il garbo, valore intramontabile Armando Castagno Sono passati più di trent’anni dalla prima vendemmia del San Leonardo nella sua versione moderna. Eppure, a distanza di tutto questo tempo, la circostanza che più colpisce l’osservatore attento che presti attenzione alla vicenda di questo vino è sempre la stessa: il fatto che del progetto iniziale molto, quasi tutto, sia rimasto immutato. Non certo cristallizzato, non prigioniero di un’idea che non si ha la voglia o l’umiltà di ridiscutere, tutt’altro. È che quello avviato da Carlo Guerrieri Gonzaga nel 1974 fu un progetto prima di pensiero che di calcolo, e negli stessi valori sui quali si puntò all’epoca si crede ancora adesso. Così, nel panorama dei vini italiani di respiro internazionale, il suo rosso più importante ha sempre conservato un’immagine di eleganza fuori dalle mode. Verrebbe anzi da dire che, mentre il suo sistema estetico rimaneva fermo, il volubile mondo del vino gli girava attorno, per tornare poi al punto di partenza apprezzando di nuovo, da qualche anno e per fortuna, valori come l’armonia, la classe, l’incisività, che non significa, sterilmente, “peso”. Nessuna metaforica prigione, dunque, nonostante l’eremita san Leonardo di Noblac, cui è dedicata l’antichissima chiesetta all’interno della proprietà, sia – l’abbiamo imparato preparando questo servizio – il patrono dei prigionieri e degli incarcerati, e con una catena in mano è stato sempre raffigurato. Abbiamo però appreso di lui che è anche il patrono delle partorienti e degli agricoltori, ed era pur sempre un francese, tutte circostanze queste che ne fanno il dedicatario ideale di un vino. Interpretazione del “taglio bordolese” tra le più colte ed eleganti del mondo, il grande vino dei Guerrieri Gonzaga meritava dunque questa nostra indagine. Nelle intenzioni, essa è insieme approfondimento specifico e omaggio generale ai suoi valori fondativi, rari da reperire tutti insieme, e quanto mai preziosi: profondità storica, coerenza e cultura, estro e coraggio, universalità di linguaggio e radicamento territoriale, garbo nel porgersi, personalità nel raccontarsi. La Tenuta San Leonardo è un feudo di trecento ettari, di cui i nove decimi a bosco. Si trova nel comune di Avio, in Vallagarina, e più precisamente nella frazione di Borghetto all’Adige, storico confine meridionale del Tirolo storico. Della sua esistenza come toponimo a sé stante (con il suffisso “in Sarnis”) abbiamo notizie certe da carte topografiche che risalgono agli anni attorno al Mille; l’aneddotica relativa a periodi precedenti è invece piuttosto nebulosa. La costruzione della chiesa, decorata intorno al 1130-1150 dai frati Crociferi con affreschi da poco restaurati e di notevole interesse, risale più o meno all’anno 940; l’interno è fortemente caratterizzato dal gusto dei restauratori ottocenteschi. Nella Tenuta, vista e giudicata con gli occhi di oggi, sembra definirsi un contrasto inconsueto: quello tra la vastità degli orizzonti di pensiero degli uomini e delle donne che l’hanno via via abitata, e una situazione geografica piuttosto angusta. Stretta nel canalone scavato dal fiume Adige, qui vicinissimo, a poca distanza dal confine regionale fra Trentino e Veneto, e nella morsa di due gruppi montuosi quali i Lessini, verso est, e la dorsale del Monte Baldo, che chiude a ovest la vista del Lago di Garda, la Tenuta si è via via conquistata una fama planetaria grazie ai suoi vini. Camminando per i vasti viali, bordati di siepi e alberi enormi dietro cui si stendono le vecchie pergole, e più indietro ancora il brullo sfondo montano di dirupi, orridi e macchie, ci si innesta in una storia vertiginosa. Da sempre possedimento ecclesiastico, la proprietà passò di mano il 5 dicembre 1770, quando la famiglia de Gresti la acquistò dalla Curia, dopo aver peraltro gestito continuativamente la fattoria almeno dal 1646. Da allora, essa non ha mai cambiato proprietario; il matrimonio (1894) della marchesa Gemma de Gresti di San Leonardo (1877-1928) con Tullo Guerrieri Gonzaga (1866-1902), marchese di Montebello e ufficiale medico della Marina italiana, mutò il cognome dei titolari a favore dei Guerrieri Gonzaga, ma non la linea di discendenza. Gemma fu una donna straordinaria, il cui impegno filantropico ebbe risultati stupefacenti. Grazie alla sua personale opera di mediazione con politici e diplomatici, furono rimpatriati oltre 11.000 prigionieri trentini, dalmati e istriani durante la Prima guerra mondiale; il testo dell’armistizio, per inciso, fu preparato e redatto nelle sue linee guida all’interno della Tenuta. Tullo era il rampollo di una famiglia di origini molto antiche, il cui albero genealogico risaliva al condottiero parmense Niccolò di Ottobuono de’ Terzi (1406-1455), detto “il Guerriero”, da lui guidato; i suoi discendenti, passati alla corte mantovana dei Gonzaga, ebbero nel 1506 il privilegio dell’aggiunta del cognome dei Signori di Mantova al proprio. Nella partizione destra dello stemma presente sull’etichetta del vino, compare infatti l’arme dei Gonzaga, la croce patente rossa con le quattro aquile nere. Il figlio di Tullo e Gemma, Anselmo Guerrieri Gonzaga, nato nel 1895 e per tutti “Emo”, è il padre del marchese Carlo Guerrieri Gonzaga (1938), attuale proprietario di San Leonardo, e il nonno del figlio di Carlo, anche lui battezzato Anselmo (1978). Il nome del marchese Carlo ricorre in alcune delle storie più belle che il vino italiano possa oggi raccontare: è figura chiave nel “rinascimento” vitivinicolo italiano a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta. La genesi del suo progetto più ambizioso è spiegata dalle sue stesse parole. “Ho completato il corso di enologia a Losanna, ma ho poi imparato moltissimo sul campo, con Mario Incisa della Rocchetta. Quando sono tornato in Italia e in azienda da enologo diplomato, si faceva già vino, ma in damigiana. Mio padre, il giorno prima che tornassi, aveva assunto un tecnico locale, proveniente dalla scuola di San Michele all’Adige. Ho allora capito che non era aria di restare, e me ne andai in Toscana a studiare presso i Rossi-Ferrini, che era una famiglia di enologi con un bel laboratorio in piazza della Signoria a Firenze, e una nutrita lista di incarichi di consulenza. Era il 1959, avevo ventun anni. Ricordo che al laboratorio arrivavano dalla campagna i fattori con bottigliette di olio rancido da analizzare, c’era artigianalità, per dire così, e parecchia approssimazione. Avevamo molti amici in Toscana, e venni chiamato in altre aziende; una di queste era la cantina di Mario Incisa, che non era, come pressoché tutti hanno poi scritto, mio zio. In realtà era il fratello di mia zia, Domicella Incisa, sposata Maraini, il cognome di mia madre. Famiglie vicine, certo, ma non sono il nipote di Mario; lo scrisse Veronelli su ‘L’Etichetta’ e copia e ricopia l’errore si è tramandato. Mario mi incaricò di fare il vino da una vigna di un paio di ettari in cima alla collina di Bolgheri, sopra la vigna della Sassicaia, la cui uva era all’epoca mangiata per oltre metà dai cinghiali quasi ogni anno. Il castelletto era gestito e custodito da un eremita, un tipo stranissimo; studiai la situazione e riferii che fare il vino lì non era una buona idea: troppo poca acqua lassù per mantenere una decente pulizia. Si optò per costruire la cantina più in basso, ripensando la struttura del frantoio, e comprai allora due barrique in Francia, attendendole, ricordo, oltre un anno. Le feci quindi copiare in forma e capacità dalla Italbotti di Conegliano - la quale azienda usò ovviamente il rovere di Slavonia - e arrivammo a dieci. Quelle furono le prime barrique della Tenuta. Feci comprare l’attrezzatura base per la cantina, molte cose a Firenze, e iniziammo. Non c’entro quindi nulla direttamente con il Sassicaia, e fu al contrario molto importante per me quell’esperienza, perché poi altre aziende bolgheresi mi presero come consulente. Da Mario Incisa imparai moltissimo. Comprava prestigiose bottiglie di Bordeaux che io non potevo permettermi, e le assaggiava volentieri con me, ne parlavamo, me le ricordo ancora; qualcuna mi stregò davvero. Elaborai alla fine una mia visione personale sui Bordeaux della vecchia scuola, e ho sempre pensato che la gloria del posto si sia costruita su un gusto diventato poi minoritario e che solo adesso sta tornando in voga, piano piano, un gusto fatto di dettagli e sfumature più che di potenza e concentrazione.” Da qui in avanti, il racconto si sposta verso casa, dove Carlo fa ritorno al termine dell’esperienza bolgherese. “Certe convinzioni le portai con me a San Leonardo, ma per qualche anno affiancai mio fratello nella gestione delle altre attività di famiglia, come la lavorazione del cemento. Poi, mio padre Anselmo scomparve, era il 1974, e dovetti occuparmi direttamente io dell’azienda. In vigna, sulle varie terrazze, c’erano solo pergole: era da poco stato messo a dimora quello che pensavamo fosse cabernet franc, lì dal 1970 circa, poi c’erano i vecchi impianti di marzemino, merlot, una varietà locale di lambrusco, teroldego, trebbiano, persino della schiava; forse c’era anche dell’altro. Non feci spiantare tutto, ma quasi: avviai l’allevamento – sempre a pergola – delle varietà bordolesi. E poi, dal 1980, tentai su più vasta scala il guyot, il cui primo frutto, giovanissimo, finì nel San Leonardo del 1983; successivamente adottai anche il cordone speronato. Noi non lo sapevamo, l’avremmo scoperto molti anni dopo grazie all’aiuto del professor Scienza, ma quello che ci era stato inizialmente venduto come cabernet franc era per l’appunto carmenère, uva della quale sapevo poco, e di cui oggi penso molto bene. Non abbiamo mai pensato a sostituirlo perché ha trovato da noi un habitat eccezionale, fornendo al nostro San Leonardo una personalità originale e qualche elemento aromatico singolare, molto fresco ed elegante. Lo propaghiamo anzi con selezioni massali. Quando iniziai a dirigere l’azienda, esistevano già in zona ottimi vini, come il Fojaneghe Rosso dei Bossi Fedrigotti, che usciva dalla vendemmia 1961 e fu quindi tra i primi tagli bordolesi italiani in assoluto. E c’era da fare i conti anche con il vecchio San Leonardo della mia famiglia; si chiamava proprio così e aveva il suo pubblico di affezionati. Era nato all’inizio degli anni Sessanta, lo vendevamo facilmente, ma con il San Leonardo post-1982 non c’entra niente. Il vino storico della Tenuta, per cominciare, non era un taglio bordolese, bensì un uvaggio: si vendemmiava tutto insieme e si vinificava tutto insieme, nelle grandi vasche di cemento che usiamo tuttora. Poi niente legno piccolo, ma botti grandi di rovere di Slavonia da 60 ettolitri. A monte, nessun accorgimento in vigna per ridurre un po’ le rese, che erano generose e davano un vino decisamente più scorrevole e che mi sembrava di minore significato rispetto a quanto pensavo potessimo fare. La vera rivoluzione che abbiamo intrapreso dal 1982 è partita nel vigneto; con qualche difficoltà, a dire il vero. Davamo appuntamento agli operai la mattina presto per i diradamenti e le vendemmie verdi e questi non si presentavano proprio, ci contestavano, si rifiutavano: rinunciare in partenza a quote di raccolto era qualcosa di inconcepibile per loro, e li si poteva capire.” La prima annata del “nuovo” San Leonardo fu dunque la 1982. Qualcuno ha scritto trattarsi di una prova sperimentale, e probabilmente lo fu. Stupisce proprio per questo trovare ogni volta quel primo esemplare, unico del nuovo corso ottenuto da vigneti tutti a pergola, in forma ineccepibile, senza un cedimento o uno stento. Colpisce trovarci dentro accennati, ma perfettamente percepibili, i caratteri del San Leonardo degli anni successivi, più meditato e autocosciente, quando (1985) un enologo del calibro di Giacomo Tachis entrerà in azienda per impostargli la “sintonia fine”. “Chiesi a Piero Antinori se potesse dargli noia una mia richiesta di consulenza a Tachis; Antinori, da signore qual è, mi spronò a contattarlo” racconta il marchese Carlo. Dopo Tachis, cioè dal 1999, il consulente aziendale è Carlo Ferrini, il quale ha cambiato pochissimo, rispettando i protocolli messi a punto da Tachis e la filosofia della famiglia. E, a proposito di uomini decisivi, Luigino Tinelli è in azienda dall’inizio dell’avventura che qui raccontiamo; da tempo ne è il direttore e l’agronomo, ed è il vero braccio destro di Carlo e di suo figlio Anselmo. Classe 1953, ha sostituito Virginio Franchini come fattore nel 1977, alla morte di quest’ultimo. All’epoca, gli ettari di vigneto erano appena nove, c’era un solo trattore, i dipendenti appena quattro o cinque. Luigino, protagonista e motore dello sviluppo aziendale di quegli anni, ricorda bene la prima raccolta: “Ci aiutò madre natura, non avevamo idea del risultato che avremmo ottenuto. Esitavamo ad esempio sui diradamenti in pergola, non sapevamo quanto togliere, quanto lasciare. C’erano diverse opinioni in merito. Vinificammo tutto con estrema prudenza e un approccio sperimentale, anche in cantina, ma ci andò bene. Rammento questa nostra inesperienza trovare un alleato nell’andamento climatico di quel millesimo, che fu ottimo per le nostre varietà, e infatti il San Leonardo 1982 è sempre stato elegante e credo sia un vino potenzialmente longevo”. Più che il mero numero delle ore di luce, il fattore principale per spiegare la caratura elevata e costante dei vini della Tenuta sembra essere la sua scintillante qualità, il riverbero cristallino dell’aria in qualunque stagione; certe mattine sembra come un pulviscolo di brillanti, rifratti dal lago di Garda che specchia il cielo dietro i monti e dal biancore dei ghiacciai dall’altra parte, verso le Dolomiti. La struttura stessa dei vigneti e la loro posizione in relazione alle vette circostanti permette di abbattere diversi rischi fitosanitari, come l’oidio, frequente nelle esposizioni orientali se il sole colpisce direttamente la vigna umida dopo la notte. Qui, invece, il sole, schermato dalle vette, batte a partire circa dalle otto di mattina, e nei mesi di settembre e ottobre addirittura non prima delle dieci, dieci e mezza, quando cioè la vigna è già asciutta; poi si scatena il tipico alternarsi dei venti, caldi e freddi e da direzioni opposte, che caratterizza tutta l’area, dal nord del Veneto fino a Bolzano, e oltre. È un dato qualitativo importante, perché il territorio è piovoso: i millimetri annui di pioggia sono, in media decennale, circa 1.100 contro i 740 del dato nazionale; il vento è quindi il benvenuto, perché asciuga le uve e scongiura i ristagni di umidità. Dal punto di vista geologico, siamo su una piattaforma a elevata vocazione e tra le più antiche d’Italia se limitiamo la ricerca alle terre “da vino”. Le due rive dell’Adige all’altezza della Tenuta sono infatti banchi di scisti e di calcari scuri ricchi di fossili e ciottoli, senza argilla e con un po’ di limo, datati addirittura al Retico (il piano più recente del Triassico superiore: 199-203 milioni di anni fa). Le terrazze superiori, sopra i 200 metri, hanno cospicui inserti sabbiosi, e sono molto drenanti. Altro fattore fondamentale è l’escursione termica; la notte, per l’ultimo terzo del ciclo vegetativo delle viti, scendono correnti fresche dalle montagne circostanti; il vantaggio in termini di conservazione dell’intensità aromatica dei vini è notevole. Quanto alle altitudini, non vi è qui nulla di estremo. La parte vitata più bassa della Tenuta è attorno ai 130 metri sul livello del mare, ed è piantata a merlot; le vigne più alte, dai 200 ai 250 metri, ospitano le altre varietà. Tirando le somme, il cabernet sauvignon occupa 12 ettari di vigneto tutti a cordone speronato, il merlot 5 ettari di cui uno a pergola e quattro a cordone, il carmenère circa 4 tra pergole ultracinquantenarie (50 per cento, le vigne più vecchie dell’azienda) e guyot (50 per cento), il cabernet franc, quello vero, circa un ettaro a pergola, il poco petit verdot un ulteriore ettaro, a cordone. Il regime agricolo scelto è, dal 2015, il biologico, del quale in capo a due anni arriverà la certificazione. Del resto, l’ecosistema del luogo è da sempre improntato a una biodiversità accentuata. Elementi di questa varietà sono i boschi, 270 ettari di piante secolari le più varie, la flora e la ricca fauna, selvatica e allevata, nel cui ambito vanno citate le api, accudite da secoli in ossequio a una vera tradizione nella Tenuta. Inoltre, nel segno della sostenibilità energetica, si produce qui con impianti fotovoltaici oltre un terzo dell’energia consumata. La Tenuta produce cinque vini. Il San Leonardo, il Villa Gresti e il Terre di San Leonardo sono tre tagli bordolesi classici in ordine decrescente di ambizione e prezzo. Il Villa Gresti è ad ampia prevalenza di merlot (90%) con saldo di carmenère e appare in crescita costante annata dopo annata; la sua limpida evocazione boschiva, floreale e fruttata ci è parsa talvolta passare ingiustamente inosservata, salve poche eccezioni; forse per via della presenza di un “fratello maggiore” dal carisma indubbiamente ingombrante. Le altre due etichette sono un carmenère in purezza col semplice nome della varietà e un bianco, il Vette di San Leonardo, solo sauvignon blanc da vigneti nella Piana Rotaliana, vicino Roverè della Luna, seguiti direttamente dall’azienda. Le vinacce sono trasmesse a un artigiano di Affi per la distillazione della grappa, in due versioni. Il San Leonardo, da taglio bordolese ortodosso qual è, deriva anno dopo anno da percentuali diverse di vitigni, determinate dopo attento assaggio da barrique di vini monovarietali. In media, il cabernet sauvignon figura, nel taglio finale, al 60%, il carmenère al 30, il merlot al 10. Nonostante si siano avvicendati qui enologi di grande prestigio, il protocollo di vinificazione, praticamente mai cambiato, sconcerta per la sua semplicità. Tutti i vini fermentano senza inoculo di lieviti e senza controllo della temperatura in grandi vasche di cemento, a livelli di anidride solforosa tenuti da sempre bassi; la malolattica viene preferibilmente svolta in cemento alla fine della fermentazione alcolica; è sufficiente tenere calda la cantina perché parta e si completi. La maturazione avviene in barrique per un terzo nuove, un terzo di secondo passaggio e il resto di terzo passaggio, e dura dai 18 ai 24 mesi a seconda della “risposta” del vino all’élevage in legno. Il vino sosta poi per circa un anno in bottiglia prima della commercializzazione, che oggi riguarda un numero di “pezzi” che si è ridimensionato, passando dalle 95.000 bottiglie di annate come la 2001 alle attuali 75.000. Il lotto d’imbottigliamento può cambiare, ma si riferisce sempre a un’unica massa, sebbene sia giocoforza effettuato in più giorni consecutivi e quindi cambi “codice”, secondo legge. Infine, resta da parlare della resa di questo vino a tavola: paragrafo esaltante da scrivere e più ancora da verificare. Un rosso dal tratto elegante come il San Leonardo, lontano anni luce dal pernicioso concetto “additivo” del vino importante, mostra nel rapporto col cibo una duttilità ammirevole. Ha trasparenza e profumo, articolazione e persistenza, una qualificante sapidità, un equilibrio incrollabile. L’azienda, garbatamente, lo segnala adatto ad accompagnare carni rosse, pollame nobile e brasati. Noi, da sommelier, saremo più specifici: è rosso sensazionale per il piccione, l’agnello, le quaglie, i fagiani, le pernici, il cinghiale; per formaggi come il Taleggio, il Roquefort, la Fontina e il Camembert; in stridente contrasto quanto alla nobiltà di natali, è perfetto per la cucina del “quinto quarto”, con menzione speciale per le animelle, il rognone, la coda e la trippa; “sente” infine il tartufo nero, le castagne, i funghi, le riduzioni, le salse alla frutta (mirtilli, fichi, prugne), e tiene il punto contro speziature anche coraggiose e guarnizioni a base di erbe aromatiche, come maggiorana, rosmarino o timo. 2011 (Anteprima) Fioritura assai precoce al 20 maggio, e fortunatamente: sono infatti seguite copiose piogge fino alla seconda decade di giugno, che avrebbero reso la fioritura molto irregolare. Ottimo svolgimento di lì in avanti, con rilevanti escursioni termiche e maturazioni perfette arrivate abbastanza presto. Vendemmia iniziata con il merlot il 20 settembre e terminata il 10 ottobre con i cabernet. Bel colore trasparente fino al cuore, evidenti riflessi violacei. Ottima intensità dei profumi, con la componente speziata in disparte rispetto alla nettezza di peonia, pepe rosa, ribes e aspetti balsamici di ginepro e rosmarino. All’assaggio è ancora rigido, piuttosto caldo e potente, per nulla pesante tuttavia; l’eleganza del finale, a ben guardare, è enfatizzata da una freschezza eterea quasi da olio essenziale. Nel bicchiere tende all’ispessimento sulle due ore; compaiono note di maggiore maturità (cacao, liquirizia) e l’insieme si scurisce. 2010 Annata in controtendenza rispetto a molte altre zone del Nord Italia, qui piovosa e variabile, soprattutto in mesichiave come agosto e settembre. La stagione era inoltre iniziata tardi, con fioritura al 10 giugno e invaiatura al 20 luglio. La raccolta del merlot è iniziata a metà settembre e per la fine del mese era stato raccolto tutto; per ultimo, il carmenère. Buon rubino di media concentrazione e bella luce. Serve qualche minuto al bouquet per liberarsi di una nota un po’ polverosa, superata la quale emerge un profilo dolce e carnoso, molto gourmand (cassis, fiori azzurri, menta) che trova conferma al palato, dove il vino si stende bene, setoso e bilanciato fino alla fine. Uscita gradevolmente amarognola, di media persistenza. Col passare delle ore, note ancora più amare e una più chiara evocazione di sottobosco (foglie, radici, ruta). 2008 Scarsità di piogge e notevole precocità, all’opposto ad esempio di quanto avvenuto in Francia. Qui solo 409 mm caduti da aprile a ottobre, e fioritura del merlot addirittura a maggio. Vendemmia di uve molto zuccherine in tempi ordinari, tra il 20 settembre e il 10 ottobre. Una stagione asciutta e regolare. Rubino netto, luminoso, quasi senza bordo. Splendido e coinvolgente il profumo, che fa venire in mente una vetrata liberty per la sua languida raffinatezza: sa di lillà e violacciocca, gelsi e ginepro, assenzio e sali da bagno; l’ossigeno enfatizza la componente floreale di questo raffinatissimo bouquet. Più materico, ma sempre elegante, in bocca, succosa, longilinea e dal tannino gentile, stondato; la viva acidità contribuisce a delineare una scia pulita e coerente, lunga ma perfettamente composta. Classe e misura in un’edizione da ricordare. 2007 Eccezionalmente precoce, questa annata ha registrato temperature medie di oltre 17 °C nel mese di aprile, e a metà maggio le vigne erano già in fiore. Pochissima pioggia nei primi mesi estivi, assai di più in agosto, ma concentrata in pochi giorni; uve perfette dalla vendemmia, protrattasi per un mese, accurata e in più passate, fino a inizio ottobre. Colore tra i più concentrati della verticale e approccio olfattivo in linea con le attese. È una versione più grassa e larga del consueto, impostata al naso su note dolci e mature, schiettamente fruttate e senza un cenno vegetale o erbaceo. L’assaggio ne rivela una struttura estrattiva non timida e una gagliarda voce tannica; sfumato il ruolo dell’acidità; lascia alla fine l’impressione di un vino dai modi più sbrigativi degli altri del suo periodo storico. 2006 Annata “classica” dal punto di vista meteorologico, con tempi fenologici nella norma; unico dato anomalo, la piovosità del mese di giugno, molto alta, ma bilanciata da un luglio soleggiato e asciutto. Alternanza anche tra agosto, umidissimo, e settembre, perfetto; il 25 settembre, in un clima caldo di giorno e freschissimo di notte, è iniziata la vendemmia del merlot, il 10 ottobre termina quella del cabernet sauvignon. Colore decisamente intenso, con bordo di un rosso brillante. Naso più profondo che ampio e con la decisa impronta varietale di un cabernet prepotente; l’intreccio fruttato-balsamico la fa da padrone, con qualche vibrazione erbacea appena cruda. Bocca di un certo spessore, puntellata dal tannino, che però è più saporito e meno asciutto di quello del 2007. Pulita la chiusura, non lunghissima. Prospettive di evoluzione inferiori alla media dell’etichetta, come confermato dalla sua reazione non del tutto positiva sulle 24 ore, quando appaiono note di torrefazione e cacao. 2005 Un aprile piovoso ha inaugurato l’annata, che ha poi cambiato rotta con una primavera bellissima, tanto da dar vita a invaiature precoci al 15 luglio. A seguire, un brutto agosto e il solito, splendido settembre; vendemmia operata tra il 19 settembre e il 9 ottobre, perfettamente nella norma. Rubino vitale, primi cenni granato al bordo. Il naso appare completamente differente dai vini assaggiati prima; la percezione di maturità del frutto è così netta che occorre scomodare descrittori di frutta nera e spezie, appena alleggeriti da sfumature di cardamomo, pepe verde e forse finocchietto. Quieto e pacioso al sorso, ha meno volume dei due vini descritti prima di lui, ma brilla nel finale per una certa eleganza di struttura e per la precisione dell’acidità. Ottimo comportamento nel calice; cresce continuamente per ore, sa trasformarsi, con espansione e progressiva messa a fuoco della componente floreale. 2004 Un millesimo in zona davvero capriccioso. L’andamento climatico è risultato diviso in due; molto negativi, umidi e freddi aprile, maggio e giugno; da luglio in poi bel tempo, tanto sole e temperature calde, e la vigna ha così recuperato quasi tutto il tempo perduto. Rimane una vendemmia abbastanza tardiva, iniziata il 5 ottobre con i merlot e terminata con il carmenère il 23 dello stesso mese. Buon colore tra il rubino e il granato trasparente e naso classico per il San Leonardo, una vera sintesi della sua espressione più tipica: eucalipto e felce, spezie, ciliegia, poi ancora curcuma, iodio, terriccio. Bocca di medio peso e grande finezza nella trama, ritmata da un tannino minuto e maturo, acidità dal perfetto calibro e finale elegante e puro. 2003 Scarse precipitazioni e caldo torrido nei mesi estivi il denominatore comune di questo bizzarro millesimo qui come altrove in Europa. Nei mesi di giugno, luglio e agosto la temperatura media è stata superiore ai 24 °C, e tutte le fasi fenologiche sono risultate anticipate. Nel clima fresco della Tenuta, però, non si è mai arrivati agli eccessi registrati altrove, e le piante hanno sempre continuato la loro fotosintesi. La lunghezza del ciclo vegetativo è stata alla fine normalmente estesa, con vendemmia al 21 settembre conclusasi il 12 ottobre con il cabernet. Rubino compatto con orlatura granato, appena meno brillante dei vini più giovani. Il naso è una letterale bordata di vapore balsamico, talmente forte che tende a semplificare la silhouette celando il resto (aloe, liquirizia, saggina, radici). Bocca austera e continua, una sorta di turbina lenta a mettersi in moto, ma che quando lo fa lancia una delle persistenze più tenaci e incisive della verticale intera. Solita storia: questi grandi 2003 italiani non somigliano che a se stessi, ma dal punto di vista del carattere ci sono ben poche censure possibili. 2001 Annata classica in tutto, anche nell’andamento stagionale, fatto salvo l’inizio di settembre, piuttosto piovoso. Per il resto, una stagione praticamente perfetta, con umidità insolitamente basse, vendemmia iniziata il 26 settembre e conclusasi il 15 ottobre. Granato, riflessi rubino, affascinanti trasparenze. Gran naso di rosmarino, prugna fresca e metallo, molto speziato e altrettanto vigoroso. Anche la bocca non scherza quanto a slancio ed energia, nel dialogo serratissimo tra tannino e sale, tra acidità e dolcezze alcoliche; finisce lunghissimo lasciando alla percezione del retrolfatto una cornucopia di aromi, anche più di quelli percepiti al naso. In beva, ma riteniamo possa progredire ancora: chi ne possieda grandi formati può ancora tenerli in cantina una buona decina d’anni almeno. 2000 Come noto, fu un’annata asciutta; soltanto 229 mm di pioggia tra aprile e ottobre, dato tra i più bassi del Dopoguerra e il più basso dal 1983. In particolare, non ha pressoché mai piovuto a maggio e giugno, e mai a settembre, con vendemmia partita a metà mese e finita entro la prima settimana di ottobre. In zona, il millesimo va considerato, soprattutto dal punto di vista della qualità aromatica, superiore alla media del Nord-est italiano, soprattutto per via delle escursioni termiche di 15 gradi in media tra il giorno e la notte nelle prime due settimane di settembre. Eccezionale tenuta del colore, nettamente rubino e di concentrazione media; naso spiazzante: oscuri toni empireumatici e affumicati lo timbrano e lo semplificano; ciò che di altro si coglie è timido e originale (erba medica, pesca matura, asfalto, liquirizia). Bocca molto rigida, forse troppo; la maturità dei tannini non appare compiuta, e il finale è piuttosto asciugante e contratto. 1999 Altra annata di scarse piogge, 480 mm tra aprile e ottobre, e tra l’altro quasi tutti caduti in aprile e a fine agosto. Molto caldo in estate, per una concentrazione zuccherina delle uve rivelatasi in vendemmia piuttosto alta; vendemmia del più precoce merlot avviata il 27 settembre; quella del cabernet è finita il 15 ottobre. Ammirevole tenuta del colore, appena brunito da riflessi granato. Quel che colpisce del suo splendido impianto olfattivo è la coesione, la compattezza; raffinato l’intreccio di mirtilli, ribes, terra, spezie dolci e fiori, e vibrante l’assaggio, fresco e nervoso, vitale, appena amaro in fondo, dove si affaccia un calore confortante nel dilagare della sapidità. Una bottiglia splendida, vera via italiana al taglio bordolese, qui stemperato nei suoi toni “freddi”, come se l’immagine classica dell’archetipo francese fosse stata portata in piena luce. Da bere o da conservare, soggettivamente; sono entrambe buone idee. 1997 Annata ovunque positiva, ma qui particolarmente riuscita: poco piovosa, con insolazione nella media, rilevante escursione termica di 17 gradi a settembre e ben 13 a ottobre, dato quest’ultimo veramente inconsueto. La fama di annata precoce è qui smentita dalla data di inizio vendemmia, il 2 ottobre per il merlot, il 20 per il cabernet senza una goccia d’acqua nel periodo di raccolta. Rubino sfumato di granato all’orlo; carattere aromatico elegante e sfaccettato, ma apporto dei legni insolitamente evidente nelle note di cannella e sandalo, che ne affiancano di più ispirate di incenso, ribes, erbe da Vermouth e rosa canina. Bocca di notevole carisma, che non ha perso nulla in volume in quasi vent’anni, anzi appare oggi più articolata e minuziosa di quando uscì in commercio, salutato come uno dei più grandi rossi italiani del 1997. Ci sembra confermare il giudizio; del resto il suo è notevolissimo millesimo da noi per i grandi vini da taglio bordolese. 1996 Annata di alte acidità ovunque, dovute, dopo una fioritura nella norma, a un’estate piovosa e fredda; la qualità delle uve è stata poi rimessa in sesto dal bellissimo settembre, che ha visto piogge inferiori alla metà della media mensile del decennio precedente. La vendemmia è terminata il 19 ottobre, con qualche pioggia nella sua seconda fase; complessivamente, a San Leonardo, un esito migliore per le uve precoci che per le tardive. Colore granato caldo, acceso di bagliori. Apertura aromatica di notevole ampiezza alla prima indagine olfattiva, con note di testa nettamente speziate e una bella profondità fruttata; con l’aria si fanno strada note agrumate, un insistente aspetto balsamico di mentolo e rosmarino e una nuance minerale descrivibile quasi come “metallica”. All’assaggio attacca quasi con foga imponendo una verve imprevedibile; ampio e convinto, bevibile e fresco, con un tannino piuttosto dimesso che lascia infine il campo dell’assaggio alla dirompente acidità; il finale, ferruginoso e duro, è una strettoia di austerità. Ennesimo 1996 italiano “timbrato” dall’acidità, ma in questo caso senza particolare discapito per l’espressione generale, che non è poi così chiusa. 1995 Andamento regolare con poca pioggia salvo che a maggio, molto umido, al contrario di ottobre, in cui il numero di ore di sole è stato il più alto del decennio e la pochissima pioggia caduta è arrivata a vendemmia già ultimata, cioè dopo il 18 ottobre, data di fine raccolta del cabernet sauvignon. Primo vino della verticale a mostrare qualche segno di involuzione; il colore è granato, ma meno vitale dei suoi successori, e il naso, con un filo di alcol in evidenza, appare poco definito. L’insieme rimanda al sottobosco autunnale, con qualche sfumatura di tè in foglie, oliva, iodio, frutta fermentata e tabacco alla menta, e al gusto è tannico e amarostico, crudo nella componente acida, nettamente rugginoso in fondo, dove all’estensione del finale non fa da contrappunto un’adeguata complessità. Due bottiglie assaggiate, coerenti tra loro; pare all’inizio della fase discendente. 1994 Annata dallo svolgimento davvero singolare; la concentrazione massima delle piogge (686 mm d’acqua da aprile a ottobre) parve aver preso di mira i momenti salienti del ciclo vegetativo della vite: maggio, giugno e settembre (246 mm). Temperature invece nella media per tutto l’arco della stagione. La vendemmia alla fine è stata precoce, con valori medio-alti di acidità rispetto alla media, ma dolcezza zuccherina e quindi alcol potenziale perfettamente in linea; terminò il 6 ottobre. Rosso granato trasparente molto leggero al cuore, ha naso senza segreti, aperto e generoso, caldo, tutto sul frutto sebbene non sia facile “andare per descrittori”. L’insieme, un po’ scalciante, desta comunque interesse, e si trasforma in una mezz’ora in un bel coacervo di fiori essiccati e resine. Al gusto è più centrato sin da subito; l’acidità ne è protagonista, tanto da irrorare il sorso e tenere alta la tensione nonostante l’evidente diluizione del centro bocca. Epilogo pulito, dai richiami floreali. Una bella sorpresa; regge botta allo scorrere del tempo, pur non potendone uscire, crediamo, il “genio della lampada”. 1993 Annata a forte rischio dal punto di vista climatico, in cui le condizioni meteo sono improvvisamente peggiorate proprio nei pressi della vendemmia dopo svolgimento caldo e asciutto. A San Leonardo è una raccolta per così dire “salvata” dal tipo di cultivar presenti nelle vigne: il tempo fu pessimo tra il 25 settembre e il 5 ottobre, ma il merlot era stato raccolto il 22, il cabernet venne invece vendemmiato oltre il 10 del mese dopo. Sale dal vino, di un granato intenso, un profumo diviso tra un côté balsamico e uno più autunnale e improntato al tabacco; la componente fruttata, fatto raro nel San Leonardo, si è praticamente eclissata, e quella floreale ha toni dimessi e macerati. All’assaggio è, più che elegante, inoffensivo; si sviluppa con fare esitante su toni genericamente morbidi, e non brilla né per ampiezza gustativa, né per tenacia della persistenza. L’evoluzione sulle due ore chiude il vino su un profilo maturo, cioccolatoso, poco in linea con i suoi esiti migliori. 1991 Annata delle decisioni difficili: l’andamento climatico non fu positivo, con tanta pioggia per tutto il ciclo vegetativo, salvo che nel mese di agosto, rovente (fino a 39 °C e con media di 33 °C) ma capace di salvare la vendemmia da solo. Ottobre, il mese della raccolta, vide venir giù 145 mm d’acqua, e il tutto spiega le viperine acidità del millesimo nella zona. Colore spiazzante, denso e quasi impenetrabile; naso evoluto su toni caldi e maturi, su tinte fungine e di catrame, e su una precisa evocazione minerale quasi gessosa; tutto confermato dall’assaggio, poco tannico ma sapido da morire, e nel quale certo non mancano gli estratti; a latitare è piuttosto il senso di soffusa eleganza che qualifica le annate più riuscite. Chiude in modo abbastanza sbrigativo. Più assaggi negli ultimi anni dall’esito simile, non esaltante. 1990 Grande annata anche climaticamente, con poca pioggia: 380 mm contro media di 570 tra aprile e ottobre. Altissimo il numero di ore di luce, 1407, record degli ultimi trent’anni. La vendemmia tuttavia non fu affatto precoce, come in molti pensano, ma perfettamente regolare, come in quasi tutti gli altri territori classici italiani, e terminò qui il 18 ottobre. Bottiglia grandiosa, forse il vertice della degustazione. Davvero difficile alla cieca non prenderlo per un Premier Cru di Bordeaux. Il colore è limpidissimo, il naso ricco e pieno di sfumature: mirtillo, legno di cedro, rabarbaro, felce, pepe verde, e ancora china, aloe, noce moscata. A tanto dettaglio fa riscontro una bocca di superba bellezza, impetuoso slancio acido, perfetta maturità fenolica, lirico afflato finale in cui l’energia si stempera in una specie di accordo polifonico. Un’esperienza, peccato sia così raro. 1988 Maggio piovoso ma estate poi molto asciutta e soleggiata e 40 giorni di temperature diurne sopra i 30 °C tra luglio e fine agosto. Un settembre graduale e fresco, con quasi 16 gradi di escursione termica media giornaliera, finì per spostare in avanti la data vendemmiale: al 6 ottobre per il merlot, al 15 per il carmenère, al 23 per il cabernet sauvignon. Colore luminoso, ma ormai con chiare sfumature arancio chiaro. Il naso è davvero bello: un fruttino integro e asprigno tiene per diversi minuti il campo, poi gli succedono la classica nota balsamica e qualche tratto, molto tipico per il millesimo, di liquore alla frutta. Bocca cremosa, anche più del previsto, con un tannino dolce e stondato e pregevole integrazione dell’acidità al corpo del vino; propone alla fine, in un epilogo gradevole e persistente, qualche eco speziata, di liquirizia, di bacche. 1987 Germogliamento e fioritura molto irregolari per via di piogge intermittenti e violente nel periodo tra aprile e giugno; dei mesi estivi, solo luglio fu buono; il pessimo ottobre, con 160 mm di pioggia e soltanto 74 ore di sole (la media è doppia) determinò la vendemmia di uve parzialmente non mature e impoverite dal punto di vista del potenziale aromatico. Altro vino dall’eccellente tenuta del colore, granato acceso e trasparente al centro. Bouquet tuttavia da definirsi “varietale” per buona parte, e per questo, alla fin fine, limitato; si avvertono le note vegetali delle uve bordolesi a media maturità (bambù, peperone verde), accanto a suggestioni mentolate, speziate e di cuoio, e qualche vaga idea di fiore amaro, quasi di propoli. C’è più spessore nel sorso, per via di un tannino un po’ terroso, e anche più ricchezza aromatica in retrolfatto; la progressione non è travolgente, ma l’uscita nitidamente balsamica lascia un buon sapore e un bel ricordo. 1986 Annata divisa nettamente in due dal lato meteorologico: primavera e inizio estate deludenti, piovose, fredde e relativamente buie, tempo caldo, secco e soleggiato da luglio in poi, tanto che la raccolta finì al tardo mese di ottobre ed è tra le più tardive della storia a San Leonardo. Proprio quel mese di ottobre segnò temperature medie diurne di 23-24 °C e notturne anche sotto i 7 °C. Colore e profumo molto maturi; forse, nel complesso, è l’annata più terziaria della verticale, pur non mostrando alcunché di ossidato o decaduto. Al naso richiama il miele di castagno, il creosoto, l’humus, con qualcosa di salmastro sullo sfondo, un frutto quasi in caramella e qualche tono di legume. Bocca altrettanto interlocutoria e irrisolta, dal tannino addolcito e con acidità non svettante. La chiusura è rapida e senza sussulti. 1985 Annata molto positiva dopo la tremenda gelata invernale che sterminò piante di vite e di ulivo in tutta Europa. Da maggio in poi l’andamento fu pressoché perfetto, con il secondo numero di ore di luce nel ciclo vegetativo degli ultimi quarant’anni nella zona, oltre 1.400. Vendemmia di splendide uve da inizio ottobre, finita intorno al 25 del mese per le varietà tardive. Colore scuro ma ancora teso, comunque non saturo. Gran naso di mare e fiori, una vera bordata, solo un poco monocorde per la prima mezz’ora; apre poi a sfumature floreali di lavanda, al quasi immancabile eucalipto, a qualche rimando di cenere e brace, alla scorza di agrume essiccata. Il sorso è maestoso per ampiezza, vellutato ed elegante, sostenuto e ritmato da una struttura tannica ancora imponente; chiude molto bene, in perfetta rispondenza. 1983 Annata dal clima peculiare: dopo una primavera soleggiata ma nella norma per temperature e precipitazioni, arrivò un’ondata di caldo senza precedenti nel mese di luglio, e il basso Trentino non fece eccezione (quasi 40 °C tra il giorno 11 e il 16). Scarsissime le precipitazioni estive; vendemmia precoce e asciutta per tutte le varietà di uve cariche di potenziale alcolico. Tipica performance di annata molto calda; rivela la sua tempra nel corso degli anni, pur senza approdare mai a un’autentica classicità. Qui il colore è granato integro e il bouquet richiama profumi di castagna, pellame, confetture, tabacco dolce, macis, alloro; parimenti dinamica è la bocca, piuttosto generosa ma completa, bilanciata. Il compiuto addolcimento del tannino e la mancanza, forse genetica, di una mineralità degna di questo nome determinano la mancanza di un controcanto di durezze al senso di soavità che oggi spande; ma affascina e commuove ugualmente. 1982 Annata regolare nel Nordest italiano, probabilmente la migliore dal 1971 nella zona specifica. Poche piogge concentrate quasi tutte a maggio e settembre, molta luce, buone escursioni termiche. Vendemmia nella media dell’epoca (dalla prima alla terza decade di ottobre) di uve con potenziale alcolico interessante e acidità appena più basse della media. Primo San Leonardo del nuovo corso, della cui avventurosa confezione abbiamo trattato nel testo di presentazione. Il vino, tuttavia, di sperimentale e approssimativo non ha niente, tutt’al più, forse, una semplicità insolita nel celebrato millesimo. Profuma di aghi di pino e agrumi a mezzo metro dal calice, con qualche rilancio minerale di grafite e lieve eco floreale; tiene bene anche al gusto, spontaneo e calibrato, dai tannini risolti ma dall’acidità ben viva, in un contesto di equilibrio e misura. Freschezza e balsamicità caratterizzano il finale. Un esito su cui riflettere: nonostante pratiche “sperimentali”, si è rivelato in pratica una fedele anticipazione, sia pure in scala, di quanto di meglio il San Leonardo ci avrebbe poi regalato nel prosieguo della sua vicenda. Perché in fondo le cose stanno esattamente come diceva Shakespeare: ciò che è passato, è prologo.