Mike Veseth è un economista e scrittore di vino, forse non noto al grande pubblico dei degustatori d’Italia, ma il suo libro Wine Wars, pubblicato nel 2011 e vincitore di molti premi, è quasi una pietra miliare del nuovo modo di intendere ciò che è globale e ciò che non lo è, passando per la finta globalizzazione e il business enologico. Al di là delle congiunture economiche, delle strategie di marketing, o del rivoluzionario “marketing sensoriale” che animerà l’approccio al vino delle nuove generazioni, avvezze a smartphone e WhatsApp, Veseth lancia un grido di allarme: al meeting Wine Vision 2014 ha dichiarato che il vino è sotto attacco come alcol in Europa, mentre in molte altre nazioni del mondo è aggredito da fobie proibizioniste. C’è una scorrettezza sostanziale, conscia o inconscia: si vuole vedere il vino come una bevanda esclusivamente alcolica, piuttosto che identificarla come “cibo culturale”. Eppure una volta il vino era “alimento”. Eppure è, a tutti gli effetti, una bevanda moderata. Si deve dunque ripresentare il vino nella sua essenza positiva: vino come salute, come cibo, come prodotto culturale.
Le affermazioni di Mike Veseth calzano a pennello con quanto l’Associazione Italiana Sommelier ha fatto nei suoi primi cinquant’anni e farà finché si produrrà vino: presentare il vino come cultura. Quando l’AIS fu fondata nel 1965, parlare di vino era quasi un’utopia. Il prezzo di vendita al consumo era di 180 lire al litro: per avere dei termini di paragone, il caffè costava 60 lire e la benzina 120. Nei primi anni di transizione verso l’enoconsumo resistevano magnifici e rimpianti (oggi) esempi di fiaschetterie, dove il vino sfuso primeggiava, e tra marzo e aprile – epoca di svinatura – combriccole di bevitori cittadini si organizzavano per rifornirsi in campagna di damigiane di vino in quantità tale da arrivare all’annata successiva. Nei pochi ristoranti, privi di sommelier, la domanda di rito, prima di pensare alle pietanze, era: “Bianco o rosso?”. E il raro vino etichettato aveva un blasone maggiore di quello odierno. In quell’anno avventuroso il consumo pro capite di vino era di 110,1 litri. La bevanda vino cercava di resistere come alimento in una quotidianità che non aveva più bisogno di fornire un apporto energetico sostanzioso per sopperire alla fatica del lavoro; le campagne si svuotavano, e quella migrazione in versione “via Gluck” modificò per sempre la destinazione di beva del vino. Sotto un certo aspetto, quel vino è stato tradito, è stato allontanato dal suo essere “cibo culturale e naturale”, perché quella cultura del “bere” vero e proprio non poteva trasformarsi immediatamente in ciò che oggi si tenta di recuperare come prodotto culturale: la cultura va a braccetto con l’istruzione.
L’Associazione Italiana Sommelier fin dai primi corsi ha tracciato un sentiero per raccontare il vino oltre l’essere bevanda attraverso lo slogan “Bere meno, bere meglio, bere qualità”; era una verità che quel vino non trattenesse a sé le migliori qualità di una filiera enologica ancora non costruita: gli enologi erano rari come le odierne rondini. Eppure l’AIS contro tutti e tutto si scornò con l’allora industria vinicola e con la strategia produttiva delle strutture cooperativistiche che premiavano chi produceva quantità. Quella perdita di litri al consumo fu una vittoria, perché vi fu dispersione di liquido dalla qualità dubbia, che trovò la sua esplosione e morte con lo scandalo del metanolo (1986). Si impose la bottiglia – e questo fu un gran passo –, ma il mercato non vide la presenza attiva di produttori di vino acculturati, spesso non interessati a valorizzare la territorialità, tanto che le prime denominazioni consentivano l’imbottigliamento di vini pregiati al di fuori dei territori di produzione.
Quei primi anni di legislazione non contribuirono a far risaltare il concetto di autenticità del vino, anzi lo allontanarono definitivamente dall’essere prodotto culturale. Diventò merce, e come merce ha lasciato spazio a confronti con altre bevande, dalla birra a quella che nessuno considera un competitor, ma che potrebbe a tutti gli effetti esserlo, ovvero quell’acqua imbottigliata e gassata, che agli inizi degli anni ’70 era possibile ottenere in modo autarchico. Quando il vino è tornato all’attenzione, noi c’eravamo, l’abbiamo spinto, l’abbiamo coccolato per oltre vent’anni, poi ha allungato il passo e si è staccato dall’abbordabile rapporto qualità/prezzo che vestiva fino agli inizi del ’90, si è fatto sedurre dal marketing, dalle competizioni e da un mondo di premiatori anziché di bevitori; e forse anche noi dovremmo ripensare a certi passi. La critica situazione dell’attale consumo è stata prodotta da un incrocio di circostanze, ma un brutto colpo è conseguente alle “stragi del sabato sera”, cui il vino non è partecipe colpevole: però c’è l’alcol. Il nesso tra alcol e vino è stato un tutt’uno a essere saldato; non si è guardato al solo lato dell’abuso, benché il vino sia sempre stato “uso”.
Chi sta con il vino deve fare qualcosa, anzi tutti quelli che stanno con il vino devono farsi riconoscere e dialogare insieme, perché non è detto che quanto è stato già definito non sia ridisegnabile e/o riformulabile. Prevenire è meglio che curare, però terrorizzare non è una cura, piuttosto può trasformarsi in una sfida. Proibire potrebbe invitare addirittura alla trasgressione, soprattutto nei giovani. La prevenzione passa attraverso la conoscenza, l’educazione, il riconoscere la consapevolezza e la moderazione. Per questo il vino va recuperato e ripresentato al consumo quotidiano come elemento positivo, perché legato all’autenticità di un territorio, perché è un momento creativo pensato dall’uomo e non dal computer, perché è salute. Se non è più assimilabile a “cibo”, è da valorizzare come prodotto culturale, anzi storico.