Il mio timoniere si chiama Francesco. Fa il vignaiolo qui come suo padre e suo nonno: è al posto di guida mentre mi guardo attorno cercando di annotare nella memoria più che sul taccuino, per non staccare gli occhi dal panorama. Francesco ha quarantotto anni, moglie e tre figli piccoli, sei ettari e mezzo di vigna, idee precise, più esperienza di quanto la sua età farebbe credere, tanta preziosa umiltà, altrettanta pazienza e un’automobile, sulla quale stiamo vagando nel territorio. Davanti a noi si snoda l’angolo d’Italia nascosto dietro le colline che costeggiano a oriente l’autostrada A26 all’altezza di Romagnano Sesia, nell’Alto Piemonte. Incastrato tra la sinistra orografica del fiume Sesia e la destra del Ticino che fa da confine regionale con la Lombardia, è un posto che pare bearsi, nel pomeriggio estivo, tra l’ultimo calore del sole e la promessa di frescura notturna delle brughiere in lontananza.
Geologicamente, siamo su uno dei principali bracci di morena del Monte Rosa, separato da una fascia di collina e bosco da quello maggiore che scende toccando Ghemme e che termina dopo Briona. Il ghiacciaio, giunto fin qui in epoche lontane, ha trascinato con sé attraverso il corso turbinoso di antichi fiumi una sedimentazione detritica eccezionalmente varia e incoerente, che è poi rimasta quando le temperature si sono rialzate e il ghiaccio è sublimato. Le terrazze moreniche residue si chiamano “pianalti”, l’insieme di pietre e argilla del terreno “complesso metamorfico”; l’argilla vi intrappola ciottoli e sassi della più varia natura e dei colori più diversi, dal verde al bianco, dal grigio all’ocra, dal rosa al nero, sovente sfavillanti di quarzi.