accadde a Milano cinquant'anni fa Antonello Maietta Quel 7 luglio del 1965 si respirava grande entusiasmo in Italia: nel pomeriggio la radio aveva diffuso la notizia della vittoria di Giuseppe Fezzardi alla quindicesima tappa del Tour de France. Nell’impegnativo percorso tra Carpentras e Gap, l’abile gregario della Molteni, giunto per primo sul Col de la Sentinelle, subisce a duecentocinquanta metri dall’arrivo la scorrettezza dello scatto in volata del belga Gilbert Desmet, rimasto comodamente al suo traino fino a quel momento. Le immagini dell’epoca ci consegnano una foto di Desmet che sta alzando le braccia al cielo, preceduto di un nulla sulla linea del traguardo dal “nostro” Fezzardi grazie a un fulmineo colpo di reni. Fu un duplice successo per il nostro Paese, poiché la vittoria del ciclista italiano consentì al corridore bergamasco Felice Gimondi di mantenere la maglia gialla con un vantaggio di trentaquattro secondi sul diretto rivale, il favorito della vigilia Raymond Poulidor, arrivando sette giorni più tardi a vincere il Tour a Parigi. Quasi nello stesso istante a Milano, “nella casa in via Quintino Sella 4, avanti a me dott. Marco Orombelli notaio” – come recita testualmente l’atto costitutivo dell’Associazione Italiana Sommelier – si erano riuniti il professor Gianfranco Botti, il dottor Leonardo Gerra e due sommelier, Ernesto Rossi e il mitico Jean Valenti, la tessera numero 1. Il ruolo fondamentale per gli sviluppi futuri dell’AIS lo interpreta quest’ultimo, elegante e garbato professionista poco più che quarantenne, che dalla mamma francese aveva ereditato il nome Jean e dal papà italiano il cognome. Nato, guarda il caso, in provincia di Bergamo come Felice Gimondi, si trasferisce ben presto all’estero per lavoro. per innalzare il profilo del suo celebre locale milanese. La perfetta padronanza della lingua francese, con il caratteristico accento tuttora in evidenza, gli consente di lavorare tra la Svizzera e la Francia. Provvidenziale risulta, agli inizi degli anni Sessanta, l’incontro con il commendator Angelo Pozzi, patron del “Savini”, il quale da abilissimo talent scout aveva intravisto nelle capacità di Jean Valenti un’interessante opportunità per innalzare il profilo del suo celebre locale milanese. Il capoluogo lombardo rappresentava nell’immaginario collettivo una meta particolarmente ambita, foriera di enormi possibilità per chi conosceva bene il proprio mestiere e aveva intraprendenza. La città era simbolo di opulenza, di ricchezza, chi arrivava al nord in cerca di lavoro sapeva che scegliere Genova o Torino avrebbe significato un futuro da operaio metalmeccanico, a Milano invece il salario sarebbe stato pressoché uguale, ma l’offerta variegata, accanto all’impiego in fabbrica, comprendeva ruoli da lavapiatti, pizzaioli, aiuto cuochi o camerieri nelle numerose attività di ristorazione in repentina crescita. Il rapporto diretto con una clientela facoltosa permetteva di incrementare non di poco il salario mensile, a dispetto tuttavia di un orario di lavoro più impegnativo rispetto al settore industriale. Inoltre, le occasioni di farsi apprezzare dalla clientela e dal datore di lavoro erano più immediate, con prospettive di evoluzione professionale e di carriera ben maggiori. Non dimentichiamo che il nostro Paese si trovava in pieno boom economico, al punto che il “Financial Times” nel 1965 considerava la Lira la moneta più affidabile del mondo occidentale; il benessere economico sufficientemente diffuso tra la media classe sociale rendeva possibile anche un pizzico di superfluo. I ristoranti si moltiplicavano in tutta Italia, con una cucina improntata sulle ricette della tradizione gastronomica regional-nazionale e il servizio di sala ancora un po’ approssimativo. Milano, a differenza delle altre città italiane, traeva impulso dagli influssi - oggi diremmo contaminazioni - della cosiddetta “cucina internazionale”. Inoltre, le figure professionali, tanto in sala quanto in cucina, si strutturavano in gerarchie nitidamente ispirate alla scuola francese. E se l’Italia e la Francia si sono sempre distinte per una sana rivalità, dal 16 luglio 1965, esattamente nove giorni dopo la fondazione dell’AIS, i due Paesi si sono ritrovati più vicini grazie all’apertura del Traforo del Monte Bianco, all’epoca il tunnel stradale più lungo del mondo, inaugurato dal Presidente della Repubblica Italiana Giuseppe Saragat e dal suo omologo francese Charles De Gaulle. Perché Milano è da sempre una metropoli operosa, dove il piacere di vivere la quotidianità è scandito da uno stile sobrio e misurato, una città in grado di offrire una chance a chi è capace di coglierla, un luogo ospitale e generoso, con un profilo umano molto più profondo di come appaia a uno sguardo superficiale. Anche per me, che milanese non sono, bensì romagnolo di nascita con un papà campano e una mamma ligure, non potendo vantare una radice nitida e univoca, Milano resta una città emblematica per laboriosità, accoglienza e, perché no, simpatia e cordialità. Milano suscitava consensi non solo in chi era dotato di elevate disponibilità economiche. L’emblematico inno cittadino Oh mia bela Madunina, composto nel 1935 dal milanesissimo Giovanni D’Anzi, riferendosi proprio alla Madonnina recita: “sotto di te si vive la vita, non si sta mai con le mani in mano”. Vale la pena ricordare che nel suo tessuto sociale l’ironia e la comicità hanno dato spazio a fior di talenti. La stessa canzone simbolo, a ben vedere, svela sorprendenti tratti ironici, con parecchie parole scritte volutamente in un dialetto approssimativo, con nitidi ammiccamenti alla lingua italiana, come quel dominet, verbo inesistente nel dialetto ambrosiano. Quasi a voler significare che la scorza apparentemente ruvida e impenetrabile dei suoi fieri e orgogliosi cittadini si adatta, si plasma e si integra in un abbraccio ideale con le molte anime venute da fuori, che l’hanno resa una realtà di caratura planetaria. L’Associazione Italiana Sommelier fin dai suoi esordi è stata molto “milanese” come filosofia, così permeata da una schietta e genuina impronta, e quanti sono passati dalle sue fila assomigliano un po’ a Meneghino. L’approdo al “Savini” non fu del tutto indolore per Jean Valenti, abituato ad altri standard. All’epoca anche nel ristorante più prestigioso di Milano, e probabilmente d’Italia, al momento di ordinare il vino il cameriere rivolgeva al cliente la fatidica domanda: “Bianco o rosso?”, servendo poi il vino sfuso in caraffine riempite dalle botticelle collocate nell’office. Le bottiglie, anche le grandi bottiglie, erano frettolosamente snobbate da chi si dedicava al servizio, sovente preoccupato di non far lievitare troppo il conto per poter beneficiare di una mancia adeguata. Il paragone non intende naturalmente mostrarsi irriverente, al contrario vuole evidenziare il carattere più autentico e sincero della popolare maschera milanese del teatro settecentesco e ottocentesco: un servitore intraprendente e leale, forse alquanto spavaldo nell’eloquio e sbruffone nei comportamenti, ma certamente gentile, affettuoso e disponibile verso tutti. È curioso notare come, a differenza della maggior parte delle maschere della tradizione italiana, Meneghino non abbia mai il volto coperto: appare sempre nelle sue reali sembianze e si fa apprezzare per arrivare subito al sodo, con la sua capacità di parlare in modo chiaro, immediato ed efficace. Non siamo fatti così anche noi Sommelier dell’AIS? Perfino dal punto di vista calcistico la città della Madonnina vantava un’indiscussa supremazia, tant’è che proprio nel 1965 il campionato italiano di calcio era stato una questione privata tra Milan e Inter, che si contesero la testa della classifica fin dalle partite di esordio. Ottenuta carta bianca dalla direzione e superata la diffidenza dei colleghi di sala, la prima operazione di Jean fu la ricognizione della cantina, dove giacevano numerose bottiglie di Barolo, non tutte ben conservate, degli anni Trenta e Quaranta, compresi il grande 1934 e l’eccezionale 1947. Le bottiglie che si salvarono dal suo severo giudizio furono vendute tra le 1.500 e le 2.000 lire, non poco se si considera che il vino sfuso costava mediamente 180 lire al litro. Il vino più costoso del locale anche allora era il borgognone Romanée-Conti, che annoverava tra i pochissimi clienti disposti a spendere 30.000 lire a bottiglia il commendator Bialetti, noto per le caffettiere con stampigliato l’omino coi baffi. Erano gli anni in cui Aristotele Onassis attendeva ai tavoli del “Savini” che la moglie Maria Callas lo raggiungesse al termine delle rappresentazioni nel vicino Teatro alla Scala. L’ugola di entrambi era solleticata dalle fragranti bollicine di Dom Pérignon che l’armatore greco si premurava non mancasse mai al suo tavolo, accompagnando la richiesta con una lauta mancia per il sommelier. E il commendator Pozzi si convinse definitivamente di aver fatto un ottimo acquisto. Nella ristorazione del capoluogo lombardo i consumi di vino erano cospicui e la zona di produzione più vicina, l’Oltrepò Pavese, non si era ancora scrollata di dosso l’immagine di un prodotto economico per il consumo della famiglia. La Franciacorta era lievemente più distante in termini di chilometri, ma lontanissima dalla visione attuale di un sistema produttivo eccellente e consolidato. Il Piemonte enologico spadroneggiava, il Veneto seguiva a ruota, la Puglia approvvigionava soprattutto le attività commerciali dei corregionali. Fu lui a stimolare Jean Valenti a creare un’associazione che riunisse i migliori professionisti di un settore che si stava rapidamente emancipando. I suggerimenti del professor Botti non collimavano tuttavia con le aspirazioni del commendator Angelo Pozzi, il quale avrebbe preferito collocare il nascente sodalizio sotto l’egida dell’AMIRA (Associazione Maîtres Italiani Ristoranti e Alberghi), di cui era Presidente nazionale, attraverso una sezione dedicata. Ad allontanare ogni perplessità ci pensò Angelo Zola, Presidente dell’AIBES (Associazione Italiana Barman e Sostenitori) e dell’IBA (International Bartender Association), unanimemente considerato un’alta figura di riferimento dei barman di tutto il mondo, con il quale Valenti condivideva una solida amicizia. Le sue parole furono molto eloquenti: “Caro Jean, se fossi in te, per i sommelier creerei un’associazione nuova. All’inizio farai più fatica, ma la libertà non ha prezzo! Non sarai mai obbligato a seguire scelte che non condividi”. Per questo motivo Milano, non avendo alcuna sudditanza psicologica nei confronti di un’inesistente produzione locale, diventa il crocevia del mercato del vino di qualità, un processo che negli anni seguenti ha fortunatamente contagiato l’intera Penisola. Ci fa piacere pensare che l’Associazione Italiana Sommelier sia stata attiva artefice di questa evoluzione. Il “Savini” costituisce il luogo fisico in cui l’AIS ha preso forma: qui era solito sedersi il professor Gianfranco Botti, manager e imprenditore del settore chimico, appassionato gourmet per diletto. Fin dalla sua fondazione, la sede nazionale dell’AIS è sempre stata a Milano: dopo una prima collocazione provvisoria presso il dottor Leonardo Gerra, socio fondatore e commercialista, che aveva messo a disposizione una stanzetta del suo studio in via Paleocapa 3, ci fu una breve parentesi al CAPAC, il Politecnico del Commercio di viale Murillo: qui nel 1968 si svolse il primo corso per sommelier realizzato nel nostro Paese. In seguito si registrò il trasferimento in corso di Porta Romana, prima di approdare a due passi dal Duomo, al numero 1 di via Cesare Correnti, al Carrobbio. Nel 1984 infine, grazie al coraggio degli illuminati dirigenti di allora, guidati dal Presidente Dino Boscarato, fu acquistata l’attuale sede di viale Monza 9 attraverso una sorta di sottoscrizione popolare tra i Soci, con la volontaria adesione al pagamento anticipato di 240.000 lire, corrispondenti alle quattro quote associative per le annualità dal 1984 al 1987. Milano espresse anche i primi tre Presidenti, poiché dopo il professor Botti, che restò in carica per un anno esatto, nel 1966 arrivò alla guida dell’AIS Rinaldo Pozzi, figlio del commendator Angelo. Dal 1973 al 1981 fu la volta di Franco Colombani, l’indimenticato oste del “Sole” di Maleo, un comune a sud di Milano entrato nel 1992 nella nuova provincia di Lodi. Il primo Presidente non milanese sarà, dal 1981 al 1990, il già ricordato Dino Boscarato, originario di Mestre. Milanesi di nascita o di adozione furono anche i numerosissimi personaggi che contribuirono alla crescita dell’AIS, dal segretario generale Franco Tommaso Marchi ai fratelli Solci dell’enoteca di via Morosini, dall’eclettico Antonio Piccinardi al vulcanico Luigi Gaviglio e via di questo passo. Se da un lato è impossibile ricordarli tutti, una circostanza rimane saldamente ancorata nella nostra memoria e nel nostro orgoglio di appartenenza: la storia dell’Associazione Italiana Sommelier è stata costellata da traguardi sempre più significativi e da innumerevoli successi, ma anche da momenti difficili e da scelte dolorose. In tutte le occasioni in cui abbiamo dovuto prendere decisioni sul nostro destino, abbiamo ricordato le parole che furono di sprone a Jean Valenti: “La libertà non ha prezzo!”.