un vino allo specchio Roberto Bellini Lo stesso anno in cui il Rigoletto di Giuseppe Verdi andava in scena per la prima volta a Venezia, era il 1851, in Spagna comparivano le prime bottiglie di vino effervescente. L’antenato dell’odierno Cava germogliò poco dopo, nel 1872, per opera di Josep Raventós, che iniziò a impiegare il metodo champenoise dopo alcuni viaggi effettuati nella Champagne per promuovere i vini fermi di Codorníu. Per questo vino, chiamato champaña, oppure xampany, in catalano, Josep Raventós scelse di non utilizzare le stesse varietà della Francia, affidandosi invece a quelle locali: xarel-lo, macabeo, parellada e subirat, tra quelle a bacca bianca, garnacha, monastrell e trepat per quelle a bacca scura, peraltro in misura molto minoritaria. Nel Cava della Catalogna – così è corretto dire, perché la legge spagnola lo prevede anche in altre zone, come Rioja, Aragón, Valencia, Badajoz, Aranda de Duero e Navarra – la fusione organolettiva di tre uve in particolare regala affinità elettive con la cuvée della Marne. Infatti, lo xarel-lo apporta struttura e potenza, il macabeo (viura) dà un’acidità che si traduce in energica freschezza e vibrante mineralità, mentre la parellada sembra assumere il compito che svolge il pinot meunier nello Champagne, ossia dare un carattere cremoso all’esuberanza delle altre uve. Lo chardonnay trova spazio a partire dal 1981, seguito poco dopo dal pinot noir, oggi sfruttato, insieme al trepat, per ottenere i rosati. Questo vino nel tempo ha percorso parecchia strada e superato alcuni sconvolgimenti, come il cambio del nome in “Cava” (in catalano significa “cantina”) quando la comunità europea concesse l’uso del termine Champagne e degli aggettivi collegati esclusivamente ai vini ottenuti nel comprensorio della Champagne/Ardenne. Ha accettato la compagnia dello chardonnay e del pinot nero, allontanando le più tradizionali garnacha e monastrell; ha anche innovato il metodo del remuage, inventando e adottando senza remore il sistema automatico delle giropalette. Dopo questo lungo viaggio, forse cominciando a intravedere le prime rughe, il Cava si è guardato allo specchio per definire quale maquillage adottare. Ha notato subito qualche riflesso che lo teneva intrappolato nel suo luccicante passato, il fatto di essere associato ai tappi che saltano, come lo Champagne, di essere destinato a celebrare eventi, matrimoni, feste e festini, e di abitare nell’esclusività del jet-set internazionale, magari stappato dal vincitore di una gara automobilistica o dal primo arrivato alla tappa della Vuelta. Accompagnarsi dal cibo sembrava marginale e occasionale. Rispetto allo Champagne, il Cava e gli altri vini delle stessa tipologia, vedi Franciacorta, Trento Doc e i Crémant, hanno sofferto una situazione di continua comparazione, che li ha relegati a un rango diverso (non necessariamente inferiore). Nonostante il metodo produttivo in comune, lo Champagne è riuscito a mantenersi distaccato, e la scomparsa di ogni riferimento che ricollegasse gli altri vini al suo nome lo ha proiettato in una posizione così vantaggiosa che anche i più forti competitor non riescono ad accorciare la distanza. L’analisi del successo è sinteticamente espressa da Jean-Robert Pitte nel libro Il desiderio del vino alla conquista del mondo (2009). Si chiede l’autore, riferendosi allo Champagne: come ha potuto verificarsi un tale successo universale? “Grazie ad alcune virtù reali e soprattutto al talento per la comunicazione di coloro che hanno parlato, e ne parlano, in quanto lo amano veramente, perché hanno vissuto bei momenti grazie ad esso, o perché ci campano e cercano perciò di venderlo.” Il riscontro a quest’affermazione si estrapola dalle parole di Henry Vizetelly, scrittore ed editore, che nel 1882, sempre a proposito di Champagne, con enfasi di rassegnata felicità così scriveva: “Non siamo capaci di aprire una linea ferroviaria, varare una nave, inaugurare un edificio pubblico, creare un giornale, distrarre un ospite illustre, invitare un uomo politico importante per ingraziarci la sua opinione su questioni di interesse generale, celebrare una ricorrenza o fare un appello particolare a un’istituzione caritatevole senza organizzare un banchetto e, quindi, senza ricorrere allo Champagne”. Guardandosi allo specchio, il Cava ha preso in considerazione queste espressioni critiche, e oltre a migliorarsi enologicamente, soprattutto in quest’ultimo decennio, ha imboccato la strada dell’abbinamento al cibo. Gli sforzi per affinare le qualità del Cava e arrivare a punzecchiare i due colossi dello spanish sparkling, che rispondono al nome di Codorníu e Freixenet, partono dalla metà del secolo scorso. Un’icona del nuovo Cava investe direttamente Freixenet e il suo geniale packaging total black del Cordón Negro, la cui eleganza di colore è anticipatrice del Clos d’Ambonnay di Krug. Sono due i binari su cui il treno Cava si muove: si dirige verso quei vigneti le cui uve sono meno adatte per vini fermi, mostrando migliori prospettive per l’effervescenza e la fusione con l’acidità, e dà spazio al suo utilizzo nella quotidianità del consumo di cibo. L’innovazione interpretativa del savoir-faire trova linfa nelle piccole bodegas. Gramona, Juvé&Camps, Torelló, Alta Alella e Albet i Noya possono essere considerati parte di quel nuovo Cava che ha deciso di rimirarsi allo specchio. Strizzano l’occhio, con parsimonia, allo chardonnay e al pinot nero, in grado di smussare il tono ruspante che affievolisce la profondità minerale del gusto, per costruire quella soffice eleganza che crea facilità di approccio a certi sapori decisi delle pietanze. “Per i tuoi momenti culinari scegli il Cava”: echeggiano i PR delle bodegas, consigliandolo con le tapas, con il gusto speziato (zafferano) della paella, con il baccalà, con le frittate. Il Cava si addice a tutti i tipi di cibi, ha una grande versatilità di impiego – insiste il marketing –, va bene per tutto il pasto, anche su alcuni dessert. Un aiuto alla versatilità è stato offerto dalla nouvelle vague della ristorazione spagnola, che ha trovato un alleato prezioso nella rivoluzionaria reinterpretazione dei gusti e dell’approccio alla pietanza di Ferran Adrià. La solidità di sapore creata da Adrià incontra un’ammaliante non-consistenza di struttura, senza che il ricordo del gusto si disperda per via di una masticazione meno prolungata. In queste condizioni il Cava si mostra ideale avversario, poiché non contrasta l’intreccio aroma/sapore, ma avvolge tutte le sensazioni, le accerchia e infine le fa ondeggiare come se il cibo e il vino si librassero su un’altalena biposto. Ancor più efficace è l’assist che il genio culinario di Juan Mari Arzak ha offerto al Cava. Ha preso la cucina basca, un crocevia di sapori che rischiava di scomparire, e l’ha completamente riformulata e dipinta. “Il colore è un altro gusto” è una delle sue più lucide intuizioni. Con questi gusti sospesi tra antico, moderno e futuro, il Cava si è trovato in perfetta sintonia, in primo luogo perché presenta un gusto non antico; secondo, perché l’effervescenza qualche volta si ritira per la siesta, cioè non spinge l’acidità e si scioglie nella propria pungenza, consentendo al vino di non infrangersi contro la barriera dei sapori: come in una gara di equitazione a ostacoli, li salta sfiorandoli, li fa oscillare, ma non li fa mai cadere. Se gli aiuti siano giunti seguendo una strategia non è dato sapere, ma lo sdoganamento dei sapori spagnoli, conseguente anche alla fine del regime del Caudillo e alla nuova visione dello Stato, ha avvantaggiato lo sviluppo qualitativo del Cava, come degli altri vini. Al consumatore che decide di degustarlo a tutto pasto, non dotato di un’approfondita conoscenza del vino, viene incontro la legislazione, che prevede tre categorie: Cava, Cava Reserva e Cava Gran Reserva. Ad ogni nome corrisponde un diverso tempo di sosta sui lieviti, per cui differenti autolisi e diversa complessità di profumo e gusto. La sola dizione Cava rappresenta un vino suave (dal gusto gentile) e fruttato, semplice e gradevolmente fuggevole. Ha veste trasparente, un paglierino tenue con riflessi verdolini. I profumi offrono una sensazione di floreale freschezza e di frutta non ancora matura; la sapidità non vuole apparire come prima ballerina, regala piuttosto un piccolo prezioso contributo al caleidoscopio dei sapori. Si abbina con i canapè, gli sfiziosi snack dell’aperitivo; va bene con le ostriche, perché non troppo vivace in acidità, con gli antipasti di mare, con le zuppette di telline e di vongole in bianco; è ottimo per accompagnare le olive spagnole e quelle all’ascolana, o ancora l’aringa con le patate e, perché no, un carpaccio di pesce. Il Cava Reserva è il vino della tradizione. La sosta per quindici mesi fa evolvere le tonalità del colore e del profumo, ingiallisce la tinta e fa maturare il frutto. Cresce la stratificazione del gusto, si allungano i ricordi del retro aroma, la sensazione di voluminosità gassosa al palato si fa più resistente; ciò non destabilizza l’equilibrio gustativo, anzi questa leggera perdita di esuberanza acidula consente alla mineralità di appropriarsi di un piccolo spazio nel parquet dei sapori e riesce ad allungare la persistenza gusto-olfattiva finale. Il Reserva gradisce piatti dai gusti più intensi, anche un po’ saporiti: spaghetti allo scoglio, alle vongole, aglio olio e peperoncino, o semplicemente conditi con pomodori di Pachino e foglioline di basilico, risotto con verdure, pietanze a base di asparagi bianchi e verdi, e tutto quanto gira intorno a pesce e crostacei. Il Cava Gran Reserva è la quintessenza. Trenta mesi in bottiglia fanno brillare di dorato la base paglierina del colore. Il profumo acquista le calde note della tostatura, dei biscotti al burro, della frutta e un accennato mix di fiori gialli e miele. Il Gran Reserva assiste con onore la carne bianca, impiegata come sugo per la pasta, oppure fritta o bagnata con vino e/o limone, il pesce arrosto e alla mediterranea, l’aragosta alla catalana con o senza frutta e il fritto misto di mare. Non abbiate timore di arricchire le salse e rinforzarle con le spezie, il Gran Reserva non teme il confronto e flirta anche con le salse al formaggio. Nel suo incessante rincorrere i sapori del cibo, fa tesoro della sua bilanciata combinazione gusto-olfattiva tra durezze e morbidezze, per avvicinarsi anche alla cucina orientale, dall’India al Giappone passando per la Cina. Anche la nuova frontiera del gusto della cucina etnica, che appare nelle città d’Italia e d’Europa, come la cucina libanese, tunisina, brasiliana o argentina, diventa un campo di abbinamento per il Cava e non lo costringe a giocare in difesa. Il viaggio nell’abbinamento è stato finora interpretato in stile italiano. In Spagna è sponsorizzato sul prosciutto iberico, sulla paella, con i cibi a base di acciughe e sardine o con il formaggio di pecora Manchego. Nel confronto tra le espressioni fruttate del Cava e lo spiccato profumo di lieviti dello Champagne, tra la delicata mineralità che minimizza il flavour di pane del primo e la fragranza da forno del secondo, i sommelier spagnoli individuano un punto a favore del Cava nell’abbinamento con i sapori culinari tipici della Spagna, soprattutto per le preparazioni accompagnate da salse cremose e soffici o dalla maionese, siano esse a base di carne bianca o, come più ovvio, pesci e crostacei. Il Cava cerca di adeguarsi all’evoluzione dei gusti planetari ispezionando anche i nuovi orientamenti del bere d’oltreoceano: ora che si avverte una certa tendenza per il gusto semidolce e/o dolce del bianco con CO2, il marketing ha prontamente cambiato le indicazioni di consumo del Cava semisecco, spostandolo dal tradizionale abbinamento con i torroni morbidi, i dolcetti di marzapane, i sorbetti e le torte di mele a un più modaiolo aperitivo con tapas semipiccanti, saporite, con dadolata di pomodoro e chorizo alla paprica. Passando ai numeri, si producono 200 milioni di bottiglie di Cava all’anno, per metà esportate oltreoceano e nel quadrante orientale. La DO fu istituita nel 1959. I 35 gradi della temperatura estiva hanno prodotto un accurato studio sulla sostenibilità di un’equilibrata condizione di maturazione anticipata del prodotto, per non “bruciare” quel fruttato (un po’ agrumi, un po’ mela verde, un po’ susina) che consenta di sostenere il sapore di un’acidità altrimenti in sofferenza nel momento in cui deve sciogliersi nel pizzicore del diossido di carbonio. I produttori sono 271, la resa si aggira sui 120 quintali per ettaro per le uve bianche, 80 per quelle rosse. Rispetto a qualche anno fa, il mercato è oggi in grado di offrire un ventaglio di profili organolettici più variegati, distinti dall’imperante flavour stile Codorníu e Freixenet, i quali, tuttavia, per molti anni hanno fatto il bene del territorio. La nuova linfa produttiva irrompe sul mercato con tendenze originali: c’è chi si sta focalizzando con l’organic, come Albet i Noya, chi cerca vitigni alternativi rispolverando l’ispanico matarò, come Alta Alella. Al di fuori del Penedés, nella Rioja Bodegas Muga impiega per il Cava le uve provenienti dai vigneti più alti, che darebbero un vino fermo dalla personalità troppo neutra. Buon successo ha riscosso Dominio de la Vega, intervenendo nella composizione della cuvée con uno chardonnay di rara eleganza. Il Cava, dopo essersi specchiato, si è mosso. Adesso, dallo specchietto retrovisore valuta se può considerarsi in fase di sorpasso.