai costituiscono una splendida cantina storica in grado di risalire fino al 1937 e dalla quale, come leggerete, abbiamo prelevato esemplari ormai molto rari, testimonianze di tempi lontani. Dal 2003, infine, Badia a Coltibuono opera in regime biologico certificato (ICEA), e nella sua intera regione è fra le tre o quattro aziende più grandi ad aver operato questa scelta. Il vino era ottimo anche prima della riconversione al bio; ma l’opzione della viticoltura sostenibile è ulteriore testimonianza di ciò che più conta in vista del futuro: un approccio alle risorse del luogo fondato su valori come il rispetto, la preservazione, l’interazione. In ultimo, ringraziamenti sentiti vanno rivolti alla famiglia Stucchi Prinetti, in particolare a Roberto ed Emanuela, che con generosità hanno assecondato questo nostro progetto; grazie anche a Maurizio Castelli, David Berry Green, Monica Coluccia, Giampaolo Saccocci, Giandomenico Zedde e Mirco Vigni per avere condiviso con chi scrive le loro preziose e puntualissime impressioni di assaggio. 2010 Manto tra il rubino e il granato, di perfetta trasparenza, ricco di luce e riflessi. Gran ventaglio aromatico: grafite, ciliegia, una nitida violetta, poi cedro, china, alcol e un tocco di cenere. La freschezza è la dote migliore che propone lungo un assaggio di bella continuità e dal ritmo serrato, grazie a cospicua dotazione acida e a tannini di trama gentile; alla fine, indugia sui toni floreali, che restituisce intatti in persistenza. Un piccolo classico, godibile già ora, oppure relegabile in fondo alla cantina per venirne tratto anche tra quindici o vent’anni. 2009 Rosso granato chiaro. Bouquet reso aperto e disponibile dal carattere “amichevole” e caldo dell’annata; sa di spezie, caramello, rose e viole appena fané, ciliegia sotto spirito, poi un tocco di pepe rosa e una nota fenolica. Bocca di non timida struttura, ma il tannino è stondato, l’acidità calibrata e mai aggressiva, il finale sottilmente minerale e speziato. Nemmeno in un millesimo del genere rinuncia al suo senso di classica misura, che tornerà come un mantra nel corso della degustazione. 2008 Cupo, tetragono, colossale rispetto alle due annate precedenti e alla successiva; ha una compattezza che per ora limita, più che favorire, la lettura del bouquet, a oggi descrivibile usando descrittori come la felce, la legna umida, timo e alloro, fiori amari come il lilium, poi noce moscata e cuoio. Bocca cremosa, sostanziosa dall’ingresso all’epilogo, eppure assai composta; a volergli trovare un paio di sbavature, si potrebbero citare il tannino appena polveroso e la chiusura coraggiosamente amarognola, ma la sensazione che diffonde è quella di un vino monumentale, ancora assai indietro nel suo divenire. Non ne apriremmo una bottiglia prima del 2018, 2020 almeno, ma allora sarà vino dal quale pretendere parecchio. 2007 Già a un sommario esame olfattivo è possibile cogliere la diluizione della trama e l’andamento “a strappi”, tipico dell’annata in zona: su un bel fondo di violette e ciclamini si staglia una nota di bergamotto precisa, ma isolata; il naso non regala molto d’altro, se non qualche sfumatura tra la terra e il sigaro. Un po’ poco. Al palato attacca timido, procede senza particolare tensione, in uno sviluppo veloce che proietta verso un epilogo semplice e un po’ slabbrato, mediamente persistente; la nota più netta che in questo finale si riesce a cogliere è quella di un alcol che sbuffa come un vapore, confondendo i contorni. 2006 Profilo maturo e possente in cui si colgono i primi tratti di evoluzione nei baritonali toni di pelle conciata, resina, cacao amaro, ciliegia nera, ma anche ferro e spezie dolci. Alla tipica, irruenta profondità olfattiva dell’annata fa da controcanto un sorso generoso, intenso ed energico; fondamentale è in esso il ruolo dell’acidità, che riesce a sollevare un corpo tendente al mastodontico, arrivando persino a dargli una certa articolazione; il finale è tra i più persistenti dell’intera verticale, ma nella schematicità e nella sostanziale incompletezza denuncia uno stato evolutivo ancora giovane. 2005 Una delle rivelazioni più inattese della verticale. Il colore è ancora giovanile e addirittura con qualche riflesso indaco, rosaceo, e il naso è splendido nella sua impeccabile modulazione: fresche note di agrumi e spezie a corolla di una nota balsamica quasi muschiata, resinosa, qualche cenno iodato e un profluvio di fiori. Anche l’assaggio rivela una notevole vitalità, è teso, continuo e succoso; si perviene per questa via a un finale limpidissimo, gessoso, aggraziato, di persistenza e complessità sorprendenti. 2004 Il vino del decennio a Coltibuono. Ha un naso imponente, portentoso per complessità e bellezza, con molti caratteri comuni alle grandi riserve di questo millesimo nel territorio: violetta, mora di gelso, spezie orientali, aghi di pino, zenzero, mentolo. Assetto gustativo al limite del guerresco, sorretto da impalcatura acido-tannica di spietata efficienza; il finale è potente, complesso, appena irrigidito dalla giovane irruenza del tannino; chiude su una virgola floreale un’esibizione da fuoriserie. Splendido oggi, ma da prevedere stabile a questo livello almeno per altri dieci anni e oltre; interpretazione didattica, inappuntabile, di un’annata quintessenziale tra le ultime quindici in Chianti Classico. 2003 Granato cupo e aranciato. Naso ossidativo su due bottiglie stappate: la nota di caramella al miele, quelle di melata, carruba matura, toffee, colla vinilica e smalto ne denunciano un’involuzione troppo precoce per non lasciare perplessi; anche all’assaggio è smunto e dolciastro, e piuttosto ammandorlato in fondo; la frazione acida non ha alcun ruolo nella redenzione di un vino probabilmente nato sotto una cattiva stella. Considerando la quantità di 2003 toscani atipici sì, ma ancora integri, questa riserva va ritenuta un’eccezione piuttosto che la regola, al netto di problemi di conservazione del vino dei quali non abbiamo risultanze. 2001 Granato compatto, riflessi color mattone, quasi impenetrabile. Silhouette olfattiva davvero strana, empireumatica di cenere e pneumatico, ricca solo di sensazioni scure e come opacizzata; con l’ossigenazione emergono cenni dolci di caramella d’orzo e miele, e persino mostarda di frutta, ma l’insieme non si solleva e non si nobilita. Non c’è molto da segnalare al sorso che denoti maggiore dinamismo; compare anzi, e tende a dominare l’assaggio, un tannino ostico e astringente, che aumenta di questo strano vino la sensazione di ruvida terrosità e rende amarognola la pur lunga persistenza. 2000 Granato aranciato trasparente. Naso al limite dell’ossidazione ma molto più lieve del 2001; si colgono cereali soffiati, stuoia, caffè freddo, poi miele amaro, nocino e radice di liquirizia. Bocca scissa e ammandorlata, ormai priva di richiami fruttati, dal tannino piuttosto secco e asciugante e un finale alquanto scarno. Annata, nella Toscana centrale, di vini equipaggiati assai peggio di quanto all’epoca comunicato – fu accolta con entusiasmo del tutto ingiustificato – e oggi in difficoltà, salvo poche e ben note eccezioni. 1997 Granato chiaro, luminoso nel cuore, trasparente al bordo. Pur in un contesto di evoluzione molto avanzata, questo profumo è respirabile e dettagliato, su note mellite e calde come da letteratura sul millesimo in zona: pappa reale, tabacco biondo, pannocchia abbrustolita, orzo e una discreta dotazione in acidi volatili; sorso di discreta coesione e accettabile qualità, in uno svolgimento ritmato da tannino di bella grana e acidità più acuta del previsto; tutto abbastanza bene fino a due terzi dell’assaggio, poi abbassa le orecchie e accorcia il passo: la persistenza non delude tanto per estensione, ma perché davvero semplice. 1996 Bel colore granato acceso con riflessi rossastri al cuore e naso sgargiante, integro, che dal fruttato di ribes rosso, ciliegia aspra e agrumi vari muove con l’aria verso toni affumicati, floreali (netta, e suggestiva, la nota di rosa canina) e minerali. Splendore e armonia all’assaggio, sapido, setoso, elegante, con un bel finale di liquirizia e violetta imperlato di freschezza acida; pressoché irresistibile l’idea di un secondo bicchiere. Esito non così sorprendente per un millesimo timbrato dall’acidità e all’epoca sottovalutato; almeno nei terroir più caldi, la “vetrosità” acido-tannica che altrove lo penalizza non si registra, e tra Chianti Classico, Montalcino e Montepulciano è annata che ha regalato diversi vini ancor oggi intatti. 1995 Granato scuro, denso, quasi senza unghia. Naso dolce di fichi al forno, torrone e mela cotta, per fortuna più aspro e spavaldo dopo breve sosta nel calice, quando compare un côté più selvatico e complesso (confettura di fragole, ruggine, cuoio, iodio). Bocca ben presente, soda e rigida sia nel tannino sia nell’impeto acido, molto indistinta però nei ritorni aromatici; bel finale sapido. Chiuso e reticente, autorizza, dopo vent’anni dalla vendemmia, la previsione che non possa più aprirsi davvero, e che sia destinato a fornire di sé quest’immagine severa fino a quando ossiderà. 1994 Granato lucente, di media intensità; una disadorna ventata alcolica inaugura il flusso olfattivo, che non ha molto da offrire a parte qualche nota floreale dolce (lavanda), un tono minerale cupo di matrice terziaria (ferro saldato, goudron) e nuance di frutta dolce o in confettura. L’assaggio è elettrificato dall’acidità, disgiunta dal corpo del vino ma sufficiente a rinvigorirlo; preziosa la grana del tannino, che stringe senza disseccare, e pian piano si dischiude un epilogo che ha estensione e ritorni di inattesa bellezza: un crescendo del quale non lo avremmo ritenuto capace. 1993 Granato opaco, orlo color vermiglione. Olfatto evoluto e quasi ossidato in cui si salva una bella nota di confettura di rosa canina e qualcosa di piccante (pepe rosa, peperoncino) in un quadro per il resto abbastanza arrendevole. Bocca di peso intermedio, attacco morbido, svolgimento confuso e definizione perfettibile, quasi cremosa nella struttura, foderata di tannino dolce e fuso alla struttura, acidità in lieve deficit, finale purtroppo schematico, scolastico, decisamente non lungo. Da un’annata, del resto, capricciosa, sfavorevole alle varietà tardive, con estate molto secca e clima in progressivo peggioramento dal 20 agosto fino alla vendemmia. 1990 Molto luminoso se confrontato con gli altri vini della batteria. Bouquet complesso e misurato, persino delicato accordandogli il tempo di assestarsi nel bicchiere. Profuma di giuggiole, lavanda, resina di pino, citronella, poi balsa, visciola, maggiorana e terracotta. In bocca ha una qualità che lascia attoniti: entra con autorevolezza, allarga presto lo spettro aromatico, si scatena poi in una vertigine di ritorni floreali e minerali, e nel martellante accompagnamento dell’acidità si produce infine in una chiusa di spettacolare lunghezza, complessa e pura. Un rosso grandioso in senso assoluto e un Chianti Classico semplicemente di conio aureo, all’apice evolutivo. Ha richiesto una pausa per riuscire a degustare altro senza esserne condizionati. 1988 Il millesimo ha solida fama nella sua zona d’origine, ma questa bottiglia era in chiara sofferenza, forse per via di un tappo imperfetto. Di un bel granato trasparente, proponeva infatti un profilo olfattivo caramelloso e fiacco, con dolcezze su dolcezze fino allo strudel, alla confettura, al panettone, al miele. Non molto meglio all’assaggio, sfibrato nell’intimo; nel finale c’è stata da registrare – caso unico su cinquanta annate assaggiate – la comparsa di note animali, selvatiche e non così qualificanti. La tenuta del tappo, senza contaminazioni ma che si è in pratica sfarinato, fa pensare alla possibilità di esiti anche di molto migliori. 1987 Nettamente granato, compatto e luminoso. Profumo di qualità impensabile per questo raro, dimenticato, umido millesimo; è un bouquet incantevole sia nella parte più fresca (kumquat, pepe rosa, cedrata) sia in quella che avanza verso la terziarizzazione (fieno, rafano, acqua piovana, fango termale). Bocca tuttavia didascalica, nel bene e nel male, per un vino di annata fredda: è cruda, diluita, zigzagante, con un ruolo dominante in capo all’acidità più che al tannino o agli estratti; la chiusura, sebbene di una certa linearità, risulta sbrigativa. 1986 Granato pieno e trasparente, orlo luminoso appena aranciato. Gli umori quasi piccanti di un bel sottobosco fresco, ravvivati da note di tabacco, ginepro, timo e alloro, dominano un naso composito e fascinoso, che schiude poi una brillante florealità. In bocca c’è almeno altrettanta verve, nonostante un tannino ormai sciolto e un’acidità misurata ma certo non così incisiva come in molte altre annate; il finale, lungo e sapido, vive di un bel calore e di ritorni precisi e coerenti, con enfasi sulla componente boschiva, senza nulla di amaro, nulla di sgradevole. Un ennesimo ’86 riuscito, in questo caso persino più elegante e distinto della maggioranza dei suoi coetanei di zona. 1985 Granato aranciato di particolare trasparenza, davvero leggero, ma impatto olfattivo assai chiuso; il poco che filtra è terziario e fosco, su lievi suggestioni di legno vecchio (“armadio” o “cassetto”), tabacco scuro, polvere, poi alcol e rosolio. Bocca arcigna e irrigidita dal tannino, sapida in fondo, monocorde in persistenza, che peraltro è assai lunga. Un monolite, destinato probabilmente a restare tale anche considerando l’esito di ulteriori indagini sul vino a 6 e a 24 ore di distanza dal primo assaggio, che hanno destato sensazioni molto simili. Peraltro, questa riottosità è comune a parecchi ’85 in Chianti Classico. 1983 Aspettative limitate vista l’annata poco felice, e assaggio quindi deludente fino a un certo punto. Il vino è quasi aranciato al colore, diluito e ossidativo al naso, che propone come nota di maggiore interesse una potente speziatura di curcuma e coriandolo; il resto è un terziario senza ritorno (silicone, brodo di porcini, colla vinilica). Anche all’assaggio non concede sorrisi; la beva è resa ingrata dal ruolo marginale dell’acidità, e manca una vera e propria progressione; le risorse del finale sono scarse, e la chiusura rapidissima. 1982 Di un bel punto di colore tra il granato e l’aranciato, piuttosto sostenuto. Naso ricco e generoso, si direbbe “solare”, che esprime note di frutta matura (albicocche, pesche), tabacco, spezie, resina e peperone arrosto; poi, attendendo una ventina di minuti, anche fungo secco e metallo, primi esiti dell’evoluzione terziaria. Sorso conseguente e simmetrico rispetto al naso, quindi assai maturo e morbido, a mostrare un grado di evoluzione finanche più spinto; mostra una compattezza ammirevole, se non una complessità da campione, e sfuma piano su suggestioni esotiche. 1980 A lato di aspetti fruttati e speziati, dai toni soavi, compare da subito all’analisi olfattiva una declinazione marina di grande personalità; netti il chinotto, la rosa appassita, l’aloe e la noce, ma anche forti toni di iodio e salsedine. Al sorso è morbido e lieve, lento nello sviluppo, acceso in fondo da veemente acidità che è un marchio per quest’annata italiana; il finale agli agrumi è un classico, per un’esibizione vitale e palpitante. La frazione ossidativa, quel che più conta e più sorprende, è pressoché trascurabile. Un piccolo miracolo: irrompe nella nostra memoria accanto ai due o tre migliori esiti del gelido millesimo su scala nazionale. 1979 Colore opaco, di un granato cupo, quasi privo di riflessi e vitalità. La classica deriva ossidativa dei vini “cicciotti”: arancia marcia, creosoto, legna arsa, brodo, pelliccia e prugna California a comporne l’esausto spettro olfattivo, tannino amaro, acidità per proprio conto e sensazione generale di mancanza di articolazione all’assaggio. Frutto attendibile dell’annata forse meno regolare degli anni Settanta in Toscana. Qui, l’esito è una parentesi, evidentemente non positiva, nel quadro della nostra verticale. 1978 Granato spento, orlo appena più vivace. Naso fermo per oltre un’ora su toni ferrosi, di frutta stramatura e tabacco; poi, con placida lentezza, sfilano viola macerata, calcare, alcol e sangue, ma senza il dettaglio che spesso i ’78 mostrano, senza le finezze che ne hanno costruito la solida fama. Bella bocca, tuttavia, ruggente e inflessibile, che fodera le guance di acidi e tannino e apre alla fine un quadro di ben altra reattività rispetto allo statico rigore del profumo. Vino complicato da valutare; a sensazione, questo strano bouquet pare l’eredità, compromessa dal tempo, di una complessità in passato rilevante. Non è da escludere che altre bottiglie di questa Riserva possano contenere ben di meglio. 1977 Di un granato bruno, dalla scarsa luminosità. Naso aperto, ma su note dolciastre ed evolute; caramella d’orzo, chiodi di garofano, poi tintura di iodio, cappero, legna umida, porcino, pomodoro secco. Ha inoltre accusato una sorta di disgregazione al gusto: va al dunque in tempi rapidi, si appoggia a un’acidità che mostra scarsa interazione con il corpo del vino, e scorre via velocemente fino a un epilogo di poco significato, appena screziato di tinte floreali e speziate. Si allinea alla vasta maggioranza dei ’77 toscani, lasciando a poche etichette il ruolo di eccezioni a una regola che classifica il millesimo tra i meno appassionanti del suo decennio. 1976 Granato acceso, di una certa consistenza, con cuore brunito. La nuance di terriccio e humus è qui evocata in modo olografico ed è la sua frazione migliore; a lato, sensazioni ombrose di caffè, catrame caldo, torrone e carruba, poi tisana, mandorla tostata, chinotto e miele di castagno. Sfoggia al palato un carattere introverso ma interessante, la cui unica vera pecca è il sapore ammandorlato che accompagna l’intero svolgimento. Procede poi senza slanci ma in equilibrio fino alla fine, dove si affaccia qualche nota di fiore appassito. Ha limiti ben chiari, ma anche un’apprezzabile correttezza; per il millesimo, la troviamo una riuscita ammirevole. 1975 Granato appena velato, vissuto e caldo. Profilo maturo e disponibile, con note evolutive tipiche delle annate ricche (pomodoro concentrato, mallo di noce, marron glacé), altre di biscotto al burro, erbe aromatiche essiccate, e sullo sfondo un che di fluviale, di salmastro; la pungenza dell’acidità volatile aumenta col passare dei minuti nel calice. L’assaggio rivela un liquido denso, smussato e morbido, quasi appiccicoso nell’estratto e appena scisso nella frazione acida; prestante ma monocorde, si congeda su richiami mediterranei e sfuma salino, mediamente lungo. 1974 Granato netto e piuttosto consistente. È un vino cupo, introverso e persino un po’ fosco nelle note torbate e terziarie del naso: caffè tostato, cacao, agrume, muffa, toni ematici, terracotta. Bocca più coesa rispetto alla 1975, acidità meglio integrata, trama estrattiva più lasca e bella uscita salmastra, lunga e ricca di sapore. Contraddittorio tra naso e bocca, con quest’ultima in possesso di una vitalità superstite in cui il bouquet non avrebbe lasciato sperare. Da considerare un buon esito, superiore alla media dei pari età della Toscana centrale, nella quale, a cercare con attenzione, possono ancora trovarsi bottiglie almeno di analogo valore. 1973 Ipnotico colore trasparente e naso strepitoso, fine e dettagliato, in cui toni freschi di agrume rosso, muschio, fiori e carota incrociano note più profonde di ruggine, iodio e salsedine, e complessità terziarie ancor più spinte di calce e piombo fuso. La bocca è salda e maestosa, l’acidità di grande effetto nel purificare e quasi distillare lo scorrere del sapore, il finale è uno sfoggio di classe, al termine di una progressione scandita da tannino di perfetta grana e irreale purezza. Impossibile da prevedere così buono, data la fama solo discreta del millesimo, ma si tratta di uno dei più grandi vini del Chianti Classico degli anni Settanta mai assaggiati da chi scrive. 1972 L’ossidazione sfortunatamente molto avanzata sfrangia i contorni di un profilo ormai arreso sulle note estreme di colla vinilica, crostata, dattero, silicone e frutta fermentata; la struttura gustativa è scissa in due parti distinte, con l’acidità, cruda e tagliente, da una parte, e tannini slegati e ruvidi dall’altra. Il finale è in debito di coesione, esangue e vuoto, fuori fuoco anche nella “lettura minerale” che in genere questo vino non fa mai mancare. Annata del resto disperante in tutto il Paese, con pochi risultati sufficienti: era difficile fare meglio. 1971 Naso scuro e maturo in cui si stagliano una nota di confettura molto dolce di prugne e fragole, un sottobosco autunnale, corteccia, sentori di humus e felce, funghi e carrube, e una chiara sfumatura metallica. Per un profilo olfattivo incerto e poco definito, una bocca invece di notevole presenza tattile, sebbene forse un po’ statica; pare metterla sul piano fisico, e risulta più goloso che complesso, robusto e squadrato. Il migliore augurio che gli si possa fare per i prossimi vent’anni è che si alleggerisca un po’; possibile che allora riveli aspetti nuovi del suo potenziale. Annata calda e di scarsa produzione, ma in diversi territori classici italiani da annoverare tra le migliori del Ventesimo secolo: merita del credito, insomma. 1970 Evoluzione cromatica ultimata verso il tono aranciato. Altro assaggio affascinante da un millesimo climatologicamente diverso dal precedente, per dovizia di piogge nel periodo della maturazione e chiuso poi da un clima splendido nelle settimane della vendemmia. A distanza di quarantacinque anni espone un bouquet balsamico, aereo, molto carismatico, di carota, tè rosso, rame, henné, buccia di arancia e radici; coeso ed espressivo, ancora piuttosto tannico e puntellato da acidità funzionale a un perfetto equilibrio generale, apre alla fine un’aurora minerale, chiarissima, nitida. 1969 Di un colore amaranto di bella trasparenza, è esemplare figlio della sua irregolare vendemmia nella fragorosa scissione nasobocca: tanto è sconfortante il primo, una monotona salmodia su note di “alveare” (melata, propoli, cera) che non si smuove neanche a martellate, quanto è invece irrequieto il sapore, vivificato da sapidità irruenta e di non disprezzabile articolazione. Resta, è vero, un vino un po’ centrale (attacca timido, poi si apre, e torna a sfumare timido), ma non manca di fascino nel repertorio aromatico residuo. Un’altra bottiglia, aperta due mesi prima, aveva fornito esito identico. 1968 Bel granato lieve e luminoso. Verrebbe da definirlo “divertente”, tale la varietà olfattiva: ha note nette di resina, ma anche di sciroppo d’acero, china, rabarbaro, anice e menta, e altre, in progressivo rilievo con l’ossigenazione, di più convinta terziarizzazione (tamarindo, spezie scure, corteccia umida). L’assaggio svela una certa tensione, debordante sapidità, splendida freschezza; nonostante la qualità dei ritorni retrolfattivi nemmeno avvicini la complessità percepita al naso, e il tannino sia virtualmente eclissato, invoglia al riassaggio. 1967 Molto maturo e persino un po’ tarchiato al naso, su nuance di torrone alla nocciola, prugna secca, caffè zuccherato, carbone ed erbe da amaro. All’assaggio vive di aspetti contrastanti, di pregi e difetti entrambi piuttosto evidenti; il vino c’è ancora, è solido e ben piantato, molto sapido, ancora compatto; tuttavia il tannino è asciugato e stringe senza grazia, enfatizzato nell’astringenza da netta eco legnosa, e senza inoltre che questa specie di collera allunghi una persistenza in realtà abbastanza sbrigativa. 1966 Netto il rabarbaro a una prima indagine del bouquet, che mostra un’accettabile complessità – tutta terziaria – su note di ghisa, polvere, terra battuta, agrume; l’aria gli fa un gran bene, fino a rivelarne in mezz’ora un aspetto più delicato e floreale. Bocca severa oltre le previsioni, metallica nella parte minerale, cruda nell’acidità e stilizzata in fondo; l’uscita è molto sapida. Vino di proporzioni e non di dimensioni, ha limiti definiti ma personalità inconfondibile. Rappresenta uno dei migliori esempi rimasti di rosso del centro Italia dell’annata 1966, che nella sua regione resta purtroppo legata al ricordo dell’alluvione del 4 novembre. 1965 Nel bicchiere nero potrebbe essere scambiato per un infuso, o per un vecchio bianco nordico evoluto in maniera positiva: l’evocazione di alcuni profumi erbacei – finocchietto, mentuccia, carcadè – è incredibilmente verosimile. Accanto a questa nota ne sfilano altre, anch’esse leggere e fresche, di melograno, lampone, legno di balsa. La bocca è come la si aspetta: aspra, scorrevole, con bella distribuzione dei sapori, tannino elegante e un po’ verdognolo, struttura sinuosa, agile più che esile; finale puro e composto. Ha sempre fatto un’ottima figura nelle verticali di Coltibuono, e il bel risultato di questa degustazione è perciò in tutto attendibile. È, infine, il millesimo di nascita dell’Associazione Italiana Sommelier, quindi è il vino perfetto per il brindisi del cinquantenario. E dunque, prosit! 1964 Granato molto chiaro con riflessi dall’arancio al topazio. È uno dei più grandi Chianti Classico mai prodotti. Ha un naso semplicemente travolgente, completo, classico e sprizzante vitalità a cinquantun anni dalla vendemmia: note terziarie scure (tubo, saldatura) si fanno presto da parte scoprendo una vivacità aromatica eccezionale, su toni di arancia rossa, bicarbonato, papaia, maraschino, iodio, ciliegia; in bocca, l’intero patrimonio torna a proporsi, lungo un assaggio saporito e aggraziato, di pieno equilibrio, dalla straordinaria precisione e dall’epilogo emozionante per lunghezza e articolazione. 1963 Granato caldo con evidenti barbagli aranciati alla roteazione. Annata di rossi freddi e taglienti in centro Italia, e vino coerente con le attese, ma con risorse di resistenza all’ossidazione che non ci saremmo aspettati: il nucleo fruttato pulsa ancora, rilasciando flebili profumi di buccia di mela rossa e spezie, foglie secche e radici, per un bouquet non complesso ma se non altro fresco e gradevole. L’assaggio è letteralmente sferzato dall’acidità, risultandone illimpidito e semplificato insieme; il finale, scorrevole e corto, vede dilagare una percezione di forte asprezza, tanto da far ipotizzare una cospicua quota di malico da sempre presente nel corpo del vino. 1962 Altro millesimo dimenticato e vino che sembra quasi cercare, affidandosi al suo equilibrio naturale, il superamento di limiti in realtà non valicabili. Così, il 1962 appare diluito e leggero, assai cupo al naso per presenza di note legate a un tannino irrisolto (lentisco, cuoio, concia) e altre eteree e alcoliche, visto che la massa estrattiva difetta di mordente e lascia l’alcol sguarnito. Lo stesso avviene all’assaggio: è crudo, ossuto, e il solo elemento che lo renda interessante è la sapidità finale, molto intensa. Manca comunque qualcosa: forse l’energia, più ancora della struttura. 1961 Ha trovato un punto di aranciato trasparente veramente splendido e pieno di riflessi. Il profumo, custodito da leggera riduzione, è piuttosto acerbo: si dispone su note di mandarinetto, bacche selvatiche, metallo, iodio, rabarbaro e seltz, ma prelude a un sorso succoso e gradevole, ancora energico e vibrante, appena frizionato dal tannino. Il finale, su ritorni di bacche e fiori, lo qualifica come vino positivo, bene evoluto, anche se sorprendentemente magro per l’annata, caratterizzata da estate assai calda e siccitosa in tutto il Paese. 1959 Granato lucido, maturo, orlo luminoso. Grande naso di violetta, felce, terra e sale, con la parte fruttata che rammenta le gelatine di frutti di bosco e il fico dolce, e che accompagna una frazione più evoluta di liquirizia e pellame. Nulla farebbe pensare a una bocca stridente, decisamente tannica per l’età del vino e con le durezze enfatizzate dal limitato estratto e dalla violenta bordata salina del finale. Ottimo stato evolutivo a cinquantasei anni di età, ma non è vino ecumenico: qualcuno potrebbe trovarlo persino troppo aggressivo. 1958 Granato vivido con bordo arancio. Uno strano vino, o più probabilmente una strana bottiglia, che muove da premesse quasi rassicuranti – un naso dolce e morbido di pastis, frutta matura, fiori – e perviene a un impianto gustativo burbero, con tanto tannino ancora ringhiante, acidità affilata, e un po’ di amaro in fondo, dove appare qualche indizio di decadenza ossidativa. Non migliora con un’ora di bicchiere; anzi, l’insieme si fa più nebuloso e perde via via di definizione. 1955 Nettamente aranciato, limpido e brillante. Bouquet degno di questo nome per individualità e originalità: macedonia e naftalina, kumquat e sakè, muffa e cassis, e per dire il vero anche qualche cenno di sovramaturazione dopo venti minuti di sosta nel calice. Bocca dall’attacco morbido e ampio, piuttosto tannica lungo la progressione, succosa e saporita fino all’epilogo, dove si dischiude una splendida aromaticità; il sapore finale ricorda il pompelmo rosa. 1952 Siamo a oltre sessant’anni dalla raccolta delle uve, ma la tempra di questo vino è sbalorditiva; c’è una punta di affumicato a qualificare il bouquet, un che di brodo ad ammetterne la veneranda età, il classico sottobosco autunnale del sangiovese del Chianti Classico (corteccia, fungo, humus) e poi un dipanarsi di note stupendamente fresche e penetranti, tra la mela renetta e il pepe bianco. Al gusto attacca fine, elegante e misurato, ha ancora discreto mordente tannico, ma sa accelerare in modo rabbioso e nel finale sventaglia sale su palato e guance con la furia di un vino con la metà dei suoi anni. Un assaggio impressionante; tuttavia la 1952 è per comune sentire annata capace di performance simili anche in altri grandi terroir italiani – la Langa del Barolo, ad esempio. 1950 C’è davvero molto di metallico (ruggine, tubazione) in questo naso austero e caratteriale, che col passare del tempo finisce per chiudersi su un coacervo molto evoluto e terziario di vernice, tessuto, trementina, tisana, carciofo, pietra focaia; non manca una componente legnosa. L’assaggio è di piena coerenza, e non è un bene: rimanda al suo peculiare bagaglio di aromi in retrolfatto, dopo uno sviluppo esitante in cui manca l’apporto di grasso e materia fornito dal tannino e dagli estratti. Un vino compiuto, che si avvia al tramonto senza più un argomento che ne consigli l’ulteriore affinamento. 1949 Sensazionale bouquet di susina rossa e argilla, achillea e timo, pomodorino confit, soda, liquirizia, fiori, saggina, rabarbaro, bacche selvatiche; distensione e classe perfino superiori al palato, dove la sinergia tra estratti e acidità traccia un insieme di grande soddisfazione e grinta; il finale è ricco di suggestioni minerali e fresche, succoso, intenso. Tiene bene nel bicchiere per oltre due ore. Meravigliosa rivelazione e virtuoso esempio di come a due generazioni di distanza dall’epoca della vendemmia ci siano Chianti Classico ancora oggi quasi impazienti di raccontarsi, e capaci di farlo con stile, vigoria, espressività da fuoriclasse. Quale questo vino, a nostro avviso, platealmente è. 1947 L’intrigante coacervo di alghe, genziana, pane ai cereali, cappero, lilium e zenzero si fa più concreto e terroso con il passare dei minuti; vive in una sorta di penombra aromatica, sempre più scura man mano che arretra la pregevole rarefazione marina colta alla stappatura. In bocca è un vero spettacolo: irrorato dall’acidità, complesso e affascinante nel dialogo tra il rude tannino e la qualità degli aromi, si stende stupendamente e chiude sapido, articolato, vivo: la scodata salmastra su cui sfuma ha infine qualcosa di lirico. Esito superlativo come da speranzose attese: la 1947 è nota per essere annata di granitica tenuta, sebbene la sua espressione classica sia tutta sulla soavità, sulla ricercatezza. 1946 Di inesplicabile integrità al colore, che ha il cuore di un cerasuolo acceso a quasi settant’anni dal millesimo. Sa di ribes rosso, agrume, limatura di ferro, salsedine, torba, cipria, fondo di caffè, terra battuta, e alla fine concede una limpida nota di incenso; l’assaggio dona uno svolgimento teso e succoso, ma rigido e astringente nella trama tannica, di tenace persistenza e di uno sconcertante lindore nel finale caleidoscopico, che evoca l’odore delle pietre macinate, del gesso e dello iodio. Esperienza da fare in prima persona per crederci davvero; e dire che la 1946 non è mai stata un’annata celebrata negli annali. Questo invece è un inno al Sangiovese, un memorabile monumento al vignaiolo del Chianti Classico.