Uscii di casa con uno strano senso di irrequietezza, tipico di chi vaga alla ricerca di qualcosa di indefinito da dover afferrare. Avevo tutte le informazioni necessarie, eppure mancava qualcosa. Mi mancava quell’elemento profondo oltre l’essenza, quello senza il quale le parole sarebbero state spoglie come un personaggio senza volto, un limbo in cui le stesse avrebbero potuto risuonare stucchevoli sull’eco di una poetica ispirazione, oppure sintetiche e sterili, al limite della noia, piatte come quelle in ordine sparso che compongono certe etichette. Faceva molto caldo quella mattina nell’operosa pianura sulla riva sinistra del Piave. Arrivai davanti a una tipica casa colonica, una delle poche non ancora completamente deturpate dall’avvento post moderno del rinnovamento estetico ad ogni costo. Entrai nell’ampia corte passando sotto una lunga arcata di mattoni rossi sorretta da spessi muri portanti. Il prato verde, il pozzo in pietra e tutto intorno gli edifici che un tempo segnavano lo scorrere della vita: le stalle, i magazzini, le abitazioni e l’immancabile cantina. Era mezzadria; intere generazioni a far da traino a secoli di economia rurale, gambizzata da episodi di inumana violenza giustificata dall’ideale scopo dell’unificazione e della libertà dallo straniero, e in cambio della propria opera al padrone di turno si riceveva sopravvivenza o vita, a seconda delle annate. Grazie alla loro fatica ogni ben di Dio fu qui caricato sui burci che avanzavano colmi sulle quiete acque del Piave a ingrassare gli aristocratici fontéghi veneziani, e pagata anche la decima e il quartese alla Chiesa, restava di che vivere o un piccolo guadagno da trasformare in farina per il pane, per variare la dieta a base di sola polenta.
Le pesanti imposte di legno scuro erano chiuse, tanto da conferire un’aria disabitata. Mi colpì subito una pergola di vite che adombrava il piccolo uscio di un edificio tutto bianco adibito alla vendita.