Voti o giudizi? Spiegazioni dettagliate o simboli da decifrare? Quando il compito del critico si fa, anch’esso, critico.
mai devoto
al voto
Valerio M. Visintin
C’è un dettaglio indigesto tra le gioie che, malgrado tutto, illuminano il mestiere di cronista gastronomico al quale mi applico da un quarto di secolo. Ovvero: le pagelle. Quelle che mi tocca assegnare ai ristoranti di cui parlo. Il “Corriere della Sera” me le chiede. E io, fedele nei secoli, gliele confeziono a corredo delle mie recensioni. Tuttavia, se appena ho un margine di contrattazione, le abrogo. Non è che non ne comprenda la forza attrattiva, dato che da lettore io per primo la subisco. Il fatto è che le trovo inadeguate, limitate, fuorvianti, inadatte a riassumere glorie ed eventuali infamie di una macchina complessa come quella di un ristorante.
C’è, innanzitutto, un’ambiguità di fondo, dovuta alla natura meravigliosamente inessenziale di un’uscita a cena.
Mi spiego meglio. Poniamo che si scelga un criterio numerico da 1 a 10. Quale ciofeca ci dovranno servire per meritare un 5? Dovranno avvelenarci. Indurci a chiamare i Nas e la Protezione Civile. Intendiamoci, siamo fornitissimi di locali scadenti o mediocri. Ma le schifezze che comporterebbero una assoluta insufficienza sono ancora (non so dire per quanto) evenienza sporadica. Però, è pur vero che il 6 risicato, al quale si aggrappa uno studente distratto, non basterebbe a promuovere e consigliare un ristorante.
Bisognerebbe essere più disperati che affamati per sedere al tavolo di un locale che sulla carta valga così poco.
Paradossalmente, insomma, il 6 è paragonabile a una bocciatura. E siccome le eccellenze sono un panorama egualmente rarefatto, finisco per concentrare la stragrande maggioranza dei voti in una fascia ristrettissima, che si colloca tra il 6,5 e il 7,5. Minando la credibilità di quei numeri, che sembrano appiattiti su un solo registro.