l'altra
rivoluzione francese

Roy Zerbini

C’è una data nel mondo del vino che segna la fine di un sogno, o che tramuta un sogno in realtà: il 1976, l’anno della disfida di Parigi tra vini francesi e americani. Con tutte le dovute cautele, perché, astutamente, le vendemmie non coincidevano per privilegiare una certa nuova freschezza tannica che nel 1973 aveva caratterizzato alcuni vigneti lungo il Silverado Trail: qui le viti, al cospetto delle colline, beneficiavano di un’escursione termica che, se ben controllata nella maturazione della bacca, offriva al vino la possibilità di trattenere freschezza olfattiva e tannicità rinfrescante, nonostante il legno nuovo delle barrique e la tostatura un po’ spinta che lo stile del Nuovo Mondo aveva imposto. La media dei punteggi arrise a un vino della Napa Valley, che primeggiò su una triade del Médoc.

La stampa francese impiegò qualche mese a metabolizzare l’accaduto e, nonostante l’evidenza, cercò in tutti i modi di ammorbidire le spigolature di una sconfitta dai connotati di una ghigliottinata bella e buona per le coronate teste del Bordeaux. Appunto, fu più che altro un taglio di testa e non di sostanza organolettica, anzi si potrebbe dire che fu tagliuzzata la corona d’alloro posta sulle bottiglie dei vini bordolesi, considerati vittoriosi, i primi della classe, fin dalla discussa gerarchizzazione del 1855: vincenti fummo, vincitori siamo! Tale certezza autarchica fu frantumata da quella “disfida”, che fu più uno scombussolamento psicologico che di sostanza. Nell’ambito analitico dei punteggi le differenze non giustificarono alcunché, non crearono nuove nobiltà e alla fine il vantaggio maggiore lo ebbero i francesi, alla cui ruota si accodarono gli italiani, poi gli spagnoli e sulla scia il Nuovo Mondo appena nascente, dall’Australia, all’Argentina e al Cile.