sua maestà,
il tortellino

Cecilia Buonagurelli

Quale città ha dato i natali al tortellino, capolavoro ripieno di storia e tradizione? I buongustai ne discutono con passione e animato fervore campanilistico, brandendo posate e ricette.

Quante storie e quante leggende sono state scritte e raccontate su questo piccolo, vanitoso, egocentrico, succulento e delizioso tortellino, e quanti dibatti e sfide si sono consumate intorno a una delle paste ripiene più note d’Italia! Da secoli, infatti, se ne contendono la paternità Modena e Bologna, città spesso in conflitto su questioni tutt’altro che serie. “Sapete ch’è tra lor ruggine vecchia / e che più volte s’han la testa rotta. / Ma nuova gara or sopra d’una Secchia / han messa in campo; e se non è interrotta, / l’Italia e ’l mondo sottosopra veggio. / Intorno a ciò vostro consiglio chieggio” (Alessandro Tassoni, La secchia rapita).

La nota ed eterna rivalità tra le vicine province è stata narrata e cantata da poeti e scrittori, i quali talvolta hanno sdrammatizzato la questione inventando assurdi motivi di duello. È il caso appunto di Alessandro Tassoni che racconta dell’ennesima schermaglia tra Modena e Bologna nata per colpa di un secchio, peraltro forato, per raccogliere acqua. Ma tra i due sfidanti, come si sa, il terzo gode: è infatti Castelfranco Emilia, località situata tra le due province, ad essere riconosciuta come patria del tortellino. La storia non si è ancora pronunciata in modo ufficiale, ma frivola, schierata e divertente leggenda sì. Ovviamente ogni storia cambia secondo chi la scrive, e questo vale anche per il tortellino, che a volte nasce a Modena e altre a Bologna. È il caso, ad esempio, del poemetto ottocentesco di Giuseppe Ceri La nascita del tortellino. L’ombelico di Venere. L’autore, partendo dalla trama dell’opera di Tassoni, scrive una divertente storia sulla nascita del tortellino, poco apprezzata dai modenesi poiché Castelfranco, riconosciuta come città natale, era allora (diversamente da oggi) sotto il dominio dei bolognesi. L’opera del poeta bolognese, richiamando l’episodio tassoniano dell’arrivo in terra delle divinità per schierarsi con le due province rivali, narra in particolare della sosta di Venere, Marte e Bacco che “vollero dar riposo al faticato fianco / nell’antica osteria di Castelfranco”. In quell’occasione, Venere, rimasta sola dopo che Marte e Bacco se ne erano andati per la campagna, fu raggiunta dall’oste che, rimasto folgorato dalla visione dell’ombelico della Dea, cercò subito di imitarlo con la sfoglia. “Come se fosse sola, / le candide lenzuola / spinse in mezzo alla stanza, / le belle gambe stese, / dall’ampio letto scese / con un salto sì poco misurato / che sollevandosi la camicia bianca, / poco più su dell’anca, / onde l’oste felice / (lo dico o non lo dico?) / di Venere mirò il divin bellico! / Ma non si creda già / c’he a quella vaga e seducente vista / pensieri di conquista / l’oste pudico entro di sé volgesse; / anzi un’idea soavemente casta / d’imitar quel bellico con la pasta / gli balenò nel capo; / ond’egli qual modesto cappuccino, / fatto alla Diva un riverente inchino / in cucina discese; / e da una sfoglia fresca / che la vecchia fantesca / stava stendendo sovra d’un tagliere, / un piccolo e ritondo pezzo tolse, / che poi sul dito avvolse / in mille e mille forme / tentando d’imitare / quel bellico divino e singolare. / E l’oste ch’era guercio e bolognese, / imitando di Venere il bellico / l’arte di fare il tortellino apprese!”