I punti di contatto tra vino e musica sono numerosi e si possono rintracciare su livelli nascosti, lontani dalle analogie più intuitive e dirette. Lasciamo stare per il momento i classici raffronti sinestetici – con il loro corredo di sensazioni gratuite e indimostrabili quali “questo Riesling mi ricorda quando mi tolsi il dente del giudizio a Saronno e l’anestesia mi fece sentire un sapore tiepido, metallico, finché non svenni” – e vediamo per cominciare alcuni aspetti strettamente pratici.
Prendiamo il legno, ad esempio. Gli snodi principali della preparazione e della lavorazione del legno da usare per le botti sono in sostanziale sovrapposizione con quelli riservati alla creazione di strumenti musicali, quali violini, viole e violoncelli. Possono differire le essenze, ma le plance lignee sono dapprima stagionate all’aperto, magari per anni (al caldo e al freddo, con l’umido e il secco), quindi vengono tagliate per spacco (e non segate). Solo in questo modo il rovere per le botti e l’abete rosso (più raramente altre varietà, come il pioppo o il salice) per gli archi raggiungono la stabilità e la qualità migliori.
Con le botti migliori il vino ha un suono più armonioso; con i violini migliori la musica ha un gusto più fine e infiltrante.
Proseguiamo su un terreno meno stabile. Per alcune popolazioni – che definire primitive è presuntuoso – la divinità è un suono. Il suono è una vibrazione. Una vibrazione misurabile. Differisce dal rumore perché è una vibrazione armonica, mentre il rumore è una vibrazione o un grumo di vibrazioni non armoniche. Ma noi, nella nostra inalienabile libertà di sentire quello che ci pare e di fare libere associazioni, possiamo considerare suono anche un rumore particolarmente emozionante: per un vinificatore il gorgoglio del suo mosto in fermentazione può essere un suono melodioso.