riso, misura
del mondo

Morello Pecchioli

Alimento prezioso da ottomila anni, il bianco cereale cresce praticamente ovunque, prestandosi con ineguagliabile generosità a vestire i panni di infinite interpretazioni sulle tavole del mondo.

“Te, almo dono del ciel, candido riso”: è il primo verso di un lungo poemetto didascalico, La coltivazione del riso, scritto a metà del 1700 dal marchese veronese Giovan Battista Spolverini per raccontare le qualità del bianco cereale, i luoghi “umidi e bassi” dove cresce e la “divin’arte” del coltivarlo. Se il frumento è l’oro, sosteneva il marchese-poeta, il riso è l’argento; se quello è il sole, questo è la luna.

Spolverini, insomma, pur elogiando il riso in una cavalcata poetica di cinquemila versi che piacque a Leopardi, ammette che il riso è un comprimario di lusso. Il grano, babbo del pane e della pasta, è l’indiscusso protagonista nei campi e sulla mensa. Primo per missione divina e per la storia.

Primo nel cuore degli italiani, popolo di santi, navigatori e, soprattutto, di pastasciuttari. Nemmeno Mussolini, che considerava spaghetti e maccheroni antifascisti, in grado di rammollire le virtù guerriere italiche, riuscì a convincerli a consumare più riso. Non vincendo la battaglia del grano, per limitarne l’importazione, provò a vincere quella del riso, promuovendone il consumo in tutti i modi. Perfino sulle copertine dei quaderni scolastici, dove erano raffigurati sorridenti mondine, un piatto di fumante minestra di riso e la scritta: “Un importante contributo alla battaglia autarchica è dato dalla produzione del riso e le festose mondine, con le gambe nel terreno limaccioso e col cappellone di paglia che le protegge dai raggi ardenti, procedono nel duro lavoro, cantando stornelli e canzoni d’amore”.